People from BAM! 2022

È stata l’estate del boom per il bikepacking. Ciclisti di tutti i livelli hanno scelto di andare in vacanza in bicicletta. Chi super tecnico, con obiettivi ambiziosi e sfide impegnative, chi per provare l’ebbrezza una volta nella vita di sentirsi libero, con due borse attaccate ad un telaio e il minimo indispensabile. A tre mesi dall’edizione del 2022 del BAM!, il festival di riferimento in Europa per i cicloviaggiatori, vi raccontiamo questo evento con le voci in presa diretta, in modo che lo possiate mettere in agenda fin d’ora per l’edizione 2023.

Intervista: Claudio Ruatti e Davide Marta
Ospiti: Augusto Baldoni, Andrea Benesso, Michele Boschetti, Piergiorgio Catalano, Federico Damiani, Jacopo Lahbi, Giulio Mancini, Mattia De Marchi e tanti, tanti altri.
Sound design: Brand&Soda


Affinità

C'è un rapporto particolare tra Thibaut Pinot e l'Italia, particolare e reciproco. Qualcosa che si potrebbe sintetizzare in quel "Tibò", scritto così, come si pronuncia, oppure nella scritta sul suo braccio destro, "solo la vittoria è bella", quasi uno scambio di linguaggio, di comprensione. Per descrivere questo rapporto, questa reciprocità, noi torniamo a Como, in un fine settimana autunnale del 2018, in un angolo della sala stampa, dopo quell'assolo di 14 chilometri circa di Pinot, dal Civiglio alle acque calme del lago.
Già, perché proprio quel giorno "Tibò" Pinot descrisse l'Italia, aiutandosi con la mimica, con gli occhi: parlò delle sue strade, dei suoi vicoli storici, caratteristici, dei suoi scorci sempre diversi, anche a distanza di pochi metri, e poi del suo linguaggio, della sua lingua, dei suoni che a Pinot piacciono. Quel giorno, dopo il duello con Nibali, questi erano i suoi pensieri. Quel giorno, dopo il dolore di qualche mese prima, queste erano le sue parole.
Quegli stessi occhi, ma con uno sguardo diverso, li avevamo visti a maggio, a fine giro, a un passo dal podio, anzi, a un giorno dal podio di Roma, afferrato il giorno prima a Bardonecchia. Eravamo a Cervinia, ormai oltre quaranta minuti dopo l'arrivo di Nieve, vincitore di quella frazione. Thibaut Pinot sembrava svuotato, non c'era mimica, non c'era niente, forse solo la speranza che quella sensazione passasse, anche solo per arrivare a Roma. Anche quella speranza era bella, non solo per Pinot, perché quel giorno di Pinot chiedevano in tanti nel via vai di un arrivo in salita. Crisi profonda, ritiro.
Le delusioni che feriscono, che spengono i fuochi o li accendono, li fanno divampare. In quel Lombardia il fuoco è divampato, descritto, raccontato come un esperto d'arte, come all'amico che arriva nella tua città, nella tua nazione, quella che senti tua. Quel fuoco si era acceso da ragazzo, alla vittoria del Giro della Valle d'Aosta, a diciannove anni. Era lì, una fiamma, in attesa, in divenire, tra sogni e desideri. Raccontati allo stesso modo in cui mostra quelle parole sul suo braccio.
Quello di tornare, ad esempio. A fine Giro d'Italia 2017, addirittura, l'unico desiderio. Tutto in quel pensiero, tornare dove "non ho visto nulla di negativo". Anche se era stato quarto, alla fine, sempre di poco, sempre giù dal podio. Eppure il legame si stringe, si amplia, diventa più forte. Non è più solo ciò che si desidera, ma quel che si vuole. Perché a Superga, pochi giorni prima di quella vittoria e di quella storia sull'Italia, Pinot, vittorioso alla Milano-Torino, è un corridore che ha voluto la vittoria, che ha voluto questa vittoria in Italia. Lo sottolinea lui stesso. Avvicinamento e allontanamento continui.
È giusto parlarne perché, proprio in questi giorni, Pinot ha annunciato che nel 2023 sarà al Giro d'Italia. Di più: che, al Giro d'Italia, le montagne saranno il suo grande traguardo, ciò a cui punta. Sono accadute tante cose da quel 2018, tante delusioni, sì, le stesse di quei fuochi che si spengono e si accendono, le stesse delle affinità che sono somiglianze da cercare e vivere, le stesse, anche, della bicicletta, degli esseri umani. Eppure Thibaut Pinot continua ad avere quella voglia, la stessa che l'ha fatto piangere sotto la pioggia, a Lienz, al Tour of the Alps dello scorso anno, dopo una vittoria, dopo tanto tempo. E sarà proprio con quella voglia che tornerà al Giro d'Italia, cinque anni dopo. Si tratta delle affinità.


