La normalità di Geraint Thomas

Ricordiamo tutti il volto di Geraint Thomas ai microfoni, al termine del Tour de France 2018. Un pianto liberatorio e quelle parole ripetute: «Non ci posso credere, ho vinto il Tour. Non è vero». Non riusciva nemmeno a parlare il britannico, eppure, al giornalista che gli chiese se quella fosse l'emozione più importante di tutta la sua vita, rispose subito, senza indugiare un secondo. «No, l'emozione più grande della mia vita è stata il mio matrimonio, andare verso l'altare con mia moglie. Non si possono paragonare queste cose». Già, ogni cosa al posto giusto, col giusto valore. Tempo dopo, quasi si scusò per quelle lacrime: «È imbarazzante piangere davanti alle telecamere, ma in quel momento mi stavo rendendo conto di cosa avevo fatto».
Da quel momento, le cose non sono più andate come Thomas avrebbe sperato, forse creduto. Una storia di cadute e sfortuna. Fu lui stesso, dopo la caduta al Tour dell'anno successivo a parlare di frustrazione, a dire che non c'era una spiegazione per quella caduta e questo peggiorava le cose. Lì il danno fu poco e Thomas finì in seconda posizione la Grande Boucle. Come il podio di Parigi, però, nei ricordi resta l'assurda caduta nella tappa dell'Etna al Giro d'Italia 2020. Assurda per le modalità, cadde a causa di una borraccia, assurda per l'esito: arrivò al traguardo con più di dodici minuti di ritardo fra lo stupore di tutti e le critiche che iniziavano a muoversi. Perché uno dei candidati per la vittoria finale pagava dazio già nella prima tappa di montagna? Aveva una frattura del bacino, Thomas. Scalò l'Etna così.

E ancora cadute, frustrazione e delusione. Geraint Thomas ha saputo anche ridere, scherzarci su, quasi ad anestetizzare l'amarezza. Per esempio quest'anno, quando al Giro di Romandia è caduto a cinquanta metri dal traguardo. Se non bastasse aver vinto il Tour de France per parlare di un campione, basterebbe questa ironia. Difficile, soprattutto quando tutti chiedono, aspettano, giudicano. Quando, forse anche tu, inizi a non capire più che ti sta succedendo.

A Cyclingweekly, Thomas ha raccontato che l'inizio di questa stagione è stato forse uno dei migliori inizi di sempre. Nonostante tutto. «Non sono diventato un ciclista mediocre, all'improvviso» ha detto ed ha ragione. Per le caratteristiche atletiche e anche per come parla, per come si racconta e per le idee che continua a mettere in campo nonostante tutto vada storto. «Continuerò a impegnarmi e a buttarmi nella mischia per vincere, perché ora conta solo vincere, tornare a vincere. Poi tornerò ai Grandi Giri, non solo però. In fondo ho sempre avuto stagioni con lo stesso programma in tutti gli anni di carriera, ho voglia di cose fresche, di cambiare, di mettermi alla prova su altri percorsi».

E questa spensieratezza preservata a colpire e a farlo restare in sella. Nei gesti e nelle parole, come in Watts Occurring, il podcast che Geraint Thomas gestisce con il compagno di team Luke Rowe. «Raccontiamo di noi. Certe volte ridiamo anche e prendiamo in giro qualcuno, solo per divertimento. Inizialmente non ci riflettevo, adesso invece ci penso perché le nostre parole le sentono tutti e non sai mai come vengono interpretate».
Thomas che a inizio carriera, lo ha raccontato spesso, avrebbe desiderato vincere ogni corsa, su strada, su pista, oggi ha capito che bisogna saper scegliere. Saper scegliere e continuare a lavorare sodo. Con grande impegno, ma anche con grande serenità e perché no con la giusta dose di leggerezza.


Sul Giro d'Italia 2022

Ormai è passato più di qualche giorno (forse persino oltre una settimana) da quando il Giro d'Italia è stato presentato. Anzi "finito di presentare": che suona male, un po' strano. Strana presentazione perché divisa in puntate, inusuale, come se farne un racconto seriale desse un tono più contemporaneo all'evento o ne accresca maggiormente l'attesa.
A chi scrive, inizialmente ha creato solo più confusione che altro, per fortuna che c'era poi chi, contemporaneamente alle uscite, raccoglieva e metteva tutto assieme tappa per tappa e nel giusto ordine.
Tuttavia: primo episodio dedicato alle tre tappe ungheresi e dal titolo “Grande Partenza”; secondo episodio, quelle di pianura, “Volate” (oh-oh), poi quelle miste dal titolo “Tappe Mosse” (qui la fantasia si è sprecata), e a seguire “Tappe di Montagna” (ineccepibile).
A chiudere la presentazione della tappa finale “Grande Arrivo” con la cronometro di Verona che si chiuderà tra Piazza Bra e l'Arena come due anni e mezzo fa. Della brevità (contro il tempo) ne parleremo in seguito, ma se non altro sarà un finale estremamente scenografico e chissà che non sia di nuovo pieno di ecuadoriani come nel 2019, ma è prestissimo per parlarne.
Ora, invece, è tempo di dare un punto di vista veloce su come ci pare il percorso di questa edizione di Giro fermo restando che il Giro è sempre il Giro e, probabilmente, appassionerebbe anche se fossero 21 tappe di pianura - no, beh abbiamo esagerato, ma è per capirci: comunque vada la Corsa Rosa ci sta a cuore e non vediamo l'ora sia il 6 maggio, giorno fissato per la partenza - anzi “La Grande Partenza” - dall'Ungheria.
COSA CI PIACE - Le tappe mosse . Se chi scrive appartenesse alla generazione Z esclamerebbe (o forse in realtà lo ha fatto, ma in forma privata): “tanta roba!”. Sono la vera chicca della prossima edizione, una tappa più bella dell'altra: quella piemontese con arrivo a Torino sarà massacrante (un filino corta), quella friulana con arrivo a Castelmonte è ricca di trabocchetti (le discese mettono i brividi) e il Monte Colovrat è salita vera. Muri marchigiani e tappa calabro-lucana due gioiellini (e il chilometraggio è soddisfacente), arrivo a Napoli suggestivo. Saranno tappe insidiose per la classifica, che sorridono ai corridori da corse di un giorno (ma amaramente ci chiediamo: chi ci sarà fra i mammasantissima delle classiche dopo la campagna di Primavera?), saranno tappe che, sempre sulla carta ci potranno far divertire. Fuga all'arrivo e/o battaglia tra gli uomini di classifica ci penseremo a tempo debito.
Ci piace anche, e molto, la tappa con arrivo sul Blockhaus, ma soprattutto quella che termina sulla Marmolada. Forse ci vorrebbe qualche chilometro in più (anche 40, 50), ma l'arrivo sul Fedaia non teme confronti con nessun altro finale di nessuna corsa del mondo. Da Malga Ciapela in poi vengono le vertigini, male alle gambe e fioccano i ricordi.
E poi le cartine altimetriche del Giro restano sempre le migliori; sembra un fatto banale ma non è così. Realistiche, dettagliate, facilmente fruibili. Provate a controllare quelle del Tour (per altro quelle del 2022 ancora non ci sono) e a fare un'analisi basandovi su quelle e noterete la netta differenza.
COSA NON CI PIACE – Facile: 26 chilometri a cronometro sono pochissimi. Persino inspiegabili. Corsa sbilanciata e senza una vera crono lunga. Ma quanto erano belle le crono vallonate di 40/50 km di qualche stagione fa? E no, qui non si tratta di nostalgia anche se l'età avanza per tutti ed è più semplice rimpiangere e leggere il passato che rendersi conto del, e apprezzare il, presente.
Qui non c'entra la salvaguardia del, come si è letto in giro, “patrimonio Ganna”, qui si tratta di avere il dovere (sic) di arrivare almeno a 50/60 km di cronometro per rendere la corsa completa e meno sbilanciata. Per quale motivo dovrebbe essere meno spettacolare una crono lunga (o medio lunga?) rispetto a una crono di 9,2 km (la prima) e di 17,1 (!) , la seconda? Poi certo – e anche qui se ne parlerà a tempo debito – l'ago della bilancia, quello che sposterà ogni commento concreto sarà scoprire i nomi che si giocheranno la maglia rosa, oggi si commenta l'uscita delle tappe, non altro.
E la questione del chilometraggio è quella più calda: solo tre tappe sopra i 200 km (per altro appena sopra i 200 km) tra cui due piatte per velocisti e una messa pure di domenica, la prima domenica: certo non il miglior spot per tenere incollati in tv gli appassionati a inizio maggio. Diverso il discorso per noi malati della pedalata altrui: ce la guardiamo senza fiatare dal km 0, ci chiederanno perché ci facciamo così del male e il perché è sempre quello: il Giro è sempre il Giro e già facciamo il conto alla rovescia per quando inizierà (da oggi dovrebbero essere 168 giorni!).


Team Novo Nordisk, un esempio per cambiare le cose

Le persone che attendono la discesa dal bus dei corridori del Team Novo Nordisk hanno un motivo in più per aspettare. Un padre, in attesa degli atleti con suo figlio Marco, ragazzo diabetico appassionato di ciclismo, ce lo disse qualche tempo fa: «Ai figli puoi dire di tutto e possono anche crederti, penso, però, che solo dimostrare faccia la differenza. Qualunque genitore direbbe al proprio figlio che, nonostante il diabete, può fare tutto ciò che vuole nella vita. I genitori lo dicono spesso, per questo accade che i figli non ci credano più e pensino sia una consolazione. Marco deve crederci perché ha visto in prima persona, non perché glielo ha detto papà». Il bus era lì, a pochi metri.

