La lezione di Roubaix
2 Ottobre 2021CorseParigi-Roubaix,Deignan,Inferno del Nord
Elizabeth Deignan è partita da sola quando mancavano ancora diciassette settori in pavè. E ci viene da dire che, forse, inizio più bello di questo non poteva esserci per la Parigi-Roubaix femminile, alla sua prima edizione oggi, dopo 125 anni da quel 1896 che vide la prima edizione della Roubaix maschile.
È partita da sola mentre la pioggia rendeva fango la terra incastrata fra il ciottolato irregolare e l'hanno rivista dopo il traguardo. Dietro il lavoro magistrale di Elisa Longo Borghini, che è caduta, ha sbattuto una spalla, ha sporcato la maglia tricolore di quel fango, poi è ripartita, all'inseguimento di Marianne Vos ed è entrata per terza in quel velodromo, schiacciato contro il cielo plumbeo, dietro alla compagna di squadra e all'olandese.
Lizzie Deignan che solo qualche settimana fa aveva risposto in maniera decisa a Patrick Lefevere che ironizzava sulla possibilità di investire nel ciclismo femminile. Per dire che il ciclismo femminile non ha bisogno di chi non crede alle sue possibilità, di chi lo tratta come una seconda scelta o di chi vuole elemosinargli qualcosa. Non ne hanno bisogno queste atlete che oggi all'ingresso a Roubaix erano stremate, sporche, infreddolite per tutta quell'acqua presa, ma, guardando il pubblico, si sentivano orgogliose. Quelle atlete che ieri sono passate dalle docce di Roubaix e che adesso ci torneranno, per sciacquare via la terra, per ripulire ogni lineamento dalla ghiaia e anche dal sangue che si dura a cadere fra quelle pietre. Quelle che hanno fatto vedere che la Roubaix non era una corsa troppo dura per una donna. Era dura, certo. Come lo è per gli uomini, come per qualunque essere umano. Lo sa Elisa Balsamo che è caduta eppure all'ingresso nel velodromo sorrideva e salutava: perché la maglia iridata l'ha portata lei in quel velodromo.
Elizabeth Deignan che è madre e da quando lo è diventata è più felice. Così felice da riuscire a rendere facili molte cose difficili. Certe cose, invece, non si possono semplificare e si affrontano come sono, da uomo, da donna, da bambino o da ragazzo. Si affrontano come capita nella vita e non c'è chi può riuscirci e chi no. Dice che per essere una madre migliore, forse, non dovrebbe più correre perché non bastano le ore di una giornata per essere una buona madre. Dice che da quando è diventata madre il ciclismo è contato sempre meno, eppure in giornate come queste la sua lezione è più che mai importante per il ciclismo.
Perché l'ingresso nel velodromo di Roubaix di Deignan, che ha vinto e tornerà a casa con quel trofeo di pietra che narra tutta la concretezza e la crudeltà di una gara così, è la migliore risposta a tante cose che si sentono e non solo nel ciclismo. Come l'ingresso di tutte le altre atlete che hanno fatto di tutto per arrivarci. A tutti coloro che dicono che il ciclismo femminile non è spettacolare basterebbe riguardare la sua azione. Alla continua tentazione di paragonarlo al maschile, come se per avere dignità dovesse assomigliargli, come se per meritarsi spazio e opportunità dovesse rincorrerlo. Come se non gli bastasse essere ciò che è.
E ancora per tutti coloro che chiedono alle donne di scegliere tra una carriera e una famiglia come se non potessero gestire entrambe le cose e farlo bene. Come se non potessero scegliere autonomamente se avere una famiglia, un figlio o un certo lavoro. Elizabeth Deignan lo ha raccontato anche per dare un segnale. Ma non solo perché questa giornata fa a pugni, come molte altre giornate di sport, con tutti quei pregiudizi, quegli assiomi senza alcun significato: la fatica come qualcosa riservato agli uomini, su tutti.
Basta guardare e poi tornare a riflettere. Quello di oggi è un passo importante, qualcosa di cui essere orgogliosi come è Roubaix. Ma alle donne non può bastare questo orgoglio, che è gran cosa ma deve essere solo l'inizio. Non può bastare se poi i premi di gara sono mostruosamente squilibrati, se gli stipendi non si equiparano, se molte ragazze che vorrebbero correre in bicicletta per lavoro non possono farlo pur avendo il talento, pur meritandoselo. Non può bastare l'orgoglio, serve la presa di coscienza, serve la volontà.
Giornate come queste, podi come questi, storie come queste possono essere la spinta giusta per essere così felici da rendere facili cose che fino ad oggi sembrano difficili. Oppure da affrontarle in tutta la loro difficoltà, perché così fanno gli esseri umani. Da rendere ovvie cose che dovrebbero esserlo da sempre. Da rendere più giusta la fatica e anche l'orgoglio.
Jeroboam 300 - Gravel Challenge
1 Ottobre 2021GravelGravel,Jeroboam
LENT MA SEGUENT
Partiamo dal nome. Jeroboam è la bottiglia di spumante da 3 litri. 300 centilitri che in una metafora ciclistica è "facile" tramutare in 300 chilometri. È "facile" a parole, perché basta chiudere un secondo gli occhi, concentrarsi sul vero significato di una cosa e trasformarlo a proprio piacimento.