Le cronache del ghiaccio e della neve

Per raccontare la gara di oggi in Val di Sole serve mettere da una parte il contorno, notevole, e dall’altra i contenuti tecnici, in una gara che ha visto corridori in difficoltà nello stare in piedi su un tracciato che doveva essere una gara di ciclocross sulla neve, ma alla fine si è rivelato un ciclocross sul ghiaccio.
È tutto all’ombra il percorso, con la neve battuta e spalata in diversi tratti e un terreno duro, durissimo, ghiacciato; i corridori battono i denti alla partenza, mentre il pubblico si scalda guidato dallo speaker e accompagna il via muovendo le mani a ritmo. Per incitare, per scaldarsi.
Il ritmo è una parola chiave, c’è chi lo trova subito, come Kuhn: il binomio neve e Svizzera, se pensiamo, tanto per fare un nome, a Odermatt, in questo momento è tornato molto in voga da un punto di vista dei risultati e l’elvetico veste per un po’ i panni di quel fenomeno che non sbaglia una gara - in altro sport - e parte forte, come per altro ci sta abituando in stagione, tenendo davanti la sua maglia rossa di campione nazionale che risalta sul bianco accecante che caratterizza il percorso.
Il ritmo lo tiene quella solita apoteosi portata avanti da campanacci e motoseghe che pare davvero una gara di sci alpino oppure nordico e che fa da colonna sonora a chi rimonta, cade, frena, tiene, spigola, spinge. In alcuni momenti pensavamo pure di vederli andare via in alternato oppure a spazzaneve.
Si fa fatica a prendere il ritmo perché si rischia di cadere, pensate a van der Poel finito lontano, troppo lontano: non prende alcun rischio (e fa bene), e la notizia è non vederlo a fine gara davanti a tutti, lui che spesso, oppure sempre, in gara prende rischi, ma oggi non era quel giorno. Non era giorno nemmeno per Iserbyt che il ritmo lo tiene pure bene finché non cade, sbatte il ginocchio e si ritira, portato via in barella. Speriamo bene.
La spunta Vanthourenhout che ci mette poco a trovare ritmo e feeling, vincitore degno, degnissimo campione europeo, con quella faccia simpatica come pochi: lascia gli altri a distacchi abissali come un tappone alpino (d’altra parte siamo sulle Alpi) di decenni fa.
Sul podio con lui Vandeputte e Kuhn, entrambi alla loro prima volta tra i primi tre in Coppa del Mondo, e l’impennata di uno, e il pugno liberatorio dell’altro dopo aver resistito al ritorno di Sweeck ,ne certificano l'importanza del risultato acquisito.


Nella neve in Val di Sole

Bianco ciclocross. Domani ai Laghetti di San Leonardo, località Vermiglio, Val di Sole, decima tappa (su quattordici, siamo ormai in dirittura d’arrivo) della Coppa del Mondo di ciclocross, seconda volta - di fila - per la località trentina. L’obiettivo, nemmeno troppo nascosto, si sa, è quello di convincere chi di dovere a far entrare questa disciplina all’interno del programma olimpico. Milano-Cortina è fuori tempo massimo, magari nel 2030, sarebbe un salto di qualità enorme per il ciclocross sotto tantissimi aspetti, a volte ci immaginiamo cosa sarebbe (stata) una lotta per l'oro olimpico tra van der Poel, Pidcock e van Aert e quasi non prendiamo sonno, ma tutto questo è un discorso a parte sul quale non ci dilunghiamo. Non ora.
Ci si prepara da tempo a Vermiglio, invece, per la gara di domani, anzi le gare. L' inverno fa l’inverno, tra freddo e neve. Lo scorso anno sul campo ci si è divertiti al netto di Capitan Temperatura Bassa ma con van Aert, Vos, Pidcock, tutto bianco intorno, le montagne a dare un contorno totalmente inusuale per una gara di ciclocross, piuttosto poteva apparire mountain bike, sci di fondo, specialità di cui la Val di Sole è ghiotta; quest’anno si ripete e il cast vede soprattutto van der Poel e la sfida di altissimo livello che sta tenendo banco al femminile; sfida entusiasmante in pieno svolgimento da un po’ di settimane, sfida tra due 2002, una generazione d’oro, olandese, rappresentata da Fem Van Empel e Puck Pieterse. Van Empel qui vinse lo scorso anno. Fu la prima vittoria nella categoria élite per lei. Van Empel guida la challenge di Coppa del Mondo con oltre cento punti di vantaggio, forte soprattutto (ma non solo) dei due successi negli Stati Uniti, in contumacia della coetanea.
Si esce dalla tradizione di erba, fango e sabbia, sperando che il cross sulla neve dei Laghetti di San Leonardo possa diventare tradizione.
Ci sarà da battagliare con il freddo. Vestitevi pesante: non lesinate. Si combatterà bevendo birra (suggeriscono in alternativa vin brulè), con cautela come sempre. Si combatterà il freddo (ci sarà anche un tendone riscaldato) spostandosi da una parte all’altra del percorso - occhio alle cadute. Urlando, applaudendo. Evento intenso come solo il ciclocross sa regalare dal vivo. Con un percorso leggermente modificato rispetto al 2021, con due collinette in più e zone dove la neve sarà dura, battuta, scivolosa e altre dove, con la neve più morbida, sarà più simile a un percorso con la sabbia ed è per questo che si dice di buttare sempre un occhio su Sweeck, abile guidatore su certi percorsi e leader di Coppa del Mondo, oltre al solito noto, il signor Mathieu van der Poel.
Saranno fondamentali le scelte tecniche, e in questo assumerà una certa importanza la ricognizione - poi che van Aert lo scorso anno abbia vinto arrivando la sera prima e provando il percorso solo il giorno della gara è un altro discorso. Ma di van Aert ce n’è uno solo. Ci vorrà potenza e tecnica, insomma, anche se non a tutti convince l’idea del "ciclocross sulla neve", sarà comunque quello sport lì, potenza e agilità assieme, partenza in griglia, bici in spalla; sarà differente, inusuale, ma non per questo meno bello, entusiasmante e con la solita parola che gira e rigira è sempre quella: spettacolo.
98 corridori al via: 47 donne (partenza alle ore 13) e 51 uomini (partenza alle ore 14:30). Nutrito il contingente italiano che vedrà il ritorno in una gara di massimo livello di Silvia Persico, Eva Lechner, Filippo Fontana, ma non solo. C’è van der Poel, lo abbiamo già detto ma lo ripetiamo, gli occhi saranno su di lui, e anche le urla e il tifo e ogni sua azione, ogni suo passaggio, errore, rimonta eccetera, sarà accompagnata dal frastuono e ci aiuterà a non ghiacciare il fondoschiena.