I ciclisti del team Novo Nordisk, all'apparenza, hanno solo una caratteristica in comune: sono affetti da diabete. In realtà, c'è più di qualcosa ad accomunarli. Per esempio, tutti respingono un certo modo di approcciarsi alla malattia, al diabete, ma in realtà a qualunque malattia. Andrea Peron, diabetico dall'età di sedici anni, lo ha ripetuto più volte. «Non mi è mai piaciuto piangermi addosso. Perché non è bello e soprattutto perché non serve a nulla. La realtà del diabete non si cambia così». Non lo dice per dire Peron. Ha fatto fatica a passare professionista perché alcune squadre gli hanno chiuso la porta in faccia, senza apparente motivo, a parte il fatto di essere diabetico. Ci è stato male ma ha sempre detto che quella è una forma di ignoranza. Non puoi farci molto, però, puoi lavorare per smentirla. Anche qui: è questione di fatti, perché alle parole si può non credere, però, se una cosa succede, non puoi negarla. Quel giorno, ai bus, il papà di Marco voleva dirci proprio questo. Chi ha a che fare con una qualunque malattia ne è consapevole.

Sulle maglie dei ragazzi c'è scritto “changing diabetes” che è un invito, una speranza e una possibilità. Perché gli incontri fuori dai bus fanno la differenza anche per i corridori. Diversi fra loro lo testimoniano: «Un conto è sentirsi incitare, applaudire, magari firmare un cappellino o una maglietta. Vedere che qualcuno viene a chiederti consiglio sul diabete, a dirti le proprie difficoltà e a chiederti come fai, è diverso. È molto di più». Con gli anni, la tecnologia ha cambiato quasi tutto, gli atleti possono avere dati sulla loro glicemia anche in corsa, più spesso è una sensazione ad aiutarli, capiscono quando qualcosa non va, anche senza controllare un numero.

L'annata appena trascorsa non è stata una delle più facili per il Team Novo Nordisk. Il leader della squadra americana, Charles Planet, ha preso ben due volte il Covid, sviluppando un problema ai polmoni che lo ha tenuto lontano dalle gare per metà stagione. La differenza, invece, nell'anno nuovo, potrebbe farla il talento di Matyáš Kopecký: diciottesimo al Campionato del Mondo juniores, il ragazzo della Repubblica Ceca promette davvero bene.

A Velonews il co-fondatore del team Phil Southerland ha raccontanto il senso dell’aver creato un team di atleti affetti da diabete di tipo 1: «Vogliamo rappresentare un esempio concreto per i bambini affetti da diabete, vogliamo che guardino i nostri ragazzi correre e sappiano che possono ottenere tutto ciò che sognano. Voglio che i miei ragazzi si divertano perché quando si divertono corrono bene e, quando corrono bene, cambiano il mondo, una persona alla volta». Così che ci siano sempre meno porte chiuse in faccia, perché le persone credano a questa possibilità. Ma soprattutto affinché ci creda chiunque sia affetto da diabete. Perché, se ne sei consapevole tu, le barriere dell'ignoranza le abbatti giorno dopo giorno.


Aspettando Patagonia Alvento

Ci sarà da attendere ancora per vivere Patagonia Alvento, ma anche nell'attesa c'è qualcosa di speciale. «Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca epistolare e quando ero adolescente- ci racconta Willy Mulonia- al ritorno da scuola, trovavo le lettere a me indirizzate nella cucina dei miei genitori, sul tavolo. Le prendevo, le portavo in camera, non le aprivo subito. Aspettavo ore, qualche volta giorni. Nell'attesa c'è tutto ciò che vivrai, la fantasia, i timori e anche la felicità. Quando partiremo per la Patagonia, sarà come aprire una di quelle lettere». Le norme entrate in vigore nel nostro paese il 25 ottobre non consentono, a causa della pandemia, di viaggiare verso l'Argentina, a meno che si tratti di motivi di lavoro. Il 15 dicembre il governo le rivedrà e deciderà se cambiare qualcosa ma decidere questa volta è stata soprattutto una questione di rispetto. «Ci spiace rimandare di un anno questo viaggio, non avremmo mai voluto, ma, ad un certo punto, devi prenderti la responsabilità di decidere, anche se fa male. Non potevamo tenere tutti gli iscritti col dubbio fino a metà dicembre, non sarebbe stato corretto. Patagonia Alvento si svolgerà, con le stesse date, nel 2022. Abbiamo scelto, sofferto, ma ora sappiamo dove guardare».

Willy Mulonia ha voluto parlare personalmente con gli iscritti, ha voluto spiegare loro cosa stava accadendo: anche questo rientra nella correttezza, nella fiducia a cui Willy tiene da sempre. «Mi hanno ascoltato e hanno capito. Avrebbero potuto cancellare il viaggio, farci altre richieste, invece no. Si sono fidati quando ho detto loro che in Patagonia ci andremo e ci andremo assieme, solo più tardi. Mi hanno solo fatto una domanda: “Nel frattempo non possiamo fare nulla? Perché non ci accompagni in qualche luogo mentre aspettiamo?”. Willy Mulonia ci aveva già pensato, un progetto era lì, pronto. Si chiama Al-Ándalus Bikepacking Light ed è un viaggio attraverso l'Andalusia, partendo da Granada, un viaggio che inizierà a gennaio, dal 2 al 9, per cui ci sono ancora alcuni posti disponibili.

«Da Granada ci dirigeremo verso il cuore dell'Andalusia e poi verso i deserti di Gorafe e Tabernas, luoghi spettacolari. Gli stessi scenari dell’ultima Badlands. Se qualcuno si ritrovasse lì senza saperlo, penserebbe di essere dall'altra parte del mondo. In realtà bastano un paio d'ore di volo e c'è tutta la possibilità di emozionarsi». Dalla cultura secolare delle città, ai luoghi dei film Western di Sergio Leone, sino alle grotte in pietra in cui vivono le famiglie nei pressi del Gorafe. «Ci sono stato questa estate, è affascinante. La temperatura resta costante a sedici gradi, in inverno e in estate. C'è qualcosa in quelle grotte, si dorme benissimo. Una tranquillità rara». Sarà bello e soprattutto sarà un'opportunità perché il viaggio è una cosa seria, una cosa per cui essere pronti. «Bisogna conoscere e conoscersi. Non devi essere solamente tu ad attraversare la Patagonia, deve essere la Patagonia ad entrarti dentro e ad attraversarti. Non è facile, per viverlo bisogna riscoprire l'animo del viaggiatore, non quello del turista. Un viaggio che cambia perché ti cambia. Lui cambia il suo significato, tu torni a casa diverso perché hai capito. In Andalusia proverò a spiegare questo a chi sarà con me».

Per questo Willy non chiede quasi mai a chi torna da un viaggio se gli sia piaciuto, chiede le emozioni che ha provato. Perché dire “è stato bello” non basta, perché la bellezza è soggettiva, anche le emozioni lo sono, però tutti riescono a intuirle, a immaginarle, chiunque si trovi davanti una persona emozionata lo capisce. A gennaio accadrà questo: «L'animo del viaggiatore ha a che vedere con lo scoprire, l'emozionarsi, con l'imparare a non aver paura dell'ignoto, di ciò che non conosciamo. Sarò guida ma non nel senso che tutti intendiamo, non parlerò di dati, numeri e nomi. A essere sincero non parlerò nemmeno più di tanto. Darò alle persone la possibilità di aprirsi e tirare fuori ciò che hanno già dentro. In quel momento sarò lì, ad ascoltare. Sarò un co-pilota». Willy Mulonia risponderà a tutte le persone che gli scriveranno per chiedere informazioni, ma il suo ruolo cambierà. All'inizio sarà consulente, assistente, per aiutare i viaggiatori a preparare la bicicletta o a prenotare un volo, poi diventerà mentore, consigliere, qualcuno che, attraverso la situazione creatasi, porrà domande e aiuterà a cercare risposte già presenti. Solo nascoste.
Ci sarà l'entusiasmo della partenza, la curiosità della conoscenza, il fascino della Spagna e dei suoi angoli più suggestivi, la meraviglia del viaggio che ritorna dopo tanto tempo e quella dell'attesa di un altro viaggio, dietro l'angolo. Soprattutto ci sarà la voglia di scoprire ciò che sta dentro per riuscire a guardare ciò che sta fuori.


Fino a dove potrà arrivare Tom Pidcock?