È meno facile per chi questa idea l'ha curata, tracciata, organizzata e resa vera. L'organizzazione ha preso un termine dell'enologia e l'ha reso pedalabile.
Pedalabile... beh, insomma, non sempre.
Ma i ragazzi in maglia azzurra dello staff sono sinceri sin dall'inizio. Il briefing per la 300 è diverso da quella della 150, principalmente per l'intro lapidaria e inconfutabile. Only three words: «È davvero impegnativa».
Di solito si parte con un forza, un daje, un alè, un mola mia, un dai che ce la fate. Ma così è meglio, perché è un attimo prenderla troppo alla leggera. Alzo il buff a filo del labbro superiore e rispondo dentro di me: "Lent ma seguent".
PECCATI
Anche per questa intro, alla partenza alle 7:30 di sabato mattina mi vien subito da pensare a Geroboamo. Da lui viene il nome. Dal primo re d'Israele, che abbandonò la retta via del Cristianesimo, per venerare il vitello d'oro. Geroboamo il re dei peccati.
E di peccati noi 54 alla partenza del percorso lungo probabilmente ne abbiamo molti da espiare. E infatti la prima parte del percorso è costellata di imprevisti.
Pronti, via, siamo nel gruppo e inizia subito a piovere. Anche lo sterrato è puntuale ed è dietro la prima curva.
Alla prima pausa per cambiare già assetto e indossare il mantello da supereroi weatherproof ci accorgiamo che ho già perso una borraccia. O meglio la falsa borraccia con il GPS tracker.
Bene! Dopo soli 10 km percorsi salutiamo già il gruppo, e sotto l'acqua facciamo rientro verso Erbusco. Fortunatamente incontriamo due ragazzi che stavano tracciando anche il mio percorso. Perdo l'occasione di approfittarne e onestamente metto il mio tracker in un posto più al sicuro, nella sacca sopra il telaio, vicino al cuore pulsante della Canyon Grizl, che già sbuffa: «Simone sei il solito Zaaaai»
.
MAI SOLI
La solitudine creata dalla mia ingenuità è in realtà una bolla che ci permette di scegliere il nostro passo, senza alcuna influenza esterna.
Fortunatamente la pioggia smette ed esce un sole timido. La prima vera salita a Polaveno scorre via liscia, come il suo asfalto (che rimpiangeremo) e parliamo anche con un biker locale che ci racconta di come abbia iniziato a spingere in mountain bike per un amico partito troppo presto.
«Voleva fare la Spartacus, anzi era già iscritto. Io non ero preparato per una gara del genere, una specie di Jeroboam in mountain-bike. Ma dovevo farla e l'ho finita. Non ero solo».
E da quel momento, il biker che conosciamo solo per voce e volto, non si è più fermato. Penso al buff che indosso, penso a chi mi ha portato ad essere qui anche oggi ad affrontare una sfida con noi stessi.
Non per vincerla o perderla, ma per affrontarla. Perché quello che rimane, nel bene o nel male, è sempre una piccola consapevolezza in più di poter superare ogni difficoltà. Perché in fondo non siamo mai soli. Nemmeno quando a Bovegno si prende la strada di S. Antonio e si inizia a salire. Nemmeno quando passiamo dalla Santella di S. Antonio, e ci accorgiamo che è vuota. Temiamo che il Santo sia scappato, per quello che ci aspetta. Ed avremo ragione.
LE SETTE CROCETTE
Le sogneremo spesso le sette crocette. Sono lì in cima al passo, al fresco dei loro 2041 metri, dal 1668. Non proprio queste crocette ora in ferro battuto, perché originariamente erano di legno.
Nessuno sa di preciso come mai siano lì, ma per noi sono il primo vero spartiacque della nostra Jeroboam.
Sapevamo che sarebbe stato il passo più duro da affrontare. Almeno sulla carta, ma in effetti sarà così anche sulla ghiaia.
Il muro a secco accompagna i primi tratti di mulattiera, che sfumano gradualmente in sentieri di cresta e in traversi tipici di medio-alta montagna. Non è roba da gravel, ma la Grizl, un po’ pedalata, un po’ spinta, rimane sempre fedele al mio fianco. Così come la Grail di Armin, nonostante un gracchiare costante della catena dilavata dalla pioggia di partenza.
Dalla nebbia che circonda il nostro lento avanzare, spuntano delle presenze, che rompono la monotonia della nostra fatica (e del mal di schiena): davanti a noi due geroboami che arrancano. Non siamo soli.
Poi una baita che invita a comprare il suo formaggio. Uno dei nuovi compagni di viaggio, cade in tentazione e si appesantisce di mezzo kilo di formaggella. Non lo rivedremo più.
Noi chiediamo dell'olio per la catena di Armin. E non è stato facile.
"Avete dell'olio?"
"Olio? Mmm Collio?"
"No, OLIO, olio della catena, della moto"
"Olio? Mmm mah".
"Ghè mia lè de l'ole?"
"L'ole, certo, chel nurmal della motosega o chel de mangià?"
L'olio della motosega rende la trasmissione di Armin un violino. Salutiamo il formaggiaio, con la promessa di tornarci in un giorno di sole, e proseguiamo tra gli asini e le mucche.
Come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette si fanno desiderare. L’atmosfera bucolica e quieta che ci circonda allevia però anche l’attesa più snervante e i polpacci che tirano tra un passo su tacchette d’acciaio e l’altro.