Finire non mi spaventa: intervista a Martia Bastianelli

Ora che Marta Bastianelli ha annunciato che il Giro d'Italia femminile del 2023 sarà la sua ultima corsa, capita che le si chieda se di smettere avesse già pensato altre volte: «Sì, devo essere sincera, ci ho pensato e ci ho pensato più volte. Credo ogni atleta, in certi momenti, ci pensi. Poi, sai come siamo fatti, andiamo avanti, ma il pensiero viene, per momenti difficili o circostanze. Quando sono rimasta incinta, per esempio, ero quasi sicura che non avrei più corso. Ho continuato soprattutto grazie al mio compagno, anche lui ciclista. Ricordo il giorno in cui mi disse: "Visti i risultati che ottieni, non è giusto che sia tu a smettere. Smetto io, tu continua. Tu devi continuare". Anche in quel caso ho fatto bene a non smettere». Oggi, però, no. Non ci sono ripensamenti su questa scelta, di nessun tipo. Lo si capisce quando, dal nulla, ci dice: «Sono felice». Si lega a tutto, si lega in particolare a una situazione che Marta Bastianelli vive con la sua squadra, il Team UAE Adq.

«Sono una professionista e so che non è scontato sentirsi dire: "Stai tranquilla, fai ciò che ti senti di fare". Non capita spesso, anzi capita raramente. Loro me lo hanno detto e, anche se sono al diciassettesimo anno fra le élite, questo mi colpisce ancora. È vero che ho annunciato il mio ritiro, ma non ho ancora appeso la bicicletta al chiodo: fino all'ultimo chilometro dell'ultima gara voglio restare la professionista che ho imparato a essere. Voglio dare tutto. Questa è la sfida». Sì, Marta Bastianelli smetterà, questo è certo. Anzi, era certo ancora prima che lo dicesse, come spiega lei. «Se prendiamo con entusiasmo l'inizio delle cose, non capisco perché abbiamo spesso questo problema con il finale. Questa malinconia, questa nostalgia. Mi mancherà questo lavoro, certo che mi mancherà. Molto, non poco. È un lavoro così totalizzante che diventa la tua vita, in realtà, però, non bisogna dimenticare che la vita è altro. Il punto è saper scegliere, quando hai scelto e sei convinto, poi, la fine è un dato naturale». Così, in estate, Bastianelli uscirà da questa "bolla", come la chiama lei, che è l'attività professionistica e inizierà un altro percorso, anche se ancora non sa quale. Il sogno sarebbe restare all'interno del mondo del ciclismo.
Un sogno che è, poi, anche un modo di agire. Per esempio, in questo ritiro di inizio stagione in Toscana. Nuove compagne, molte giovani, e anche atlete di esperienza come Alena Amaliusik. Marta Bastianelli, trentacinque anni e sicuramente molte cose che potrebbe insegnare, tuttavia usa molto più volentieri il verbo imparare. «Ha a che vedere molto anche con il domani. Più cose imparerò da queste ragazze, meglio potrò provare a essere un direttore sportivo, ad esempio. Dei sogni ci si prende cura in questo modo: studiando, imparando. Essere state campionesse nella nuova vita non conta nulla, proprio nulla, in ogni settore. Sarà, invece, importante conoscere ogni sfumatura di una atleta, compresi aspetti legati alla sua cultura, alla sua terra d'origine, ai problemi che incontra quotidianamente». E Bastianelli di cose ne ha imparate anche ultimamente, molte rispetto all'alimentazione di un'atleta.

Poco prima di partire per questo ritiro, Clarissa, sua figlia, le si è avvicinata e le ha detto: «Mi raccomando, goditi il ritiro perché sarà uno degli ultimi». Lei ci ha pensato molto: «Per lei sono stata spesso una "mamma volante" e da piccola avrebbe voluto avermi più spesso al suo fianco per fare le cose che tutte le mamme e le figlie fanno assieme. Ora mi segue in televisione, segue le gare e conosce le mie compagne. So che rinunciare a questa parte della sua realtà mancherà anche a lei, so che quella "mamma volante" mancherà anche a lei. Quel giorno non stavo pensando a questa ultima volta e, sono sincera, sentirmelo dire mi ha fatto effetto». La figlia di Marta Bastianelli è competitiva, pratica tennis e nuoto, e a Bastianelli piacerebbe anche vederla in sella, ma c'è un punto interrogativo. «Credo non ci siano ancora le strutture adatte, almeno nelle nostre zone, per permettere a questi bambini di andare in bicicletta in sicurezza. Quello che succede sulle nostre strade lo vediamo tutti i giorni e abbiamo anche finito le parole per parlarne. Servono i fatti. Il ciclismo è parte della nostra famiglia ma per mia figlia, con queste condizioni, avrei dubbi, un genitore non può non averne. Nonostante mi piacerebbe».