C'è qualcosa che, osservando Tom Pidcock, balza subito agli occhi. Non è la statura, né quella potenza di pedalata che, proprio perché espressa da quello che pare un corpicino, Viktor Šklovskij avrebbe definito "ostranenie" straniante, ovvero quel processo narrativo capace di "fare uscire il lettore (o l'osservatore) dall'automatismo della percezione". No quello che colpisce subito di Tom Pidcock è, molto più semplicemente, il talento.
Già, il talento, quella particolare caratteristica che pare quasi possa aiutarci a leggere il futuro di una persona. Quel "dono" che, se non viene coltivato, non può dare buoni frutti. Quel tratto peculiare che siamo soliti - anche al di fuori del mondo dello sport - ad associare a grandi artisti, a menti illuminate e geniali.
Il talento in Pidcock più che una forma d'arte appare legato ai parametri della consistenza. Più che una pennellata d'artista si infila nella categoria dello sforzo disumano. Da quando è giovane, Pidcock spinge oltre ogni limite per ridurre ogni margine alla ricerca del massimo risultato, e a fare la differenza, sentendo colleghi, ex compagni o tecnici, sono testa e ambizione: scintille che accendono e illuminano il suo talento.
"La potenza è nulla senza controllo" reclamava un tempo un famoso spot pubblicitario: assioma così banale ma quanto efficace nel voler descrivere i passi che Tom Pidcock, da Leeds, sta muovendo nel ciclismo.
Quando lo abbiamo osservato da ragazzo, in lui vedevamo questo piccoletto, forte, sì, tenace, è vero, ma fisicamente forse non del tutto pronto a fare quel salto di qualità che in una stagione come quella appena trascorsa, ha dato modo di vedere.
Ma quei margini sono stati ridotti: 3° al mondiale di Harrogate nel 2019 su strada, nel giardino di casa, tra gli Under 23, si diceva: "ottimo corridore per carità, ma deve farne ancora di strada"... eppure.
Lo stesso si diceva nel ciclocross: a livello giovanile raccoglieva di tutto un po': "ma vedrete quando arriverà tra i grandi sarà tutta un'altra cosa". E invece in poco tempo si è ritagliato lo spazio necessario per far parlare di sé, magari non alla pari, ma di sicuro subito dietro van Aert e van der Poel.
Dopo la prima stagione su strada i suoi risultati dicono tanto di talento e ambizione: 1° alla Freccia del Brabante, 2° all'Amstel battuto in un fotofinish che se visto dal suo punto di vista grida vendetta, 3° alla Kuurne-Brussel-Kuurne, 5° alla Strade Bianche, 6° al Mondiale (dove arriva dopo aver patito le pene alla Vuelta, comunque conclusa), 15° alla Sanremo, la sua prima volta in una monumento, la sua terza volta in una gara oltre i 200 km. Tutto questo a 22 anni.
Abbiamo voluto solo sottolineare quello che Pidcock ha già mostrato in 37 giorni di gara su strada in maglia Ineos, lasciando, volutamente ai margini, quello che il ragazzo è capace di fare nel ciclocross e in mountain bike. Perché il suo 2021 ha significato titolo olimpico nelle ruote grasse, bronzo mondiale nel ciclocross finendo nella stessa foto sul podio con Wout van Aert e van der Poel che Pidcock, abile nel muoversi anche fuori dalla bici, descrive così: «Conosco poco entrambi, ma di sicuro Mathieu è uno che se non vince non è felice, van Aert invece sa bene quello che può fare e difficilmente nei giorni in cui sta bene non mette a segno il colpo».
Pensa, Pidcock, parlando appunto di cross, che per restare nella storia dovrà conquistare un campionato del mondo, ma è consapevole in quel caso di dover battere quei due a cui inevitabilmente si ispira.
Ma se nel cross i limiti sono ben definiti da avversari e peculiarità della disciplina è su strada che ci chiediamo dove potrà arrivare. Ha vinto, tra gli jr, la Parigi-Roubaix, bissandola poi tra gli Under 23: potrà essere il primo nella storia a completare una storica tripletta vincendola anche tra gli élite? Secondo noi sì, basta avere un po' di pazienza. Ha vinto, tra gli Under 23, il Giro: su di lui si è pronti a scommettere che prima o poi ci proverà anche tra i grandi nei Grandi Giri nonostante la concorrenza attuale sposti decisamente verso l'alto l'asticella della competitività.
Veloce al termine di corse impegnative tanto da giocarsela persino con uno come van Aert, resistente, intelligente nel modo di correre, le grandi classiche di un giorno le può vincere tutte (o quasi) e non sono molti altri quelli che se lo potrebbero permettere - van Aert, van der Poel, Alaphilippe, Pogačar. E poi?
La Ineos oltretutto sta costruendo attorno a lui un piccolo clan di giovani britannici che negli anni lo supporteranno in tutte quelle che sono le sue idee assecondandone le scelte, accompagnandone la crescita.
E allora fino a dove potrà spingersi Tom Pidcock? Se i limiti sono quelli del suo talento, allora significa davvero molto in alto.


Di riforme e futuro sulla strada: intervista a Giovanni Visconti

Giovanni Visconti ha le idee chiare in merito alla recente riforma del Codice della Strada: «Sento dire che è ancora tutto uguale a prima, non è vero, si sbagliano. È peggio di prima, molto peggio. Ogni giorno si continua a morire sulle nostre strade, eppure si sceglie ancora una volta di non fare nulla. Restare immobili di fronte a una situazione di questo tipo è terribile». Il siciliano ammette pochi minuti dopo che, purtroppo anche in lui, si sta facendo strada la rassegnazione. «È sbagliato, lo so bene. È sbagliato perché ci sono persone che su quella strada hanno perso figli, genitori, fratelli. In quella rassegnazione di cui ti parlo c'è tutto il dolore e la rabbia per l'immobilismo di fronte a queste situazioni. C'è chi continua a lottare per una strada più giusta dopo la perdita di un figlio e chi, potendo cambiare, fa altre scelte, si pone altre priorità. Alla fine, ti rassegni perché fa male».

Nella riforma non si parla di zona 30 in città, non si parla di distanza minima vitale per il sorpasso di un ciclista oppure di ritiro della patente per l'uso del cellulare alla guida. Visconti ha qualcosa da aggiungere: «Di queste cose non si dice nulla, ma anche delle cose di cui si parla, si parla a vuoto. A me sembrano norme vuote, che, alla fine, non porteranno nulla, non saranno applicate. Faccio una domanda: si parla di sanzioni per l'uso di tablet alla guida ed è giusto. A parte il fatto che trovo assurdo che la sospensione scatti alla seconda violazione nel corso di un biennio, vorrei capire quante multe si fanno ad oggi per l'uso del cellulare alla guida, situazione già normata. Mi sembra che si punisca troppo tardi. Magari dopo incidenti gravi. Vedo ogni giorno persone che usano il cellulare in auto. Le persone continuano a usare il cellulare in auto perché non sono attente, perché non capiscono ma anche perché non hanno abbastanza timore della sanzione. Dovrebbe bastare il buon senso e il rispetto degli altri utenti della strada, ove non basta servono più controlli e più sanzioni. Sia chiaro, vale anche per noi ciclisti. Perché non si passa col rosso, non si sta appaiati in mezzo alla strada, non ci si distrae. Personalmente richiamo sempre all'attenzione i ciclisti che pedalano con me».

Discorso simile, Giovanni Visconti lo apporta quando si parla del metro e mezzo di distanza. «L'iniziativa dei cartelli è lodevole ma senza controlli, senza sanzioni non andiamo da nessuna parte. Mettere cartelli e ignorarli è un'ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di padri come Marco Cavorso che non rivedrà più suo figlio. La sensazione di non essere considerati come ciclisti l'abbiamo ogni giorno. L'altro pomeriggio, in una galleria, al buio, un camion, a velocità elevata, mi ha fatto il pelo. Una volta mi sarei arrabbiato, l'avrei mandato a quel paese. Oggi ringrazio solo di tornare a casa senza essermi fatto male». Il punto è sempre lo stesso, la strada è un luogo sempre più caotico, dove si scatena il nervosismo di ognuno. Visconti ha posto una regola a tutti coloro che escono ad allenarsi con lui: «Non voglio vedere persone che urlano o mandano a quel paese l'automobilista, il camionista o l'incivile di turno. Non voglio vederle perché tanto così non cambiamo nulla e anzi accresciamo solo quella rabbia che si vive in strada, oltre a rischiare che, di parola in parola, poi ci si metta a litigare e ci si faccia ancora più male». Certo questo non vuol dire che vada tutto bene e che si debba continuare così. «Perché non c'è una pubblicità in televisione che parli di questo? Magari alla sera mentre tutti si è sul divano. Che faccia riflettere su questo tema. Perché nelle scuole non c'è un'ora di educazione stradale? Non credo sia impossibile inserirla fra le materie».

Il ciclista della Bardiani Csf-Faizanè è completamente sfiduciato rispetto alla propria generazione, crede invece nelle generazioni future. «Noi non cambiamo più. I bambini invece assorbono tutto e non devono captare questi comportamenti. Sono loro a dirci che non si usa il cellulare in auto, che non si gettano le carte per strada, a correggere i comportamenti sbagliati che portiamo avanti da anni. Parliamo di questo nelle scuole, se vogliamo avere una strada diversa».

Qualche tempo fa, il figlio di Giovanni gli ha confessato di avere paura quando lo vede uscire per gli allenamenti. «Cosa puoi rispondere? Ha ragione. Se si pensa che io stesso, ciclista, ho paura a farlo andare in bicicletta con gli amici, ci si rende conto dell'assurdità della situazione. È triste perché la bicicletta è una delle più grandi scoperte per tutti i bambini». Anche questo, per Visconti è un discorso di cultura. «L'altro giorno ho rimproverato mio figlio: gli chiedo sempre di mettere il casco, ho visto che lo aveva ma sul manubrio, non in testa. Mi ha detto di non averlo indossato perché altrimenti gli altri bambini lo prendono in giro. Non è colpa dei bambini ma dei genitori: tutti ci fidiamo dei nostri figli, il casco serve per proteggerli dai comportamenti errati altrui, perché lo facciamo percepire come un di più?».

E si ritorna alla capacità di percepire le esigenze altrui. «Ogni volta che parlo di questi temi ho la netta sensazione che sarò ascoltato e compreso solo da ciclisti che vivono le stesse problematiche, come se agli altri non interessasse. È grave. Purtroppo, quando senti parlare di riforme e poi leggi queste cose, la percezione si amplia».


Psicologia e ciclismo: la parola a Elisabetta Borgia

 

«Agli atleti dico sempre che devono prendersi il permesso di levare la maschera che la loro quotidianità impone. Deve esserci almeno una persona in squadra con cui, anche solo per un'ora al giorno, essere se stessi e a cui dire ciò che provano, ciò che non va. Perché no, nemmeno i ciclisti sono superuomini con una vita perfetta e sempre al massimo. Talvolta, però, sembra lo si pretenda». Sarà questa una delle prime cose che Elisabetta Borgia dirà agli atleti di Trek-Segafredo, squadra che affiancherà dal prossimo anno.