La vista sul monte Ario, sulle 3 Colombine, sul Campione e sul Guglielmo, è incastrata tra le nuvole basse che, come tende spesse e pesanti, non la fanno passare.
Ma poco importa, lo spettacolo è sul nostro stesso sentiero.
Assistiamo perfino allo spettacolo della vita. Una pecorella partorisce da sola, con noi come unici parenti. La incitiamo mentre dà alla luce il piccolo Geroboamo. Sì, ci ha concesso l’onore di scegliere il nome del piccolo.
E come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette sbucano all’ultimo secondo, dandoci perfino un piccolo scorcio del paesaggio immenso circostante. Solo per qualche minuto.
LA SERENITA’
Può sembrare un ossimoro parlare di serenità durante due giorni di pedalate su sentieri poco brevettati per le due ruote non ammortizzate.
Eppure, dalle sette crocette fischiamo in picchiata sull’asfalto freddo ma accogliente del Passo Maniva, che ci prende per mano e ci spinge fino al Bivacco Tita Secchi.
La sua struttura di legno, quasi una protesi della costa rocciosa su cui appoggia, ha in serbo per noi panini con la nutella e salame bergamasco fresco fresco di taglio.
Il primo timbro, che è in realtà una firma, ci spinge ancora più dell’asfalto del Maniva e ci proietta in pieghe continue tra i 12 tornanti acutissimi che dal Passo Baremone ci mandano “in ferie” ad Anfo.
Le rive del lago d’Idro sanno di week-end tutto salviettone, piedi a mollo e frisbee.
Ed è qui che ci riprendiamo la nostra serenità. Riusciamo a concentrarci su cosa stiamo facendo, su ogni singolo movimento, respiro e sguardo di questa avventura. La fatica c’è, ma se ne sta zitta in un angolo, almeno per un momento, e ci fa godere appieno della vita.
E poco male se dal fondo del lago d’Idro si torna a salire. E si torna a salire per quasi 1500 metri, prima lisci poi ruvidi.
Il tramonto con vista sul cavalluccio marino che è il lago d’Idro, alternato da curve in un bosco che già profuma di sera, rafforzano il senso di serenità che sta guidando il momento più brillante della nostra giornata.
E nemmeno il buio, squarciato dalle nostre amiche torce, ne la foratura della mia anteriore, ma nemmeno gli ultimi portage imprevisti di giornata ci impediscono di raggiungere il secondo check-point.
ENOUGH CYCLING
Quanto avete pedalato oggi? 13 ore, 130 km asprissimi e 4500 metri di dislivello. Beh, diciamo abbastanza, diciamo enough. Potremmo anche dire che ne abbiamo abbastanza, ma non è così.
L’accoglienza birrosa, festosa, e hawaiana (sì, hawaiana), dei mitici Enough Cycling, alla Malga Corva, sul monte Tombea, rallegra la nostra fame.
Sono quasi tutti qua. Del gruppo che abbiamo abbandonato molto presto mancano alcuni coraggiosi, e mancano certamente il Re e il principe del week-end. Geoffrey Langat e Sofiane Sehili, involati già oltre le sponde del lago di Garda. La regina è Nancy Akinyi, anche lei già riflessa dalle acque calme di Salò.
Noi siamo arrivati un po' tardi alla tettoia rallegrata dalla musica degli Enough. Ci siamo persi salsicce e salamelle cucinati da un Mattia De Marchi in borghese. Sì, tutti nomi di un certo calibro. Noi, per giustificare la nostra presenza tra loro, ci agganciamo umilmente al nostro mantra "Lent ma Seguent".
E ripieghiamo su un piatto di pasta alla Malga Corva.
E per restare fedeli al nostro mantra, dopo un bel cambio rigenerante, ripartiamo.
Inizia ad essere notte profonda, anzi mattina presto. E allora scegliamo Jimi Hendrix per alternarsi ai bramiti dei cervi e per graffiare il buio e il nostro sonno, mentre camminaliamo (un po' camminiamo e un po' pedaliamo), per altri 5 km e 600 metri di dislivello.
La discesa sterrata fino al Lago di Garda è un massaggio shiatsu infinito, e uno slalom tra i rospi giganti immobili in mezzo alla strada che non ci degnano di uno sguardo.
Il primo paese che incontriamo è Piovere. Il nome, e i lampi all’orizzonte ci inducono a proseguire, anzi pure a spingere un po'. Finalmente si può, e il Lago di Garda di notte, senza fari e clacson scivola via che è un piacere. Toscolano Maderno, Gardone Val Trompia e infine Salò.
I sussurri nella testa ci consigliano di riposare un attimo. E così l’entrata di uno studio ortopedico diventa la cuccia per noi e per le fedeli Canyon. Per ben 40 minuti. Suona la sveglia e ci svegliamo. Stanchi sì, ma comunque meno di quando suona in un banalissimo lunedì.
2 ORE DI BUIO
Vero, la notte è durata molto di più. 11 ore abbondanti. Ma due sono state le ore di buio totale, che sono piombate su di noi alla ripartenza da Salò.
Quando si dice: Testa bassa e pedalare. Per due ore per me è stato letteralmente così. Due ore spesso sono tutto quello che hai per pedalare, per allenarti durante la settimana. Qui, nel bel mezzo di questo viaggio in continuo, le due ore sono state un momento di buio lunghissimo.