Ci sarebbero altri tasselli da aggiungere alla carriera di Bastianelli, in fondo, c'è sempre qualcosa in più che si vorrebbe o si potrebbe fare, però, la prospettiva, con gli anni, cambia: «Pensi che a casa hai una bambina, pensi che ti piacerebbe diventare mamma ancora una volta ed in volata inizi ad evitare di lanciarti in spazi in cui prima ti buttavi. Una ciclista vuole vincere e anche io voglio farlo ancora, però, a trentacinque anni, se possibile, sono più contenta quando insegno qualcosa agli altri, quando permetto a qualcuno di non fare errori che io ho fatto». Qui si ritorna al tema alimentazione: «Bisogna sbagliare, fuggire dall'errore è un male. La via principale di apprendimento è quella. Anche io, da giovanissima, ho provato a preoccuparmi perché avevo mangiato un panino in più rispetto a quello previsto nel mio piano nutrizionale. Sai perché? Perché non mi conoscevo ancora abbastanza. Oggi l'attenzione è aumentata ed è giusto così, però, una atleta deve anche sapersi gestire e questo arriva con l'esperienza. Se mangi qualche grammo in più di un alimento, puoi diminuire l'altro. Se sei stanca e fai mezz'ora in meno di allenamento non succede nulla, se insisti stai peggio. Essere atleti significa anche conoscere il proprio corpo che è il nostro tutto. Le sensazioni vanno ascoltate». Perché accade questo? «Il mondo social non aiuta. Espone a un confronto continuo. Il senso di colpa appartiene a tutti e, se ogni sera sei sollecitata al confronto con le colleghe che pubblicano l'allenamento del giorno, le conseguenze non sono buone. Tempo fa non si sapeva ciò che facevano le altre. Non è, per forza, sbagliato conoscerlo, è sbagliato non concentrarsi su ciò che chiede il tuo corpo». In ogni caso, il ciclismo è cresciuto e cambiato a 360 gradi, a partire dai trasferimenti: «Sembra scontato che tutto lo staff pensi a noi, non lo è. Tempo fa, anche un trasferimento lungo, uno spostamento, era un problema».

L'anno scorso sette vittorie, la più bella nel giorno del compleanno, perché era da tanto che non succedeva e perché serviva alla squadra. Quest'anno parte dal freddo della Toscana e da quelle parole a Erica Magnaldi in allenamento, proprio ieri: «Vorrei poter aprire la finestra al mattino e non preoccuparmi del tempo che fa lì fuori. Questa fatica non mi mancherà, non più». Anche se il sogno va ancora nella direzione della fatica: «Mi piacerebbe trovare tanti tifosi ad aspettarmi a Roubaix. Io li vorrei aspettare lì».

 


Attaque de Pierre Rolland!

Ieri ha annunciato il ritiro Pierre Rolland. Un corridore che a noi è sempre piaciuto in modo particolare e infatti ne abbiamo parlato all'interno di #Alvento14.

Era un numero dedicato alle fughe e quella di Rolland al Tour de France 2011, tappa 19 con arrivo sull’Alpe d’Huez, meritò di essere ricordata quella volta, merita di essere menzionata nuovamente.

“Alpe d’Huez 2011, terzultimo giorno di corsa. Mentre Voeckler soffocava il proprio sogno e quello di tutti i francesi cedendo in salita con indosso la maglia gialla, il suo giovane compagno di squadra cavalcava vittorioso verso una delle salite simbolo della storia del ciclismo. Non una vera e propria fuga da lontano, ma emblematica: dopo aver raggiunto Contador sulle rampe finali dell’Alpe d’Huez, Rolland si scrollava di dosso la sua compagnia (e quella di Samu Sanchez) regalando alla Francia la prima e unica vittoria in quell’edizione della corsa francese. Rolland correrà la stagione successiva con il profilo della tappa vinta inciso sul telaio”.

Quel giorno Rolland rimase di fianco a Voeckler, in maglia gialla a due tappe dal termine, finché il leader della classifica gli diede via libera. «Non ho mai pensato di perdere la tappa, non avrei mai lasciato solo Voeckler per arrivare secondo o terzo», raccontò, in modo quasi sfrontato, un corridore che sfrontato lo è stato soltanto in corsa, amante delle fughe, spesso bizzarre, delle maglie a pois, della visibilità in salita.

Rolland lascia il ciclismo a 36 anni. 16 stagioni tra i professionisti e 12 vittorie. Un bel palmarès: due tappe al Tour, una al Giro, un quarto posto nel 2014 nella Corsa Rosa dietro Quintana, Uran e Aru, davanti a Pozzovivo. Un ottavo posto al Tour del 2012 quando vinse anche la tappa con arrivo a La Toussuire e un decimo con maglia bianca finale al Tour del 2011.