«Scegliamo noi cosa raccontare agli altri. Dopo un allenamento estenuante in pista puoi mostrare sui social la realtà della tua fatica oppure puoi fingere che non sia successo nulla. Forse dovremmo iniziare a mostrare maggiormente quella fatica e anche qualche debolezza se vogliamo raccontare la verità. Altrimenti continueremo a diffondere l'immagine fittizia tipica dei social che vogliono tutte le persone senza problemi e spensierate. Questo fa male a tutti». Elisabetta Borgia pensa al ciclismo femminile e a quanto un racconto di questo tipo potrebbe permettere alla gente di conoscere e apprezzare sempre più l'impegno delle atlete.

Borgia spiega da anni queste cose, i primi corsi in Federazione li ha tenuti nel 2013 e in quei giorni si è resa conto di una spiacevole realtà. «Molti direttori sportivi venivano a questi corsi e non ascoltavano quasi nulla, facevano altro. Erano figli dei loro tempi, tempi in cui chi aveva bisogno di un supporto psicologico era un debole o un folle. Tempi in cui non si diceva di andare dallo psicologo per timore del giudizio, forse ce ne si vergognava anche. Dovevi trovare persone sensibili al tema per essere ascoltata». Se oggi la realtà è diversa, è anche perché nel tempo la pressione ha continuato a crescere, a dismisura. L'atleta è iperstimolato. Quando si parla di performance in realtà si parla di diversi fattori da tenere sotto controllo: l'allenamento, i battiti, la posizione, l'alimentazione e così via. «Se non riesci a dare una priorità e a gestire ogni aspetto, diventa impossibile. Molti ragazzi non sanno staccare, non sanno recuperare, non programmano nemmeno il recupero. Oppure, se lo fanno, si sentono in colpa perché, magari, alla sera del giorno di stacco vanno su Strava e vedono che il loro rivale ha fatto sei ore di allenamento». Il timore risiede nel giudizio e anche questo è amplificato: dai media, ai social, ai tifosi e alle persone che si incontrano per strada. Elisabetta Borgia è stata ciclista e ha smesso proprio perché, ad un certo punto, si è resa conto che non sarebbe potuta arrivare dove voleva. Una consapevolezza difficile da raggiungere, ma essenziale. «Attraverso la specializzazione estrema si portano i giovani a credere che sia necessario essere sempre i numeri uno in ciò che si fa. Ai giovani, invece, bisognerebbe anzitutto dire che ci sono delle cose che non si possono cambiare e vanno accettate per quello che sono: alcuni nostri limiti ad esempio. Un conto è voler vincere, altro conto è capire che ci sono aspetti su cui devi lavorare per migliorare, per crescere. È possibile lavorare solo su se stessi per cui, quando abbiamo raggiunto il meglio di ciò che siamo capaci di fare, abbiamo già vinto. Ognuno fa il proprio lavoro: la squadra chiede vittorie, com’è giusto che sia, io come psicologa dello sport spiego questo. Sono due aspetti che devono andare di pari passo ed integrarsi».

In realtà, la sua è una figura abbastanza nuova nello sport e nel ciclismo. In Italia, poi, su questo tema si fa molta confusione. «Manca una regolamentazione specifica. Per fare questo lavoro serve una laurea triennale specialistica e una specializzazione in psicologia dello sport. Chissà perché, però, continuiamo a confondere psicologo e mental coach. Il rischio è elevato. Si può essere mental coach anche attraverso corsi di qualche giornata, ma di certo non si ha la preparazione per trattare certi aspetti. L'effetto placebo esiste e può fare in modo che momentaneamente l'atleta rimuova il malessere: il punto è che se non viene trattato adeguatamente tornerà fuori, perché non si è agito sulla causa. Apro una parentesi: lavoro anche in una comunità di recupero per tossicodipendenti, affrontiamo problemi importanti e ne siamo coscienti. Perché dobbiamo pensare che nello sport, invece, sia tutto all'acqua di rose?». Borgia cita dati: il CIO ha un'equipe che si occupa di seguire la parte mentale dello sportivo, la ricerca dice che atleti ad alto livello hanno una maggiore percentuale di problematiche di questo tipo, non si può far finta di non sentire. «Prendiamo i disturbi alimentari in donne nella fascia 14-17 anni: le sportive ne soffrono in tassi più alti. Per una donna è più facile perdere mezzo chilo di peso che aumentare in watt e a forza di lodare la magrezza come soluzione ad ogni problematica si è giunti a questo punto. Ho parlato recentemente con Paolo Sangalli, il nuovo D.S. della nazionale femminile su strada e mi ha confermato l'intenzione di fare dei corsi in tal proposito per le ragazze junior».

Gran Piemonte 2021 - 105th Edition - Rocca Canavese - Borgosesia 168 km - 07/10/2021 - Jacopo Mosca (ITA - Trek - Segafredo) - Antonio Tiberi (ITA - Trek - Segafredo)photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2021

L'integrazione in squadra sarà lenta e avverrà, in primis, attraverso la partecipazione ai ritiri, ma Borgia precisa: «Nessuno sarà obbligato a parlare con me. Alcuni ragazzi potrebbero non volersi aprire ed è giusto così. È un meccanismo di difesa naturale perché la figura dello psicologo può risultare scomoda. Farò dei colloqui conoscitivi, ma soprattutto starò con la squadra. Il primo passo per essere accettati è la presenza, se vedono che sei lì sanno che comprendi i sacrifici e la fatica che questa vita comporta. Il mio passato da ciclista mi aiuta ad essere credibile in ciò che suggerisco, per esempio quando parlo di giudizio». Borgia sottolinea che gli aspetti da considerare sono tre: concentrazione, recupero e bolla di fiducia. «La concentrazione si allena: dai tutto in quel momento avendo la testa solo lì, poi stacchi, non ci pensi più e nella tua realtà ti circondi di una bolla di persone di cui ti fidi con cui non devi fingere». Anche perché la pressione si insinua in meccanismi impensabili: alcuni atleti vivono con pressione anche le foto o le storie da postare per gli sponsor e bisogna saperlo.

«Comunicare vuol dire sapere chi ti trovi di fronte e come puoi parlargli. Al termine di una gara andata male ci saranno ragazzi o ragazze con cui lo sprone verrà da un rimprovero e altri con cui il rimprovero non servirà a nulla e li porterà solo ad avere più dubbi e a chiudersi in se stessi. Se vedrò situazioni di questo tipo ne parlerò con i direttori sportivi. A volte basta una caduta e il corridore entra in una fase negativa». In molti casi, il ruolo di Elisabetta Borgia sarà di mediazione. «Può capitare che un componente dello staff, un meccanico ad esempio, a fine stagione sia nervoso per via della stanchezza e del tempo lontano da casa. Alcuni atleti non ne risentono, altri captano questo nervosismo e tutto si ripercuote sull'ambiente di squadra». Nel caso di un altro tipo di comunicazione, quella mediatica, Borgia non se la sente di dire nulla ai media, perché fanno il proprio lavoro, quello che può chiedere è maggiore attenzione per l'aspetto personale.

In tutto questo, Borgia evidenzia l'importanza del lavoro con i giovani per tutelare la tridimensionalità della loro vita, qualcosa che si va a perdere quando si trattano ragazzi di quindici anni come professionisti affermati. «Si saltano troppi step, dandoli per scontati, salvo poi parlare di carriere brevi o di calo dei risultati. Il ciclismo è identità e se a quell'età non hai alle spalle una famiglia ragionevole, la prima cosa a mancare è l'istruzione, la scuola. Il rischio è di arrivare a trent'anni senza conoscere, senza conoscersi. A quel punto si può far poco perché le persone faticano a cambiare abitudini consolidate. Bisogna lavorare prima, mentre tutto è in costruzione, in formazione».


Tim Declercq, studente fuori corso

Le ultime settimane di Tim Declercq potrebbero far venire in mente la storia di Enrico Fiabeschi, personaggio creato da Andrea Pazienza, o di qualsiasi altro (celebre) studente fuori corso. Poche giorni fa infatti Tim, che noi abbiamo imparato ad apprezzare per essere "El Tractor" colui che prende in mano il gruppo e pare non mollarlo mai, si è laureato dopo «14 anni. Sia io che i miei genitori pensavamo potesse rimanere soltanto un sogno». Laurea con un master in educazione fisica, training option e coaching. «Era arrivato il tempo che mi muovessi un po' per farlo: ho iniziato questo corso prima ancora di sapere se mai sarei diventato un corridore professionista».

E fa sorridere pensare a De Clercq magari un po' impigrito e ingobbito sui libri dopo aver tirato il gruppo 200 km a corsa: perché quante volte lo abbiamo raccontato? Accendi la tv e l'unica sicurezza che c'è al mondo è quella di vedere prima o poi la sua sagoma, infinita come quella di una cisterna di birra nei sogni di un assetato, davanti a tirare. E quando lo fa non smette mai.
«La mia fortuna - racconta il 32enne belga di Leuven, campione nazionale tra gli Under 23 nel 2011 ma che in carriera deve ancora vincere la sua prima corsa tra i professionisti - è stata quella di aver presentato la parte pratica degli esami lavorando su uno studio fatto sui diversi ruoli e sulle diverse prestazioni dei miei compagni di squadra». Viene spontaneo chiedersi quanto i rapporti prestazionali studiati siano stati influenzati dalle menate di cui si rende protagonista in testa al gruppo. O chissà magari facevano proprio parte dei suoi test.

Ha avuto tempo, De Clercq, di raccontare una stagione che lo ha visto protagonista in prima persona dei maggiori successi di squadra. «Il momento più bello è stato il Fiandre: non c'è migliore soddisfazione di vedere i tuoi compagni che vincono e poi ti ringraziano per quello che hai fatto». Al Tour Declercq è stato vittima di una brutta caduta; ha sofferto come soffre solo chi cade e si fa male e poi è costretto a rialzarsi e continuare, e non c'è sole a picco, pioggia, montagna che possa mandarti a casa, «ma l'obiettivo di aiutare Cav a chiudere a Parigi in maglia verde lo abbiamo portato a casa». Mentre per l'anno prossimo, dopo aver appena disputato «e sofferto come una bestia, non riuscivo nemmeno stare seduto in sella» una Parigi Roubaix sotto la pioggia, spera che l'Inferno del Nord si possa di nuovo correre in primavera «e che gli dei del tempo siano clementi».