Non solo metaforicamente ma anche letteralmente.
Accartocciato sulla bicicletta, guardavo il fanalino rosso di Armin, nel buio bagnato di un diluvio anche lui lungo due ore.
Quella lucina intermittente rossa è stata la mia guida e l'unico punto di contatto che avessi con la realtà. Non facevo che copiare meccanicamente le sue traiettorie senza aver le forze per fare altro. Se Armin fosse finito in un fosso, l'avrei fatto anche io. Ma Armin è un drago, non mollava, e non sbagliava una linea, reduce dalle sue passate scorribande di downhill.
Il mio stomaco aveva deciso in autonomia che era il momento di mollare, di tornare a casa al calduccio e per convincermi mi ha tolto tutte le energie, mi ha vietato di mangiare o di bere, e bruciava come un dannato. Ma non ce l'ha fatta.
Io ho smesso di guardare il contachilometri (e quando succede non è un buon segno) se non ogni tanto per vedere l'ora.
Dalle 5 alle 7 mi ripetevo sempre e solo le stesse 6 cose, in un loop che non finiva più:
1) Dai che arrivano le 7.
2) Dai che viene giorno.
3) Dai che smette di piovere
4) Dai che bevi un tè caldo al limone.
5) Dai che si svegliano tutti e vi fanno il tifo controllando il live-tracking.
6) Lent ma seguent
Dicono che il pensiero possa piegare l'universo, alterare la casualità delle cose e farle tendere verso di noi. Non so se sia vero. Forse è solo coincidenza, oppure è il papi che è andato a bussare dal grande capo.
So solo che sono arrivate le 7. È venuto giorno, ha smesso di piovere, ho bevuto un tè caldo al limone (e ho pure fatto un mini sonnellino sul divano comodissimo del bar. "Armin svegliami quando hai finito le tue brioche"), si sono svegliati tutti e hanno cominciato ad incitarci, vedendoci ormai ai meno 100 km, con 6000 metri di dislivello messi in tasca.
IL VOLO DELL'AIRONE
Vero, l'airone per gli sportivi bresciani è Andrea Caracciolo. Ma l'Airone per tutti i ciclisti è Fausto Coppi. E cosa c'entra Fausto Coppi con voi due che arrancate dopo 190 km? Ecco, 190, come i chilometri dell'incredibile fuga di Fausto Coppi al Giro del 1949, nella Pinerolo-Cuneo. E proprio il Campionissimo ci balza in mente nel momento della rinascita e del ritorno della speranza.
Lì, nel bellissimo parco dell'Airone, a Bedizzole, tra i joggers della domenica, famiglie allegre sorprese del sole nonostante le previsioni pessimistiche della vigilia (che sia colpa del wet bias?), rinasciamo.
Il terreno è finalmente gravel, quella ghiaia che sfrigola al passaggio dei nostri pneumatici, opponendo quella giusta resistenza che rende tutto un po’ frizzantino, ma senza sbalzarci come yo-yo sulla sella.
Il parco lascia spazio a pratoni di erba incolta e fradicia, pattugliati dalle squadre di cacciatori Bresciani con i loro cani da riporto.
Pensiamo che possiamo farcela. Il traguardo è ancora distante e ci sono ancora ben tre salite distinte da affrontare, ma il ritmo è finalmente quello giusto. Pensiamo allora che solo una fucilata mal piazzata possa porre la parola fine. Acceleriamo. Anzi, ora sì, voliamo. Come l'airone.
FANGO E MARMO
Quando si iniziano a vedere le cave di marmo di Nuvolera, pensiamo già al fango che potrebbe accoglierci sulle rampe solitamente cavalcate dai camion pesanti.
Entriamo nella cava, e la strada si colora subito di marrancione (sì, marrancione), ci illude con qualche tratto pianeggiante e poi si inerpica dritto per dritto.
Il fango c'è, e accarezza i sassi bianchi reduci dal taglio del marmo. Il fotografo ci attende, ma nota che sorridere in quella posizione da orango-tango è impossibile. E allora fa partire il drone sulle nostre teste, donandoci un attimo di sollievo con quella brezza al calcare.
Il terzo e ultimo check-point è all'insegna dell'ottimismo. "Ormai ci siete". mancano solo 500 metri di dislivello (parliamone). I ragazzi di 3T mi guardano mentre scolo una bottiglia di coca e non osano sottolinearlo (grazie). Lo faranno solo all'arrivo, ormai certi che qualsiasi problema avessi, ormai era superato.
Superato grazie ad Armin, che inizia a gridare al vento ogni volta che i chilometri all'arrivo diminuiscono di 5.
A Brescia, la salita asfaltata fino a "Brescia Alta" sembra una carezza. La salita sul Monte Picastello un po’ meno. Molto meno. La strada delle trincee è quella tipica salita che "era meglio l'avessero messa all'inizio". Ma ormai nulla può scalfirci. Se fai 300 km, quando ne mancano 30, la testa è già all'arrivo. E nemmeno quando scopriamo che la nostra traccia non porta a Erbusco, ma a 7 chilometri di distanza, non ci scoraggiamo.