Lascia dopo una carriera passata perlopiù in compagini francesi, ma con una parentesi alla Cannondale, squadra americana, che inizialmente Rolland commentò così. «Finché si parla di ciclismo me la cavo. Se dovessi parlare di letteratura sarebbe un problema. Ho dovuto imparare l’inglese perché la Cannondale è una squadra americana. Dopo una vita passata in ambienti francesi, chissà che questo cambiamento non mi faccia bene».

Lascia dopo aver speso una carriera con la consapevolezza dell’importanza del circondarsi di persone per lui importanti. Nei giorni scorsi ha ricordato la figura di Gautier, compagno di allenamenti e di vacanza, amico fraterno con il quale ha diviso gli ultimi anni in squadra. «Il ciclismo è uno sport di sofferenza, durissimo, per questo ritengo essenziale avere con me le persone che amo».

Lascia dopo che la sua squadra, la B&B Hotels-KTM ha annunciato la chiusura: «La mia carriera si chiude qui, ma non è per me che saranno giorni complicati», raccontava giorni fa pensando ai suoi compagni di squadra e ai componenti dello staff rimasti a piedi. Forse gli sarebbe piaciuto continuare ancora, chissà: «Ma il destino ha deciso diversamente», scrive su Twitter.

È stato un gran bel talento in salita Rolland, di quelli sempre all’attacco: L’Equipe ricorda come a un certo punto “Attaque de Pierre Rolland!” divenne una sorta di slogan al Tour ed esistono anche pagine sui social network che si chiamano così.

È stato uno scalatore con un timbro caratteristico: la strada si impennava e lui partiva, non importa se poi spesso dopo qualche centinaio di metri veniva ripreso, lui magari ti scattava di nuovo in faccia per poi essere ancora ripreso. Era fatto così: poca paura di stare al vento, a volte di quelli che aspetti e che non arrivano, di quelli su cui la Francia ci scommetteva come grande speranza, ma dove grande speranza per loro significava (significa) vincere il Tour de France. Si è portato sulle spalle l’onere e l’onore, ma alla maglia gialla ha spesso preferito una più comoda maglia a pois.

È stato un bel corridore non c’è che dire, poco vincente, molto appariscente, è stato Pierre Rolland, anzi, “Attaque de Pierre Rolland!”, detto proprio così.


Di Latifa e della bicicletta che la porterà in Marocco

«Se penso al Marocco, penso a qualcosa di speciale, ma, se penso a casa, penso all'Abruzzo. Qui c'è l'aria che ho sempre respirato, l'acqua che bevo tutti i giorni e la Maiella da guardare da lontano, da ogni prospettiva. Il Marocco è la mia radice, la mia origine. È menta, zafferano e cannella, l'ocra delle sue città, il rosso, le montagne innevate, l'azzurro del mare oppure il blu di Chefchaouen, una città in cui ogni casa, ogni porta, ogni finestra è blu. Il Marocco è il mio nome arabo e il mio cognome che sa di un'altra terra». Latifa Benharara dice così, lei che è nata e cresciuta a Sulmona da genitori di Casablanca. Latifa che è giornalista, dipinge, viaggia molto, scrive ancor di più ed è direttore di corsa. Una specie di missione quest'ultima perché c'è un dovere di restituzione nelle cose che accadono. La bicicletta è una parte importante del suo mondo «ma senza sicurezza la bicicletta è un'immagine che sfuma sullo sfondo, cosa faranno i bambini di domani, cosa faranno i giovani di oggi? La sicurezza viene prima di tutto, nelle gare e fuori. Mettersi a disposizione della sicurezza significa mettersi a disposizione delle biciclette. Quelle di oggi e quelle di domani».
Italia e Marocco, due culture, tanta strada in mezzo e molto altro. Un giorno, in bicicletta, Latifa ci ha pensato: «E se potessi arrivare a Casablanca in bicicletta? Se potessi sentire la musica di quella città, le sue persone e le sue spezie dopo aver pedalato da casa fino a lì? Come sarebbe tutto questo?». Quando Latifa era ancora bambina, i suoi genitori lavoravano ai mercati generali e avevano un furgone che in estate diventava un camper e, in tre giorni, li portava in Marocco. Più di 3000 chilometri, ora come allora. Oggi, però, quei chilometri Latifa Benharara li percorrerà in bicicletta, attraverso strade secondarie, attraverso quattro nazioni. Poi andrà oltre, fino alle porte del deserto per altri mille chilometri, fino alle porte del Sahara. Circa cento chilometri al giorno, circa 40 giorni. Si chiama "From Maiella to Sahara Bikelife Experience".
«In alcuni stati arabi andare in bicicletta può essere un problema per una donna e questo non è giusto. Non solo lì però. Per altre ragioni accade spesso che una donna non si senta a proprio agio in sella o in un viaggio da sola. Si tratta della società. Sono stata in Nepal, in India, in Cina, con uno zaino sulle spalle e tanti passi nelle mie scarpe. Le donne hanno voglia di avventura, di fatica, di scoperta e per tutto questo hanno molto più coraggio che paura. Penso ad Alfonsina Strada, penso a tutto il tempo che è passato, alle cose che sono cambiate e a quelle che ancora devono cambiare. Lo dobbiamo a persone come Alfonsina e a noi stesse». Quattromila chilometri e la bicicletta che unisce incontro e comprensione: attraverso il sudore, il far fatica, si diventa tutti più aperti a capire. La fatica permette di capire, mette in ascolto. E quando si è in mezzo alla natura questo ascolto è amplificato, fuori da ogni schema sociale.
«Avete mai fatto caso al rapporto che hanno i bambini con la bicicletta? Sembrano intendersi senza bisogno di spiegarsi, anche se cadono e si sbucciano le ginocchia. Non hanno paura. Ricordo il giorno in cui insegnai a una bambina l'equilibrio delle due ruote; ricordo come rideva, come mi abbracciava. Come io abbracciavo lei. Credo sia una sorta di istinto». Così, quel viaggio ora non riguarda più lei sola, ma tutte le persone che ci credono e chi vorrà provare ad affiancarla per qualche chilometro perché «chi non conosci e incontri per caso è spesso prezioso. Non bisogna temere chi non si conosce, semmai bisogna aver voglia di conoscere».
Poi ci saranno le offerte che chiunque potrà fare e serviranno a quel futuro della bicicletta, ai bambini che stanno imparando a pedalare e a quelli che immaginano una bicicletta nel loro lavoro: «La realtà è che ci sono famiglie che non possono permettersi di comprare una bicicletta ai loro figli, che non possono mandarli a una scuola di ciclismo. Serve una possibilità per loro, un'altra possibilità». Strada, strada, strada e ancora strada e una voce che si increspa, quella di Latifa che pensa ai genitori: «Forse questo viaggio ricambierà un poco tutto ciò che loro fanno e hanno fatto per noi. I loro sacrifici. Vorrei accadesse. Anche per questo non ho paura, anche per questo ho imparato a essere coraggiosa. E il coraggio ha a che vedere con il bene, con la passione». Di tutte le cose che vorremmo dire, ora bisogna dirne solo una. A voce alta: "Buon viaggio". Lì c'è tutto.