Di lui un giornalista belga scrisse anni fa: "Quando Declercq accelera, pare una vecchia lumaca". Lui che c'ha messo 14 anni per laurearsi, non si scompone e rilancia. «Una vittoria personale sarebbe bella, ma se c'è una volata di sette corridori arrivo ottavo: il mio obiettivo principale resta quello di lavorare per la mia squadra». Un lavoro sporco che da oggi farà come laureato.


Alfabeto Marche

Come dice il plurale del nome, le Marche sono tante, magari non milioni di milioni ma comunque molte più di una. Del resto vuoi mettere il gusto di un ciaùscolo, anche di uno solo contro un intero esercito di “negronetti”?

Siccome le Marche sono tante non basterebbe di certo un alfabeto a elencarle, a descriverle, a raccontarle.

Come si fa ad abbracciarle tutte, le Marche? C’è un modo intelligente e appassionante per abbracciare, e conoscere le Marche, se non tutte, almeno un bel po’.

Quale? Andarci in bicicletta.

Ma come? Le Marche sono tutte un su e giù? Come è possibile? Ci vuole un fisico bestiale!

Vi assicuro che non è così. Date retta a NoiMarche BikeLife, il progetto di proposta cicloturistica messo in piedi da un protocollo di 28 comuni marchigiani per “mappare” decine e decine di itinerari permanenti adatti a tutti i tipi di biciclette e, soprattutto, di gambe e polmoni.

Il 23 e il 24 ottobre scorso 25 blogger, giornalisti ed amministratori locali, suddivisi in tre gruppi di pedalatori, hanno percorso 500 km alla scoperta dei territori dei 28 comuni marchigiani consorziati nel progetto NoiMarche BikeLife.

Questo che leggete qui di seguito, in forma di parziale abbecedario, è solo un piccolo assaggio dei luoghi, delle storie, delle bellezze, delle golosità e e delle curiosità che ho incontrato lungo la strada.

 

A come Apiro e altri toponimi

Nelle Marche mi hanno affascinato i nomi dei posti, dei comuni e dei borghi, delle frazioni e di tutte le denominazioni geografiche del territorio marchigiano. Se non l’avessimo capito dalle pendenze – che, per carità, si possono fare anche senza troppo affanno, soprattutto se, come me, vi siete fatti dare una e-bike – che i borghi marchigiani stanno per lo più abbarbicati sulla cima di una collina, i cartelli stradali sono lì ricordarcelo: Montegranaro, Montegiorgio, Monsampietro e Monsano. Oltre a un probabilmente più pedalabile Colmurano, c’è pure Monte Urano, che mi fa venir la voglia di farci arrivare una tappa del “primo Giro planetario d’Italia” che un giorno vorrei tanto organizzare con Stefano Bartezzaghi: da Portovenere (SP) a Castelmarte (MB), da Roveré della Luna (TN) a Solarolo (RA), da Giove (TR) a Saturnia (GR), da Nettuno (Roma) a un comune a caso della Valle del Mercure, in provincia di Potenza. Sassotetto, sui Monti Sibillini, mi pare il luogo perfetto per farci arrivare un traguardo in salita, cosa che infatti da qualche anno succede alla Tirreno-Adriatico. Sempre a proposito di altimetrie Penna San Giovanni trae il suo toponimo da pen, antica parola romana - ovvero di una lingua preesistente all'affermazione del latino -, che significa altura, luogo posto in alto, montagna: da cui deriva anche Appennino. Mentre pedalavo in salita ho visto un cartello e mi sono illuso che fosse lì per me: diceva ATLETA. Ho ringraziato per la stima, o l’incitamento, ma mi sbagliavo. Era la segnaletica di Alteta, tra Grottazzolina e Francavilla d’Ete (che pure hanno la loro bella fantasia). Scendendo salendo da Fiastra costeggiando i crinali nord sempre dei dei Monti Sibillini ho visto un’indicazione per Colpodalla, un posto per volatili che per velocipedi. E per finire ecco Apiro: fantasticando di etimologie mi ero fatto convinto che il suo significato spiegasse l'arcano della canzone di Ivan Graziani di cui potete leggere in questo breve, incompleto Alfabeto Marche, alla lettera I: ovvero un villaggio dimenticato da Promoeteo dove, alla greca, non si conoscesse l'uso del fuoco: a+ pyros. Mi hanno spiegato che invece deriva dal latino e da un grande albero di pero che un tempo si stagliava sul crinale e indicava il luogo (ad pirum, al pero) dove poi sorse il paese. Abbozzando sono caduto dal pero. Ma per fortuna non dalla bici..

 

B come Boccascena

In teatro il boccascena è l’apertura del palcoscenico sulla platea. Le Marche, in quanto a memoria e conservazione degli spazi teatrali, sono una regione speciale: non è un caso che siano chiamate “la regione dei cento teatri”. Tra Sette e Ottocento, nella grande stagione del melodramma italiano, moltissimi comuni marchigiani si sono dotati di uno spazio collettivo teatrale e molti di questi sono rimasti in vita e in uso, splendidamente conservati e felicemente praticati. Io ho avuto modo di vederne solo due: a Montegiorgio il Teatro Alaleona – dove non ci troverete a recitare Alaphilippe e Cipollini – e il minuscolo Teatro Flora, costruito interamente in legno, a Penna San Giovanni.

Penna San Giovanni: Teatro Flora

 

 

C come Carlo il Grosso

Nel primo entroterra di Sant’Elpidio al Mare e Casette d’Ete, sorge la basilica imperiale di Santa Croce al Chienti. Un nome assai impegnativo: perché, innanzitutto, “imperiale”? Perché pare venne consacrata già fin dall’887 da Carlo il Grosso imperatore del Sacro Romano Impero, figlio di Ludovico il Germanico, nipote di Ludovico il Pio e bisnipote nientepopodimenoché di Carlo Magno. Quasi un secolo dopo, nel 968, passa sotto il diretto controllo di un altro imperatore germanico, Ottone I, e crebbe d’importanza per tutto il periodo detto appunto ottoniano, fino alla fine del X secolo. Un’altra leggenda, pare però senza molti fondamenti storici, addirittura colloca qui un palazzo eretto per volere dello stesso Carlomagno.

Basilica imperiale di S. Croce al Chienti

 

E come Ete

È il nome di un fiume, a regime torrentizio, come molti appenninici. Il corso è breve quanto il suo nome: circa una quarantina di chilometri, dalle sorgenti alla confluenza nel Chienti, proprio in prossimità della basilica di Santa Croce. Ma di Ete ce ne sono due: questo l’Ete Morto, che venne deviato nel suo corso originale fin dal XVIII secolo. L’altro, l’Ete Vivo, lungo pochi chilometri in meno, sfocia però direttamente nell’Adriatico, a Porto San Giorgio.

 

F come Falerone

A guardarlo dall’alto, da una mappa zenitale, Falerone sembra una biscia, allungata sul crinale della collina. Sarà forse per questo che l’antico insediamento, che risale all’epoca romana come attesta il vicino sito archeologico di Falerio Picenus, con tanto di Teatro e Anfiteatro romani, e ricco museo archeologico, ha tra i suoi simboli Lu serpe de Falerò, un dolce prenatalizio fatto a forma di biscia che tende a mangiarsi la coda.

Lu serpe, il dolce tipico di Falerone

 

G come Gismondi

Montegranaro è il paese di Michele Gismondi, che dal 1952 al 1959 è stato uno dei più fedeli gregari di Fausto Coppi. Grande amico anche fuori dalle corse, nel pieno dello scandalo del processo per adulterio alla Dama Bianca, Gismondi ospitò a casa sua Giulia Occhini, dopo la sua breve ma umiliante reclusione per adulterio. Per ironia della sorte – ma neanche poi tanto, conoscendo la generosità dei Gismondi – oggi a Montegranaro vive Gioia Bartali, nipote del grande Gino. Gastone Gismondi, nipote di Michele, è stato per anni sindaco di Montegranaro, nonché instancabile promotore delle attività ciclistiche locali.

 

I come Ivan Graziani

Ivan Graziani, teramano di origine, venne adottato dalle Marche fin dagli anni della scuola all’istituto d’arte di Ascoli Piceno e poi della casa di Novafeltria, dove morì il 1° gennaio 1997, a soli 51 anni. Le sue canzoni, quasi tutte, secondo me assomigliano al paesaggio delle Marche: un moto ondoso di parole e musica. Una di quelle che mi piace di più si intitola Fuoco sulla collina e mi ha accompagnato sulla strada tutte le volte che s’impennava verso un crinale e un nuovo panorama.

 

J come Jesi

Nel 2022 il Giro d’Italia avrà come tappa di arrivo Jesi, città di fuoriclasse, da Federico II di Svevia a Roberto Mancini e Valentina Vezzali. La corsa rosa sarà ancora una volta uno straordinario spot internazionale per mostrare a tutti le bellezze delle Marche.