Afferriamo la strada provinciale, che è come sedersi su un divano morbidissimo dopo una giornata seduta su una panca di legno, e sorridiamo alla bellissima accoglienza del villaggio di arrivo.
«Vi aspetta la vostra birra». È quello che volevamo sentirci dire. «Ma prima foto di rito e firma sul pannello».
Non sono molte le firme che ci hanno anticipato. Circa una decina. Segno che "Lent ma Seguent" era il passo giusto anche oggi. Oggi e ieri, dato che siamo partiti alle 8 di sabato e siamo arrivati alle 14 di domenica.
Come si dice? «La notte leoni... la mattina... pure! Altrimenti la Jeroboam 300 non la finisci». Ora lo sappiamo per certo.
Genuino come Biniyam Ghirmay
28 Settembre 2021StorieMondiale Ciclismo,Under 23,Biniam Ghirmay,Fiandre 2021,Flanders 2021
Il padre di Biniyam Ghirmay non ha avuto dubbi su cosa dire al figlio, quando gli ha telefonato giovedì sera, prima della prova in linea Under23 al Campionato del Mondo di Leuven. «Ricorda di quando eri bambino», così ha iniziato a parlare il signor Ghirmay. Biniyam ha subito pensato ad Asmara, la sua città natale in Eritrea, quella in cui ogni domenica c'è una gara, quella in cui i bambini si sfidano a chi arriva prima a un punto prefissato. Come in tutte le città del mondo, in fondo, ma ognuno ricorda la propria.
E chiunque lo abbia visto venerdì pomeriggio, partire da una posizione arretrata in gruppo e recuperare uno a uno tutti coloro che si alzavano sui pedali davanti a lui, ha pensato alla leggerezza della bicicletta in uno di quei pomeriggi. Tutti ripresi e sorpassati, tranne Filippo Baroncini. Qualcuno dice che Ghirmay ha ancora il vizio di correre in fondo al gruppo e per questo talvolta perde l'attimo giusto, altrimenti chissà, forse poteva essere lì a giocarsela con l'azzurro. I suoi genitori gli hanno detto anche questo la sera prima: «Noi sappiamo che tu puoi conquistare una medaglia».
Argento. Primo ciclista eritreo a conquistare una medaglia ai Campionati del Mondo. Da non crederci, lo testimonia la testa di Ghirmay, scossa dopo il traguardo. Qualcuno ha pensato fosse un segno di risentimento per aver mancato il primo posto, lui ha spiegato che in realtà era un segno di felicità per il secondo posto conquistato. Un altro modo di leggere ciò che accade, forse un modo di mettere ogni cosa al proprio posto restituendole la giusta importanza. Come quando gli hanno chiesto se Peter Sagan fosse il suo eroe. «Non si può parlare di eroe, certamente però mi piace come ciclista e vorrei assomigliargli». Gli eroi sono altri e Biniyam lo sa.
Di sicuro, al ventunenne eritreo lo spunto veloce non manca e se la cava egregiamente anche su percorsi vallonati. Chiedete a Evenepoel che ha qualcosa da raccontare in proposito. Ghirmay ha affinato tattica e tecnica del suo correre in bicicletta al suo arrivo in Europa nel 2018. Come per molti ragazzi che condividono con lui le origini, per Ghirmay l'Africa non è solo una terra ma è senso di appartenenza.
«Sono felice per l'Eritrea e per l'Africa». Anche i suoi compagni sono felici per lui e quella soddisfazione è la soddisfazione di un popolo che continua ad aver fame di rivincita, di voglia di dimostrare, ma anche di musica, ballo e voci che si levano nelle piazze. È accaduto qualche sera fa a Leuven, con Biniyam, lì, sulle loro spalle. Ma Ghirmay non si è fermato qui. Ha detto un’altra cosa alle giovani ragazze e ai giovani ragazzi eritrei che vanno in bici: «La prossima medaglia sarà d’oro». Proprio nei giorni in cui è stato ufficializzato il mondiale in Rwanda nel 2025, perché l'Africa è sempre più una realtà. Dopo Kudus, Berhane, Gebreigzabhier, Teklehaimanot e Dlamini, dopo le prime gare e il Tour del Rwanda con tutte le persone riversate in strada, sempre come fosse la prima volta.
James Walsh, regista di “The King of the mountains”, che proprio su Daniel Teklehaimanot e sul ciclismo eritreo ha girato un film, ha raccontato a Cyclingtips: «Tutti noi giudichiamo un Paese in cui non siamo mai stati, per me questo documentario è stato un modo per andare in questo posto, provare a raccontarlo attraverso il ciclismo e lasciare che il mondo lo vedesse e scoprisse questa passione, questo talento genuino. Spero che sia solo un punto di partenza per le persone per saperne di più». Perché in Africa non si aspetta una medaglia per festeggiare, ma la festa è parte della libertà di ogni giorno, parte del poter andare ovunque in sella a una bicicletta.
Tra le crepe dei sogni belgi
26 Settembre 2021Corsevan Aert,Mondiale Ciclismo,Alaphilippe,Fiandre 2021,Evenepoel,Leuven,Flanders 2021,Trentin
Chissà se i giganteschi troll di legno del parco di De Schorre, in Belgio, conoscevano già l'esito della gara. Ce ne sono sette, ma due in particolare sono interessanti, "Una e Jeuris" i loro nomi. Si dice siano raffigurati mentre sognano indicando le nuvole.