Stefan Küng: per il progresso

Sulla bici Stefan Küng ci è salito solo per un motivo: andare più veloce di tutti gli altri, ma quante volte da quando corre tra i professionisti la differenza con un avversario è stata così sottile da relegarlo spesso a un piazzamento ricco di rimpianti? Quante volte lui si è disperato per una questione di metri o secondi e noi a dispiacerci? Ma proprio per questo, forse, Stefan Küng è un corridore che riscuote quel successo riservato allo sconfitto, alla sua dignità, all’enfasi che si porta appresso, all’umanità che si manifesta dietro un nome, un numero, una maglia, una bici, dei pedali.
E poi c’è chi lo segue da vicino che in quanto a teatralità non ha nulla da invidiare alla gradinata di una curva di calcio argentino: ha un gruppo di tifosi tra i più folcloristici in assoluto, si chiamano King Küng Freunde e se non vi è capitato di vederli dal vivo, fatevi un giro sui loro profili social per conoscerli perché ne vale veramente la pena; e poi come non si fa ad apprezzare un corridore sempre davanti nelle corse del Nord, che se c’è brutto tempo si esalta, spesso all’attacco, a volte per terra a buttare via occasioni come se forze misteriose lo avessero preso di mira, uno che va forte sul passo e tiene bene pure sugli strappi?
In bici Küng ci è salito per correre sempre più veloce, degli altri e di se stesso, per lui inizialmente era solo fare il giro dell’isolato come uno di quei circuiti fatti di pietre e vento che lo esaltano o come quando su pista da ragazzo si toglieva diverse soddisfazioni; nessuno a casa lo ha spinto, costretto, convinto a mettere il sedere su un sellino, ma è stato un vicino che - probabilmente - lo vedeva scorrazzare come un matto da solo: «Perché non ti iscrivi in qualche squadra e ti misuri con gli altri?» pare gli avesse detto proprio così. Storia normale di cui ne avrete sentito parlare migliaia di volte e che riguardano migliaia di altri come lui.
E poi inizia a pedalare sempre più sul serio e arriva nella nazionale junior svizzera quando pareva quasi un miracolo al tempo ricevere l'attrezzatura per misurarsi a livello mondiale con le squadre avversarie: «Con la Svizzera siamo riusciti a fare grandissime cose con mezzi limitati, è il caso del mio titolo mondiale nell’inseguimento individuale nel 2015, mentre oggi i ragazzi di 17/18 anni arrivano già con casco e ruote». E lo studio del dettaglio per lui è tutto. Spiega, Küng, come sia una componente fondamentale del progresso. Ciclistico, di atleta e uomo. Se vuoi fare risultato non puoi far finta che non esista. «Io mi trovo in grossa difficoltà con quella categoria di persone che accettano ogni novità senza farsi domande». Si nutre di curiosità, condivide i suoi dati con i partner tecnici, ma fa di più, vuole sapere cosa c’è dietro ogni novità. «Pensate che quando arrivarono i freni a disco molti in gruppo dissero: vedrai che è solo la moda del momento Stefan! fra tre o quattro anni sparirà!». Uno schema mentale che il ventinovenne di Wil reputa inconcepibile.
Chi lo conosce racconta di come Stefan Küng sia persino troppo severo nei suoi confronti, come dire che se non stesse a misurare ogni dettaglio nella vittoria e nella sconfitta, non migliorerebbe mai. Su questi principi si basa la sua carriera. «Anche se avessi vinto il Mondiale in Australia subito dopo avrei analizzato i miei dati per capire dove migliorare»
Una storia fra lui e il ciclismo partita dal giro in bicicletta dietro casa, con in mezzo le tanto agognate crono dove da anni è uno dei tre, quattro più forti al mondo, e culminata con le classiche del Nord nelle quali è costantemente uno dei protagonisti, outsider (ruolo che lui adora) di grido, anche se solo quest’anno pare abbia fatto quel deciso salto di qualità, pur mancandogli ancora qualcosa per il successo, quel grande successo che ne coronerebbe una carriera. Eppure ci è arrivato così vicino. Anche lui (come noi, ahinoi) ricorda quel giorno ad Harrogate prova in linea del Mondiale 2019, quando arrivò allo sprint e perse contro Pedersen (e Trentin): una giornata fredda, con la pioggia, il suo habitat naturale, condizioni climatiche in cui lui spesso riesce a tirare fuori qualcosa in più.
«A 28 anni voglio vincere un mondiale su strada e una grande classica» dice. Fino ad allora Stefan Küng continuerà a cercare nel progresso la chiave per dare tutto nel ciclismo. Ma siamo certi che nel caso non cesserà la spasmodica ricerca verso la sua aristotelica perfezione.