 

L come Licini

Osvaldo Licini è uno dei pittori del Novecento a cui voglio più bene. Non saprei spiegare il perché, ma le sue forme e i suoi colori di un astrattismo pieno di sogni. I suoi angeli, in particolare, mi sono sempre sembrati che fossero disegnati per prendersi cura di chi li guardava. Licini ebbe una vita piena di incontri e di luoghi: Bologna, poi Firenze e il futurismo, la Grande Guerra e poi Parigi e i grandi pittori e scrittori del Novecento: Picasso e Modigliani, Jean Cocteau e Blaise Cendrars; quindi la stagione dell’astrattismo, con Lucio Fontana, Fausto Melotti, Atanasio Soldati e Luigi Veronesi; e ancora l’incontro con Kandinskij. Ma il suo ombelico è sempre stato Monte Vidon Corrado, il paese dove nacque, e dove dal 1946 e per buona parte del primo dopoguerra fu anche sindaco. E dove oggi hanno sede un centro studi a lui dedicato e un’affascinante casa-museo.

Montegranaro: palazzo comunale

M come Michele Scarponi

Un altro che ci si sente pedalare accanto sulle strade delle Marche è Michele Scarponi. La sua faccia da schiaffi, la sua risata forte, la simpatia contagiosa… In realtà è vero che ce lo si sente accanto perché l’attività della Fondazione a lui intitolata, e che guidata con passione e determinazione da Marco, il fratello, è attivissima nelle iniziative per l’educazione del corretto comportamento stradale e del rispetto delle regole a tutela dei più fragili.

 

N come numeri

28 comuni marchigiani che hanno sottoscritto il protocollo d’intenti NoiMarche BikeLife per promuovere il cicloturismo nella regione: Apiro, Appignano, Cingoli, Civitanova Marche, Colmurano, Falconara Marittima, Falerone, Fiastra, Francavilla d’Ete, Grottazzolina, Gualdo, Jesi, Loro Piceno, Macerata. Matelica, Monsano, Montegiorgio, Montegranaro, Morrovalle, Penna San Giovanni, Potenza Picena, Ripe San Ginesio, San Ginesio, San Severino Marche, Sant’Angelo in Pontano, Sarnano, Treia, Urbisaglia. 9 servizi di bike transport; 26 servizi di noleggio bici; 37 guide e accompagnatori turistici; 36 associazioni ciclistiche; 40 officine di riparazione e ricambi e negozi di biciclette e abbigliamento; 2 officine mobili.

Montegranaro, centro storico

O come Ombelico

Sono salito su una collina che sembra davvero di stare nell’ombelico delle Marche. È la collina che sta alle spalle dell’Officina del Sole, una tenuta nella campagna di Montegiorgio, dove abbiamo ben dormito, ben mangiato e ancora meglio bevuto. La collina sulla quale sono salito alla mattina presto, tra i vigneti di Passerina, Verdicchio e Chardonnay, per vedere spuntare il sole spazia il suo orizzonte tutto intorno, dal Conero ai Sibillini: il vino che fanno lì, uno Spumante Brut, metodo Charmat, ottenuto da un blend delle uve dintorno, raccolte da fine agosto a fine settembre, non poteva che chiamarsi Trecentossessanta, come i gradi con cui lo sguardo abbraccia il paesaggio dei colli marchigiani.

Montegranaro: i vigneti dell'Officina del Sole

P come Petronilla

Oltre a formare col marito Arcibaldo la coppia più longeva del fumetto americano (1913, e dal 1921 sul “Corrierino dei Piccoli”), Petronilla era una santa. Ed è la patrona di Grottazzolina, che le aveva intitolato la primigenia chiesa del Ss. Sacramento e del Rosario, ora sfolgorante di stucchi e decori policromi. Si dice che Petronilla martire fosse la figlia (carnale o spirituale, non si è capito) di San Pietro Apostolo. Passa anche per essere protettrice dei delfini di Francia (intesi non come cetacei transalpini, ma eredi al trono, quando ancora ne esisteva uno) e, come dice la guida locale, viene invocata per tenere lontane le pulci.

 

R come Romolo Murri

A Gualdo si trova il Centro studi dedicato a Romolo Murri. Non è che andando in giro in bici, con le braghe fondellate e i lycra aderente a segnare i fianchi non proprio sciancrati, si sia sempre della predisposizione migliore a farsi incuriosire dai luoghi pieni di libri, documenti, archivi. Tanto più se si tratta della storia di un prete spretato, travolto dalla passione della politica. Eppure, a Romolo Murri, nato a Monte San Pietrangeli nel 1870, e morto a Roma nel 1944, dobbiamo forse un po’ di attenzione se non altro per il fatto che s’inventò la Democrazia cristiana in anticipo di vent’anni sui tempi storici. E questo gli costò appunto l’ostracismo del Vaticano e tanti altri preclusioni. Però, se abbiamo corso il rischio di “morire democristiani”, un rischio che, mi viene da pensare oggi, quasi trent’anni dopo, col senno di poi, quasi quasi avrei corso volentieri, possiamo ben dirlo che lo dobbiamo in parte a Romolo Murri e una sosta a Gualdo, dove il terremoto del 2016 ha tolto il pennacchio al campanile, è doveroso farla.

 

S come Sarnano

Sarnano è una delle porte dei Sibillini. Ed è una porta girevole, tante sono le faccende in cui i sarnanesi sono affaccendati. Innanzitutto, anche a fronte delle difficoltà del terremoto, non si sono lasciati perdere d’animo, quasi che non volessero piangere sulle proprie sventure. In pochi anni si sono messi a ricostruire il paese, e mettendolo in sicurezza, facendo così in modo che la cittadinanza rimanesse legata al proprio luogo d’origine. E poi si sono vocati a un’attività di promozione del territorio come grande risorsa di turismo outdoor, che ha nel ciclismo – in tutte le sue declinazioni: la strada, il gravel, la mountain-bike e il downhill – una sfera di eccellenza. Decine e decine gli itinerari tracciati, moltissime le guide che si sono specializzate nell’accompagnamento di ciclisti e cicloturisti su percorsi della più varia natura e impegno. Luca Piergentili, sindaco di Sarnano, senza banda tricolore e senza cravatta, è la faccia di questo proficuo affaccendarsi per fare di Sarnano e dintorni una meta per gli appassionati delle due ruote, punto di partenza di numerose escursioni in quota, sui Sibillini, o sulle panoramiche strade di cresta delle colline circostanti.

Sarnano

T come Tiralento

Dicesi “Tiralento” di un ciclista dall’andatura cosi incerta da non si riesce a capire se avanzi o stia facendo un mimico esercizio di surplace, un Jacques Tati che scivola, da un Jour de Fête, dentro al Giro. Così mi ha spiegato Gianni Traini che, a Grottazzolina, di Tiralento, piccola azienda artigianale di abbigliamento, accessori e scarpe per il ciclismo, è il titolare. Capelli lunghi e grigi alla capo Comanche, Gianni, da quattro anni, insieme al fratello Giuliano, giornalista, disegnatore, collezionista di pezzi rari della storia del ciclismo (fotografie, riviste, memorabilia e quant’altro possa star dentro la sua curiosa voracita), ha concretizzato un sogno: produrre con le proprie mani gli oggetti dei loro sogni. Gianni e Giuliano sono cresciuti a pane e bicicletta sui colli marchigiani nell’entroterra di Porto Sant’Elpidio. Poi le loro vite hanno preso strade diverse: Gianni imprenditore nel settore trattamento metalli; Giuliano giornalista a Milano. Ma il legame con il loro territorio e le loro passioni e rimasto forte ed e riemerso, come un fiume carsico, nel progetto Tiralento. Se esiste un’eta dell’oro del ciclismo e quell’arco temporale che va dal secondo dopoguerra alla meta degli anni Settanta, e Tiralento e un omaggio a quella stagione di campioni e costruttori, corse e icone. Fanno maglie come le si faceva quando esisteva ancora l’artigianato tessile e si lavorava con filati e telai, non con materiali sintetici e macchine da stampa; fanno scarpette e caschetti lavorando il cuoio come i vecchi artigiani di una volta, sagomando a mano e piantando minuscoli chiodini, le “semenze”, nelle suole rinforzate. I loro prodotti non sono similcopie, non sono imitazioni rivisitate: sono proprio “quelle maglie”, “quelle scarpe”. Se c’e un posto dove aleggia il genius loci del ciclismo, questo e Tiralento, Grottazzolina, Marche.

Gualdo: Centro studi Romolo Murri

 

 

V come Vino Cotto

A Loro Piceno c’è un Museo del Vino Cotto, un prodotto di antichissima tradizione ricavato dalla bollitura del mosto prima della fermentazione. Viene ricavato da uve prevalentemente locali, come la Malvasia e il Montonico, il Pecorino, il Moscatello, lo Zibibbo, il Maceratino, il Galloppa, spesso ricavate da vitigni ad alberate, cioè facendo arrampicare la vite su altri alberi, aceri o altre piante da frutta. Il mosto si riduceva a caldo a un terzo del suo volume (interzatura) e poi messo in botti dove fermentava lentamente fino all’invecchiamento che può durare anni e richiede una cura molto simile a quella delle grandi acetaie dell’aceto balsamico. Oggi il vino cotto, dalle intense sfumature aromatiche, è un vino da meditazione, o da dessert


Vivere e pedalare la 5mila Marche

«Si è alzata la tramontana ieri, copriti». È così presto che riesco a malapena a capire chi sta parlando. Si tratta della signora davanti al cui cancello ho parcheggiato la macchina, alle sei del mattino, a Porto Recanati. Effettivamente fa un freddo insospettabile per una località di mare. Manca un’ora alla partenza della 5mila Marche, ma la signora è stata svegliata dal figlio, che non vede l’ora di andare a vedere la partenza dei ciclisti sul lungomare. Non accade molto altro d’inverno, a Porto Recanati: il weekend della Gran Fondo Nibali, organizzato dall’ex professionista Andrea Tonti, ha riempito questo paesino e tutti quelli limitrofi.