Tra quelle nuvole oggi si è infilato Julian Alaphilippe. Tra le crepe dei sogni belgi si infilano i suoi tre scatti: il primo, tribale come un rullo di tamburi, a 58 km dall'arrivo porta via la fuga decisiva di una corsa pazza, meravigliosa, velocissima, da bere tutta d'un fiato come una birra fresca quanto basta; il secondo una stilettata micidiale che screma ulteriormente; il terzo, decisivo, fatto di gambe e smorfie, di tic e scossoni. Spegne i bollori di van Aert, Colbrelli e tutti gli altri a seguire, e lo lancia verso il secondo titolo mondiale.
Il sole oggi a Leuven non è mai uscito in maniera del tutto convincente. Il cielo, coperto da un sottile strato di nuvole, è una patina biancastra. Mentre Alaphilippe taglia il traguardo si alza un urlo, bandiere fiamminghe smettono di sventolare, qualche boccaccia, cacofonici buuuu dei tifosi di casa.
L'urlo è un "fate spazio" in mondovisione, è il soigneur francese mentre regge il vincitore. La bocca di Alaphilippe, asciutta, pulsa in cerca di una bevanda zuccherata. Lo sguardo ha inflessioni incredule, mentre arrivano Štybar, Sénéchal, Madouas, poi pure van der Poel, ad abbracciarlo. Di nuovo Campione del Mondo - meritato.
L'autunno oggi è belga per una squadra di casa che accende una corsa sulla quale spendiamo elogi. Ogni gruppo che parte è pericoloso, ogni volta che va via qualcuno dentro c'è Evenepoel, come fosse nascosto nei cespugli.
Evenepoel, oggi il più fedele alla causa di tutto il Belgio. Una sorta di piccolo eroe. E se qualcuno avesse ancora dubbi su di lui, eccoci serviti, attacca a 180 dall'arrivo, tira il gruppo per van Aert, chiude, strappa e poi si fa da parte stremato in preda ai dolori.
È un sogno in bianco e nero la corsa: sembra di aver fatto un salto di quarant'anni indietro, quando i migliori si sfidavano da subito, da lontano, facendo brillare gli occhi e sgolare tifosi da tutto il mondo a bordo strada o a casa. Una volta attaccati alle radioline in attesa di notizie. Oggi incollati a televisori, tablet, telefonini.
Ci aiutereste, allora, a trovare una parola per definirla? Ci consigliereste un termine per una giornata che a quattro ore dalla fine vedeva già alcuni tra i favoriti andare in fuga? Ci vengono i termini spettacolare, meraviglioso. Esageriamo? Ma lo abbiamo detto ieri: è un Campionato del Mondo, ci aspettavamo tanto, sì, ma forse questo no. Come un sogno.
Il sogno dell'Italia pare infrangersi subito, quando Ballerini tampona Trentin e vanno a terra, e poi la Francia parte con Turgis e lo segue Evenepoel e l'Italia insegue, insegue, insegue e riesce a chiudere.
Poi il sogno matura perché Colbrelli e Nizzolo stanno bene, con un Bagioli da 9 in pagella che ci darà tante di quelle soddisfazioni in futuro: solo 9 perché 9,5 lo prende Evenepoel e 10 il vincitore. Stanno bene, dicevamo, Nizzolo e Colbrelli e sono lì davanti in quel gruppo a giocarsi le medaglie.
Poi arriva Alaphilippe che decide di infilarsi in mezzo ai sogni altrui. Parte e nessuno lo rivede. Vince ed è un bellissimo vincitore, mentre van Baarle e Valgren uccidono crudelmente i sogni belgi, cacciando dal podio al fotofinish il ragazzo di casa, di Leuven, Jasper Stuyven.
Forse Una e Jeuris conoscevano già lo svolgimento di questa gara indicando con meraviglia qualcosa tra le nuvole. Fortunati loro che sognano e hanno visioni. Fortunati noi per aver vissuto questa giornata.
PS. Qualche parola su quanto è forte Pidcock andrebbe spesa, ma tant'è. La scena oggi è di Alaphilippe.
Foto: Bettini
Domani c'è il Mondiale
25 Settembre 2021Approfondimentivan Aert,Mondiale Ciclismo,Alaphilippe,Fiandre 2021,Evenepoel,Leuven
Quella corsa che tutti sognano: chi corre e chi aspetta, chi scrive e chi tifa. Quella gara che ti dà una maglia che, se ce ne fosse bisogno, rende ancora più unico il ciclismo. Potevamo fare una lista di trenta, quaranta nomi, fra quelli che vinceranno e indosseranno la maglia arc-en-ciel per tutto il 2022. Talmente tanti i possibili finali del multiverso di Leuven: un percorso che pare meno duro di quello che si prospettava alla vigilia e che si apre a diversi scenari. Ne abbiamo scelti dieci: diteci anche la vostra.
𝐖𝐨𝐮𝐭 𝐯𝐚𝐧 𝐀𝐞𝐫𝐭 è il più completo e continuo del 2021 e potrebbe vincere in qualsiasi modo. Gli argenti conquistati in diverse occasioni fra poche ore vorranno fondersi e come per una strana alchimia diventare oro. Corre in casa, tutti sono per lui, il gruppo è contro di lui (come si è sempre contro il più forte), ma se dovesse vincere, paradossalmente, non farebbe scontento nessuno. Almeno così ci piace credere.