Van Aert-Gravel

Wout van Aert ha avuto un'idea e si sa come sono le sue idee. Fanno parlare, anche perché già solo il fatto che ci sia stato il pensiero fa intuire la realizzazione. E si sa come Wout van Aert realizza le proprie idee: in grande, senza risparmiarsi, senza tenere quel poco di fiato per un'ultima pedalata che, chissà, potrebbe servire. Vogliamo dire "esagerando"? Diciamo esagerando. Del resto, sembra che anche Gianni Brera trasmettesse questa idea ai colleghi: meglio esagerare, talvolta, meglio non risparmiarsi, perché nell'esagerazione può trovarsi la bellezza. Non sempre, ma ogni tanto può servire. In fondo, il dosato, il misurato, il contato perfettamente, in certe circostanze, ha poco a che vedere con l'essere ciclisti, mestiere in cui c’è ragione, c’è grande attenzione al dettaglio, ma ancor più istinto. Nulla con l'essere Wout. Nulla con l’essere van Aert.
L'idea è il gravel. Sembra gli sia venuta vedendo in televisione il Mondiale gravel di questo autunno e un poco lo immaginiamo davanti al televisore. Sembra gli sia piaciuto, più che altro pare gli sia piaciuto, gli piaccia, il gravel. Così dopo quel pomeriggio deve essersi detto: "Perché no?". Ovvero perché non provare anche questo che al fuoriclasse belga appare, prima di tutto, come un bellissimo viaggio. Anche questo è interessante perché è interessante raccontare il ciclismo in questo modo, risalendo alle origini del pedalare, anche se corso da atleti che si contendono titoli e maglie iridate. Detto in altre parole: sulle fondamenta si può costruire come meglio si crede, ma senza fondamenta non vi è costruzione. E le fondamenta qui sono le radici dell'andare in bicicletta. Ancor più interessante, forse, è l'altra motivazione che van Aert apporta per questa scelta.
In un ciclismo in cui le pressioni sono tante, in cui si parla sempre più dell'aspetto psicologico e della tutela di questo aspetto, Wout van Aert, pensando al gravel, pensa a una possibilità in cui le pressioni siano meno, in cui lo stress sia minore rispetto agli altri traguardi annuali. Vogliamo usare la parola "divertimento"? Perché no? Così, proprio ieri, sui profili social di Wout van Aert è apparsa una storia di lui intento a sperimentare il gravel. Un lunedì, su una strada sterrata, in mezzo ai boschi, col cielo cupo di dicembre e il freddo dell'inverno.
L'abbiamo visto vincere sul Ventoux, in pianura, a cronometro, in attacchi folli troppo lontano dal traguardo, quegli attacchi che calamitano l'attenzione anche nei più caldi pomeriggi di luglio, lo vediamo abitualmente nel fango e anche lì vince e meraviglia ogni volta. Il prossimo Mondiale gravel sarà in Italia, poi in Belgio, probabilmente lui sarà presente e del risultato non diciamo nulla. Questo è il dato di fatto, poi c'è il gravel come scelta di bicicletta e di viaggio. Come scelta per un fine settimana o un inizio settimana fra la terra, la ghiaia. A prescindere dal Mondiale che verrà, Wout van Aert ha pensato a questo modo di andare in bicicletta, queste sono le fondamenta, le radici di cui parlavamo, quelle che restano oltre qualunque gara, questa è stata la sua idea, il suo viaggio, il suo modo per un altro pizzico di esagerazione. Quella che fa bene, quella che fa bellezza.
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A proprio agio

Si può pedalare anche da soli ed è ugualmente bello, ma si sta meglio quando si sa che, volendo, si può fare una telefonata e qualcuno è pronto a mettere scarpini e casco, scendere in garage, prendere la bicicletta e arrivare. Valeria Zappacosta ci ha pensato proprio mentre andava ad incontrare una sua amica, proveniente dal Veneto, in Abruzzo per qualche settimana in estate. «Credo che la possibilità di quella telefonata, di quel messaggio per dire "vieni via con me", sia importante, anche se poi si sceglie di andare da sole. Certe volte sono le possibilità che ti fanno partire. Anche nel più piccolo dei paesi c'è sicuramente qualcuno con lo stesso nostro desiderio di scendere in garage, salire in sella e andare. Qualcuno che, magari, non parte nemmeno, perché si sente solo o per altri motivi».