 

Andando a ritirare numero da attaccare alla bici e mappa, scopro cosa significa “partenza alla francese”: fissata un’ora, in questo caso le 07:00 del mattino, si può partire a quell’ora precisa, ma anche dopo. Senza fretta. La 5mila Marche bisogna prenderla con calma. Si chiama così perché si fanno cinquemila metri di dislivello in più di 250 km: al via si discute se il primo ci metterà più o meno di dieci ore. Mentre ascolto gli altri, penso inorridito che non ho mai pedalato più di nove ore. Non ho mai partecipato a un evento organizzato con altri ciclisti, che grande idea una 250 km per la prima volta! Non ho mai nemmeno pedalato con un numero attaccato alla bicicletta (quest’ultima voce non viene depennata perché non riesco materialmente ad attaccarlo alla bici).

Devo fare in fretta, lo speaker si sta già spendendo in un discorso motivazionale. È vero che si può partire quando si vuole, in sostanza, ma al primo evento della mia vita potrò arrivare in ritardo? Se il sole fosse sorto una dozzina di minuti prima, mi sarei accorto di aver dimenticato in macchina il ciclocomputer. Me lo fa notare un signore con cui inizio a chiacchierare perché sulle appendici del manubrio ha un accessorio di cui devo chiedergli: è un piccolo specchietto retrovisore «che comprai alla classica più bella, la Amstel Gold Race. Ne trovai solo uno, altrimenti ne avrei comprati di più».

Al primo semaforo, dopo pochi chilometri, tutto il gruppo si ferma. Un centinaio abbondante di ciclisti aspetta il verde, senza particolari smanie. La gran parte di noi è partita col buio e arriverà col buio. Lo strappo che da San Girio porta a Potenza Picena è la prima salita di giornata. Ci lasciamo sulla destra la via Contrada Crocefissetto che siamo già impiccati al rapporto più leggero. Johnny, invece, spinge un rapporto lunghissimo. È alto sui pedali da almeno un paio di minuti, come se la sella scottasse. Ha il casco largo e rosa, gli occhiali, anche in volto assomiglia ad Alberto Bettiol. Ma viene dal Massachusetts. Si è trasferito a Monteriggioni perché «I don’t like America» e non sembra molto in vena di chiacchierare, per il momento mena sui pedali e basta.

Tutto attorno, si svolge la vita normale delle persone. Il furgone del pane, il muratore che fa colazione nel bar sotto casa. Ogni tanto qualcuno ti guarda con un misto di incredulità, stima e sbigottimento. Uscendo da Montelupone, sono tanti i bambini che aspettano lo scuolabus sul cancello di casa, avvolti in sciarpe e piumini che vorremmo avere indosso anche noi.

Francesco ha il k-way nero e giallo della Direct Energie di qualche stagione fa. Stiamo tentando di recuperare un gruppetto in cui l’ultimo ha raffigurato, sulle tasche posteriori della maglia, il volto della Madonna. Dimenticato il navigatore, devo sempre stare con qualcuno che conosce la strada, per non perdermi. Ne battezzo un paio con la maglia del Pedale Lecchese. Esperti. Uno sta distanziando l’altro all’ingresso di Macerata e il secondo, il meno giovane, ha tutto il tempo di raccontarmi di lui e della bici. Non è alla sua prima randonnée, anzi in passato ha fatto la «Parigi-Brest-Parigi, la Alps4000 e altre mattate da oltre mille chilometri».

Entrati a Macerata per l’unica manciata di chilometri in un traffico fastidioso, sussulto quando vedo il monumento ai caduti. Su quelle scalinate venne arrestato Luca Traini, il neofascista che si mise a sparare a chi aveva un colore della pelle diverso dal suo. Fortunatamente, continuando a pedalare si prova a dimenticare anche questi orrori.

Si affianca a noi un signore in pensione, Silvio, coi baffoni. Originario di Pandino, tra Lodi e Crema, un «famoso centro per lo smistamento carni, ma ora delle famiglie che gestivano macelli e facevano salami non ne è più rimasta una» dice con un po’ di nostalgia. Qualche anno fa, Pandino ha ospitato alcune riprese di "Chiamami col tuo nome", chissà se Silvio l’ha visto. Non fatica, comunque, a trovare un ciclista originario del lodigiano e sentirli parlare in dialetto diverte tutti.

Riascoltando messaggi vocali mandati prima delle nove del mattino, sento i denti sbattere tra una parola e l’altra. Ulivi, campi arati, alberi ai lati della strada e traffico minimo sono lo sfondo delle prime due ore. Addentrandosi nell’entroterra, si nota, come dice Simone del gruppo con cui condivido questi chilometri, che «nelle Marche non sanno cosa sono i tornanti. Vedono una collina e pensano “ma sì, facciamoci passare una strada dritta per dritta”». È una considerazione certamente parziale, ma certi muri mettono il dubbio. Quello di Pollenza lo vedi arrivare da lontano, sotto le ruote senti ogni grado di pendenza cambiare.

 

Ottime notizie: siamo in via Gioacchino Murat, quindi – immaginavo affamato e desideroso di fermarmi – vicino a Tolentino, sede del primo gazebo-assistenza. Nel 1815, il re di Napoli subì la sconfitta decisiva nei confronti dell’impero austriaco proprio qui, nel comune di cui si fatica a trovare informazioni online perché omonimo della scrittrice del New Yorker Jia Tolentino. Oltre al cibo, i volontari regalano opuscoletti (quello sulla basilica di San Nicola è fatto davvero bene) e brochure (“Tolentino musei. Arrivi come turista, parti come amico”) su Tolentino, che per qualche strano motivo ho conservato per tutto il viaggio.

Andrea prende subito una bevanda energetica, un panino e siede per terra per mangiare con più calma. Poco prima, sul muro di Pollenza, era stato in grado di descrivermi le differenze tra la mia Bianchi Infinito e la sua Bianchi Oltre, sul cui manubrio ha ben fissato un enorme ciclocomputer che avrebbe indicato la strada fino a Matera. Mi metto in testa di seguire lui, sempre a ruota, fino a che non torneremo a Porto Recanati, ma il piano fallisce presto: Andrea ha già divorato il suo panino quando io non sono ancora a metà e le mie gambe di rimettersi in moto proprio non ne vogliono sapere.

 

Un tratto speciale della 5mila Marche è quello che collega Tolentino a Sarnano, campo base della prima, vera salita di giornata. Sono una trentina di chilometri con più salita che discesa, con zero traffico e zero pianura perché siamo nelle Marche, con una vista mozzafiato sulle valli circostanti. Per uscire da Tolentino, un bellissimo ponte sul Chienti in selciato. Poi Sarnano, che inganna. Inizia qui la salita di Sassotetto, si sa, ma non subito. Da un paio di chilometri ho tolto il padellone davanti in attesa della salita hors catégorie, ma non comincia. Il cielo s’è fatto nuvoloso e un’indicazione, a bordo strada, spicca sulle altre per bellezza del nome: indica una passeggiata, la Via delle cascate perdute.

Finalmente la salita verso il valico di Santa Maria Maddalena comincia, e forse si stava meglio prima. Si parte da circa 500 m.s.l.m. e si arriva a quasi il triplo. Si parte in gruppo e si arriva sgranati. Si parte con le barrette prese a Tolentino che ancora danno energia, e si arriva che il ristoro in cima è l’unica cosa importante. Alcuni operai stanno rifacendo un terrapieno a lato della strada, ci chiedono se siamo della corsa di Nibali, «certo!» rispondiamo. «Volete un passaggio fino a Porto Recanati, eh?» Ci chiedono senza sapere che a noi interessa viaggiare, non arrivare.

Supero un paio di persone in salita. Uno ha lo zaino e si lamenta in continuazione con se stesso, per non essere stato in grado di vestirsi adeguatamente. D’altronde non è facile: siamo partiti in riva al mare e ora se alziamo gli occhi vediamo cime imbiancate di neve e impianti sciistici. Un altro, proprio a un chilometro dalla cima, ha stracciato la catena. Siede a bordo strada, disperato.

I paletti neri e gialli a bordo strada, quelli che restituiscono inequivocabilmente la sensazione di essere in montagna, si fanno più frequenti. Dopo un tornante verso sinistra, ci si lascia alle spalle lo sperone di roccia rossa, che un local del nostro gruppetto non riesce a ricordare se si chiami Punta di Ragnolo o Pizzo di Meta. Ogni tanto la strada permette di guardare giù, verso valle, e immagine cosa stia succedendo là in basso. Se lo starà chiedendo, solo da molto più in alto, anche Michele Scarponi, la cui stele si trova proprio sul punto di scollinamento del valico di Santa Maria Maddalena. Scarponi ottenne una delle sue vittorie più belle proprio in una tappa che passava da qui: la Civitanova Marche-Camerino della Tirreno-Adriatico 2009, di cui si aggiudicò la classifica generale. «Il mio soprannome è l’Aquila di Filottrano. L’altro giorno, dopo la tappa di Montelupone, il mio compagno Gilberto Simoni mi aveva detto: “Se non vinci ti chiamiamo il Fagiano di Filottrano”».

La stele è in bianco sibillino, «una delle rocce più chiare che ci sono. Poi l’ho incisa e scelto il blu per realizzare un’immagine moderna» mi dirà il giorno dopo l’artista Valentino Giampaoli. Scarponi è rappresentato vittorioso, che indica il cielo, sotto la scritta “correte in bici, divertitevi, inseguite un sogno”. Tira un vento micidiale, che ci costringe a prendere due cose al volo e a ripartire subito. Uso la musette di carta come foglio di giornale sotto la maglietta, ringrazio chi si sta prendendo tanto freddo per rifornirci, e via, in picchiata verso Bolognola e San Lorenzo al Lago. Il primo cartello che si incontra, in realtà, è quello dell’abitato di Pintura: perfetto perché dietro le cime innevate sembrano dipinte per davvero.