𝐌𝐚𝐭𝐡𝐢𝐞𝐮 𝐯𝐚𝐧 𝐝𝐞𝐫 𝐏𝐨𝐞𝐥 arriva a fari spenti che sembra un po' un paradosso quando si parla di lui ma è così. Naïf nel modo di correre a volte, e anche di organizzare la sua stagione che difatti gli lascia strascichi fisici. C'è quella rampa a sei dall'arrivo che pare fatta apposta per il miglior van der Poel. Ma sarà il miglior van der Poel?
𝐉𝐮𝐥𝐢𝐚𝐧 𝐀𝐥𝐚𝐩𝐡𝐢𝐥𝐢𝐩𝐩𝐞 più di testa che di gambe perché il campione uscente in rare occasioni quest'anno ha dimostrato quell'attitudine vista la stagione precedente. Il discorso è che lui è Alaphilippe, non uno qualsiasi, e, se pure non al meglio: scommettereste mai contro uno così? In Francia hanno in cantiere una serie di piani alternativi da fare impallidire uno sceneggiatore folle e che vanno da Laporte a Cosnefroy, passando per Sénéchal e Démare e finendo a Turgis. Squadrone.
𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐨 𝐓𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢𝐧 per l'Italia. Perché potevamo dire Colbrelli e la forma della vita, o Nizzolo e Ballerini e il loro spunto finale, ma se c'è un azzurro che si meriterebbe di vincere è lui. Uscito bene dalla Vuelta è in crescita, ha l'esperienza giusta, e sogna uno svolgimento simile ad Harrogate 2019 ma con finale completamente diverso.
𝐄𝐭𝐡𝐚𝐧 𝐇𝐚𝐲𝐭𝐞𝐫 è il più giovane fra quelli su cui scommetteremmo. Se non si conoscesse la sua stagione sembrerebbe folle inserirlo qui, ma va forte e soprattutto, un po' con caratteristiche simili a quelle di van Aert, potrebbe vincere (quasi) in ogni modo. Da valutare sulla lunga distanza , ma per la Gran Bretagna più lui che Pidcock.
𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐡𝐞𝐰𝐬 perché ovunque ti giri lui c'è sempre. Magari non vince ma è lì. Si attacca e non ti molla e poi, visto lo spunto veloce, può infilarti. Il percorso è tagliato per lui che corre sempre davanti e coperto a ruota altrui e ha la forza giusta per resistere alle accelerate. In casa australiana però non fanno mistero di guardare con buon occhio il finale di Ewan. Nel caso arrivassero davanti entrambi: chi si sacrifica per chi?
𝐌𝐚𝐭𝐞𝐣 𝐌𝐨𝐡𝐨𝐫𝐢č è la punta di una Slovenia che presenta i dominatori di Tour (Pogačar) e Vuelta (Roglič) i quali forse si sarebbero aspettati (come anche noi umili osservatori) un tracciato più duro, ma con quel talento mai darli per vinti. Mohorič ha tutto per vincere: scatto, spunto, fondo, scaltrezza, forma e capacità di guida della bici. Ha già vinto due mondiali in passato che male non fa. Si saprà ripetere?
𝐑𝐞𝐦𝐜𝐨 𝐄𝐯𝐞𝐧𝐞𝐩𝐨𝐞𝐥 perché se vogliamo una gara spettacolare con attacchi che partono magari dalla media distanza, scorribande già nel circuito fiammingo con uomini forti, guardiamo lui. Che si dice pronto a spendersi alla causa van Aert ma è così ambizioso che un modo per cercare di far saltare il banco lo troverà. O almeno ci proverà.
𝐌𝐚𝐠𝐧𝐮𝐬 𝐂𝐨𝐫𝐭 𝐍𝐢𝐞𝐥𝐬𝐞𝐧 esce dalla Vuelta come uno spauracchio. È una delle punte di una formazione danese che da più parti hanno definito gli Avengers. Completo, alla stagione migliore della carriera, come tutto il movimento danese è all'apice. Può adattarsi alle più svariate situazioni: volata ristretta, corsa dura, persino fuga. Due anni fa Pedersen, domani l'iride potrebbe prendere di nuovo la strada della piccola nazione nord-europea.
𝐌𝐚𝐫𝐜 𝐇𝐢𝐫𝐬𝐜𝐡𝐢: ci piacciono quei nomi che potrebbero fare corsa dura e Hirschi è uno che calza a pennello in caso di selezione. Non è l'Hirschi del 2020, ma è in crescita e, seppure giovanissimo, lo stiamo imparando a conoscere come profilo che si ingrossa non appena si alza la posta in palio. La Svizzera sin qui al Mondiale è arrivata più volte vicina al colpo grosso: magari con Hirschi, che ha fondo e resistenza e alla fine di 270km si difende bene anche in uno sprint ristretto, è quella buona.
E poi ancora Sagan e Stuyven, Lampaert e Teuns, Kristoff e Asgreen, Pedersen e Valgren, magari Aranburu (la Spagna ogni tanto qualche scherzetto lo combina), Degenkolb o Politt. Bissegger e Almeida, Simmons, Kwiatkowski o Štybar. Qualcuno magari ce lo siamo lasciati per strada, ma insomma l'elenco ci pare sufficiente.