Valeria ha la certezza che questa sensazione riguarda tutti e ha riguardato tutti almeno una volta. Ha pensato che, forse, riguarda ancora di più le donne perché le è capitato, purtroppo, di sentire dire che «il ciclismo è uno sport maschile» e, ancora prima, le è capitato di essere in sella, da sola, e sentirsi dire che «quella salita è complessa, quel giro è troppo lungo, dovresti farlo in compagnia». Altre parole sbagliate, dette senza alcuna attenzione, gliele hanno raccontate. «Sai il bisogno primario che tutti abbiamo? Essere ascoltati ed essere ascoltati davvero, non per abitudine o perché non se ne può fare a meno. Essere ascoltati e sapere che gli altri si ricordano ciò che hai detto, si ricordano come ti senti, come ti sei sentito oppure ciò che ti fa paura, ciò che non vorresti. Ho scoperto che la bicicletta è il mezzo ideale per ascoltare».
“Pedale Rosa” è quella possibilità di una telefonata e di una pedalata assieme, quando si capita nel paese di quella ragazza che si è conosciuta solo perché va in bicicletta come te. In realtà una definizione vera e propria non c'è, «perché è sbagliato etichettare qualcosa solo con ciò che rappresenta per te, impedendo agli altri di riconoscersi. Per ciascuna quella possibilità è qualcosa di diverso e rappresenta qualcosa di diverso». Per esempio, c'è chi in sella non saliva perché non si sentiva apposto con il proprio fisico e con tutte quelle parole sbagliate si era convinta che davvero non stesse bene in bicicletta. Poi ci è salita, quest'anno, durante il Giro d'Italia e, dopo qualche attimo, ha capito che, in realtà, lei in sella stava bene, soprattutto che si sentiva bene.
Monica Marucco fa parte di questo gruppo e a quel "sentirsi bene" offre una propria risposta: «Significa sentirsi a proprio agio e, anche se non lo ammettiamo, come esseri umani spesso ci sentiamo a disagio nelle situazioni quotidiane. Trovare qualcosa che ci fa sentire davvero a nostro agio è un buon rimedio perché alleggerisce anche le altre situazioni. La bicicletta è questo, la bicicletta può essere questo». Si trova ciò che fa stare bene e poi si cercano le persone con cui condividerlo. «Sì, perché una parte dell'essere a proprio agio dipende anche dall'essere messi a proprio agio. In sella, questo passa dal condividere un ritmo, una velocità, un modo di intendere la bicicletta». C'è chi partecipa a gare, chi a Granfondo e chi, semplicemente, sta scoprendo il piacere di arrivare in un luogo solo con le proprie forze, quel piacere e quella fatica che rendono più importanti i luoghi, più forti i ricordi. Qualcosa che rende orgogliose di quel gesto e di ogni piccolo passo avanti.

Già, perché in bicicletta, alla fine, si viaggia. Latifa, un'altra ragazza che ha cercato la possibilità di quella telefonata, di quel "vengo anche io" ne ha parlato proprio con Valeria. «Era un desiderio, dapprima, ora è un progetto perché ha iniziato a studiarlo. Vorrebbe pedalare dall'Italia sino al Marocco, per unire la sua terra d'origine e quella in cui vive. Due forme diverse del suo presente, perché la terra in cui nasci resta sempre». Latifa farà questo viaggio e due culture si incontreranno. In Italia farà questo viaggio affiancata dalle cicliste che di questo gruppo fanno parte. Questo fa pensare.
Perché, ad oggi, i mezzi per "connettersi", ovvero per incontrarsi, sono molti, altamente tecnologici, in grado di mettere in contatto molte persone, eppure una delle connessioni che tutti conosciamo si riconduce alla bicicletta «che è un mezzo antico, sempre uguale nelle proprie linee base, seppur proiettata nel futuro» continua Monica. Se la domanda è perché, la risposta è puntuale: «Perché permette un incontro reale, perché il gruppo che forma è reale, non solo virtuale. Reale anche se le persone vivono a molti chilometri di distanza perché prima o poi ci si conosce». E la conoscenza che si fa in bicicletta è particolare perché toglie molte sovrastrutture, apre al racconto della propria persona anche dopo un semplice saluto e soprattutto restringe lo spazio per il giudizio.
«Sì, perché, se ci si fa caso, in bicicletta si tende a focalizzare l'attenzione sul miglioramento- spiega Valeria- su ciò che è cambiato in meglio rispetto alla volta precedente. Fosse anche solo un dettaglio. Non è poco». Così, per incontrarsi, si possono percorrere anche trecento chilometri e cambiare paese, città, regione, anche da sole, senza un motivo preciso perché, ci dice Monica, «quando fai tue alcune consapevolezze, quelle che ti portano a concentrarti su quello che sei e che vuoi o non vuoi fare, il resto passa in secondo piano, non sprechi tempo perché sai che il tempo in bicicletta è prezioso. Non per forza per andare più veloci degli altri e arrivare prima. Si può anche andare lentamente. Importante è il tempo in cui, grazie alla bicicletta, ti senti meglio. E non vedi l'ora di ripartire».