In direzione opposta, tante moto storiche, numerate, partecipano a un raduno, una sorta di 5mila Marche a motore. Arrivati al lago di Fiastra, troviamo Andrea fermo sulle scalette di un bar. Poche ore prima mi raccontava di come si fosse stancato, dopo diversi anni vissuti a Bologna, di fare le salite di Mongardino, di Monghidoro, sempre quelle. Va molto forte in bici, Andrea, e ora mi dispiace vederlo fermo a dibattere, sembra proprio, di cose di lavoro al telefono.

Saliamo insieme verso la città universitaria di Camerino, dove perdiamo un’altra occasione per abbandonare la strada più veloce, la provinciale che lambisce solo i paesi, e addentrarci nel centro storico, arroccato su una collina che promette una vista spettacolare. Ma quando hai così tanta strada ancora da fare, allungare è una delle ultime cose a cui pensi. Castelraimondo, Matelica: la SP256 è scorrevole, forse per la prima volta da inizio randonnée facciamo un’ora sopra i 28 km/h di media. Tutto troppo piatto, Francesco? Il meccanico messinese ha fatto buona parte della 5mila Marche con me e ha letto male la traccia: involontariamente, abbiamo tagliato via dal percorso il muro di Brondoleto e Castel Santa Maria. Fanno circa otto chilometri e trecento metri di dislivello in meno. Tante chiacchiere e risate in più.

In “Matelica. I suoi abitanti, il suo dialetto”, Amedeo Bricchi fa uno spaccato del parlato locale dedicandogli paragrafi come “Ciò che della sintassi latina permane nel dialetto matelicese”. È un libro molto complicato e quasi illeggibile da chi non viene da Matelica, ma alcuni passaggi fanno sorridere: «Non è regolare né bella la pronuncia Matèlica con la è aperta, cosa che si riscontra specialmente nella zona di Jesi, Ancora e più a nord, e nelle radio e tv locali di quei territori, e che la Pro Matelica dovrebbe curare di correggere». E ancora, in una nota sui soprannomi della famiglia Carsetti: «Brodolò era il notissimo Antonio, la cui figura di barbiere nella piazza principale è stata per decenni un’istituzione. Quando si sposò, non disse nulla al padre, che venutone a conoscenza lo rimproverò. Imperturbabile, Antonio rispose: “E quando ti sei sposato tu, mi hai detto qualcosa?”. Diceva che sulla sua tomba si doveva scrivere questa epigrafe: Carsetti Antonio non fu mai perverso: non pregate per lui ch’è tempo perso».

Tra Matelica e Pianné, dove la strada inizia a salire verso la seconda vetta terribile di oggi, Monte San Vicino, gli scuolabus stanno riportando a casa i bambini. Braccano è l’ultimo insieme di case, ma non è il classico insieme di case. Ce ne accorgiamo subito, quando su un muro di mattoni vediamo il cartello “paese dei murales” e sulla destra vediamo il primo: una donna con quattro occhi sul muro di una casa, che fissa i randonneur. Una tigre disegnata su una casa gialla, una carpa su un’abitazione color salmone. Catapecchie sfitte rinascono grazie a un po’ di colore. Il murale migliore? Dei panni appesi a un filo, su un balcone di una villetta poco dopo Braccano.

Letizia, un’amica jesina, mi aveva parlato benissimo di Monte San Vicino, ma è ancora più bello di così. La strada rimane in costa per un bel pezzo e si può guardare giù, mentre si sale. Matelica e altri abitati che compongono la valle del fiume Esino (l’unica che abbiamo incontrato che si sviluppa da nord a sud) diventano sempre più piccoli. Una quantità di verde da far impallidire foreste ben più note è illuminata a chiazze dalla poca luca del sole che penetra le nuvole. La cosa da fare sarebbe fermarsi ogni duecento metri e scattare mezz’ora di fotografie, ma la strada chiama: sono una dozzina di chilometri di salita al 7% medio, meno regolare rispetto a Sassotetto. Macchine incrociate in circa un’ora di faticaccia: una.

Avendo mangiato poco a Sassotetto causa freddo, le energie non sono più tante. Ho un ultimo gel e mentre lo apro mi chiedo – siccome è fatto principalmente di acqua, fruttosio e acido citrico – quale sia il verbo più adatto per descrivere l’azione che sto facendo. Si mangia un gel? No, non è abbastanza solido. Si beve un gel? No, non è abbastanza liquido. Si assume un gel? No, non è una medicina. È strana, questa abitudine dei ciclisti, di affidarsi a una sostanza così enigmatica (tra gli ingredienti, sul retro, leggo cloridrato di tiamina: che diavoleria sarebbe?) eppure così indispensabile. Me ne cade una goccia sul manubrio e pur di non assumere quelle tre calorie la raccolgo col dito e me lo metto in bocca. Ognuno ha il suo rapporto coi gel: a me, per esempio, non fanno sentire le gambe per una ventina di minuti. Dopodiché, però, è crisi nera. Lo stomaco inizia a volere qualcosa di sostanzioso, le gambe si intorpidiscono, la testa si chiede perché l’hai preso quel maledetto gel.

Quasi in cima, la salita dà un attimo di tregua. Arriviamo all’ultimo ristoro, allestito poco dopo il GPM, assieme a un uomo argentino che invece saliva dall’altro versante. Scoppia a ridere appena ci vede, capisce tutto: ha preso la traccia al contrario. Per ripararci dal vento, con Lucio e Francesco ci sediamo dietro al camion dell’organizzazione. Ci fosse il thè caldo, ne berremmo un litro a testa. «Fanno tre gradi» dice con accento sudamericano l’ex massaggiatore di Andrea Tonti.

 

La discesa è lunga e abbastanza rotta. Pian dell’Elmo, Frontale, lago di Cingoli. Arrivati ad Apiro, lasciamo attraversare la strada ad alcune nonne che stanno riportando a casa i bambini dopo il pomeriggio a scuola. È divertente: abbiamo incrociato tutti i momenti della vita scolastica. Se i bambini hanno fatto mille cose nel mentre, noi fondamentalmente solo una: pedalato.

Nella salita verso Cingoli, un ciclista con una maglia particolarmente bella prende forma davanti a noi. È tutta nera, coi colori dell’arcobaleno davanti. La indossa Christian, che di quella maglia mi spiega il significato: «È dedicata a mio figlio Teo, che non c’è più» dice con la voce rotta. Dall’emozione, non dalla salita. “Il Sorriso di Teo” è un’associazione di Spoleto che Christian ha co-fondato e si occupa di prevenzione di malattie cardiologiche. Hanno cardio-protetto tante scuole e Christian ne parla con orgoglio. È di nuovo in sella da poco, mi spiega in una chiamata a novembre. Era arrivato a pesare 120 kg, ma «per me la bici è tutto» e ha ricominciato a pedalare. «In bici ho riso, pianto, chiacchierato con Teo: tutto».

Nessun soprannome è meritato come “il balcone delle Marche” per Cingoli. Le colline sottostanti, verdi (color muschio, boschi e siepi) o gialle (ocra, i campi arati) a seconda di dove si posa lo sguardo, continuano per chilometri e chilometri. Il mare – che è anche dove dobbiamo tornare noi – è una striscetta blu all’orizzonte. Al contrario di noi tre, le nuvole in cielo non sembrano aver voglia di continuare assieme il loro viaggio e si sparpagliano, senza logica. Varcata la soglia dei duecento chilometri, Francesco è davvero alla frutta. Lucio gli urla che «a ruota devi stà! A ruota che non pigli aria!».

Sul roadbook si legge che a Cingoli inizia la parte più facile della 5mila Marche ed è probabilmente vero: da seicento metri d’altitudine si deve arrivare a zero e le due salite più toste sono alle spalle. Essendo nelle Marche, però, le strade non ce la fanno proprio ad appiattirsi. Si sale verso Montefano, poi verso Recanati. Non sono salite paragonabili alle precedenti, s’intende, ma il livello d’energia è sul rosso da un pezzo. La luna compare, ancora alta, quando la strada s’inclina e costringe ad alzare lo sguardo. Se Leopardi ha scritto qualcosa sulla luna, mi piacerebbe leggerlo una volta arrivato. Dopo un paio di birre, magari, mi corregge Lucio, che indica Loreto, consapevole della fortuna che ha nel pedalare abitualmente in queste zone.

L’ultimo strappo – l’ultimo, davvero – lo approcciamo che il tramonto sta a metà dell’opera. In via Selve di Sant’Antonio, a prepararci all’ultimo muro della 5mila Marche ci pensano un cavo della luce che sembra colleghi il niente al niente e qualche ulivo sparuto. La casa del custode di villa Beniamino Gigli, tenore marchigiano considerato tra i migliori al mondo tra gli anni Venti e Trenta, ravviva i sensi intorpiditi dallo sforzo. Può tranquillamente essere scambiata per una villa a sé stante: non si capisce se di un rosa naturale o di un rosso sbiadito dal tempo. Si nota bene, invece, che ormai edera ed altre piante la stanno mangiando. Un viale sassoso porta alla villa vera e propria, e lo percorrerei, se non mancasse così poco all’arrivo.

Gli ultimi tre, quattro chilometri sono una meraviglia. Dalla sommità del colle di Montarice è tutta leggera discesa fino al mare. Quel panettone che si vedeva da decine di chilometri si conferma essere il Conero e il cielo dietro assume striature rosa. Le case di Porto Recanati sono luci, si possono contare dall’alto; le gambe a Porto Recanati ti ci portano perché non hanno fatto nient’altro per le scorse dieci ore e mezza. Le foto scattate dalla bici, quel giorno, finiscono qui: se scorro il rullino, Francesco e Lucio hanno una medaglia al collo, triangolare come le colline delle Marche viste di profilo, e si rallegrano di avercela fatta. Come disse Andrea ore prima, con la voce rallentata dallo sforzo sul muro di Pollenza, «non si è mai soli quando si condivide la strada».