E i vostri favoriti chi sono?
Foto: Luigi Sestili
Grazie, Elisa!
25 Settembre 2021CorseMondiale Ciclismo,Fiandre 2021,Leuven,Balsamo
Un capolavoro. È un capolavoro quello realizzato dalle azzurre a Leuven, al Campionato del Mondo delle Fiandre. Certe volte nello sport si esagera, oggi no, oggi si può dirlo forte e chiaro. L'Italia non ha sbagliato un colpo e la spietata meritocrazia dello sport, in questo sabato di inizio autunno, ha omaggiato il talento genuino di Elisa Balsamo, una ragazza di soli ventitrè anni, di Cuneo. Una ragazza che crede nel potere delle storie, che ha scelto una penna per sconfiggere la timidezza e una bicicletta per raccontare che è possibile. Anche per i più timidi, anche per chi, caratterialmente, stenta a crederci e si sente sempre un gradino inferiore, è possibile.
Una corsa allo sfinimento. Il concetto di marcatura a uomo non è un concetto ciclistico, ma questa è stata la tattica delle ragazze di Dino Salvoldi. A controllare le olandesi e ripartire, perché oggi le favorite erano loro. Era Marianne Vos, un cannibale delle due ruote, che sembrava quasi non fare fatica. E non è facile continuare a rispondere quando le tue avversarie non mostrano un minimo segno di cedimento. Non ce n'è.
Non ce n'è perché, ad ogni attacco, le ragazze azzurre erano lì. Quanto ha fatto Maria Giulia Confalonieri? Fino all'ultimo sulle ruote di Vollering, Blaak, Brand. A voltarsi e a controllare che dietro stessero rientrando, perché non c'è spazio per follie personali, si lavora per Elisa Balsamo. Quanto hanno fatto Elena Cecchini, Vittoria Guazzini e Marta Cavalli? In testa, a chiudere il gruppo, prima all'inizio e poi alla fine.
Marta Bastianelli sa cosa vuol dire vincere un mondiale in giovane età e stasera dirà tante cose a Elisa Balsamo. Tante gliene ha dette in questi giorni. Lei che è in questo gruppo con l'orgoglio di essere la maggiore di età e per questo la più ricca di consigli. Lei che dopo le sfuriate olandesi ha fatto un solo cenno alle compagne: «Avanti, andiamo avanti a tirare».
Quanto bene ha fatto a questo gruppo Elisa Longo Borghini? La sua tenacia, la sua forza, la sua umiltà. Il suo essere ovunque, quasi incollata alla ruota di Annemiek van Vleuten, come a dirle «oggi non scappi, oggi non molliamo un metro». Si meritava questo mondiale Elisa, meritava che a vincerlo fosse l'Italia per il suo rispetto dei ruoli, per quel «faccio quello che mi chiedono e fino all'ultimo non mi tiro indietro».
E poi Elisa Balsamo, la Campionessa del Mondo. Fa quasi effetto scriverlo, dirlo, pensarlo, immaginarlo. Ragazza semplice, che studia Lettere e legge fumetti. Ragazza determinata, fragile come il suo pianto al traguardo, e forte come la capacità di rialzarsi dopo quella brutta caduta alle Olimpiadi, staccare qualche giorno, ripartire ed essere qui, sul gradino più alto del podio. Lucida come chi, a pochi metri dall'arrivo, fa cenno di no a Elisa Longo Borghini: «Non è ancora il momento di spostarsi. Aspetta». Così anche Marianne Vos ha dovuto arrendersi.
Non aveva più parole Elisa, dopo il traguardo. Piangeva con singhiozzi profondi, quelli che si ritrovano nei pianti più veri, quelli dei bambini. Piangeva, sospirava e non parlava. Però, le sue compagne, le ha ringraziate tutte. Si voltava, cercandole con gli occhi pieni di lacrime, e le ringraziava. Noi ne siamo certi, in giornate come queste non serve poi molto per raccontare una storia. Basta poco. Anche solo un grazie
Filippo, Campione del Mondo
24 Settembre 2021CorseUnder 23,Fiandre 2021,Baroncini,Leuven,Mondial
Non crediamo che nel nome di una persona ci sia il destino, o almeno non fino al punto da determinarne vittorie o sconfitte in bicicletta, ma se ti chiami Filippo, in questi giorni, pare che nelle Fiandre tu possa andare discretamente bene. Se Filippo, inteso come Ganna, lo conosciamo bene, oggi è il caso di scoprire un po' chi è Baroncini, che per come è scattato a meno cinque dall'arrivo sarebbe subito da rubare l'idea già usata (e abusata) e scrivere il suo nome tutto in maiuscolo e tutto attaccato: FILIPPOBARONCINI.
Quando lo abbiamo incontrato qualche settimana fa a Trento ce lo ha detto: si sente bene, forte e motivato, ma soprattutto ambizioso. Che quando passerà professionista (Trek-Segafredo) vorrà da subito giocarsi le sue carte.
Ma oggi il suo cammino tra gli Under 23 era da portare a compimento. Esploso sul finire della scorsa stagione, l'ascesa di Baroncini è stata fulminea e ha visto l'apice della sua sin qui brevissima carriera su quella rampetta, quando al traguardo mancavano meno di una decina di minuti.
E lui scattava, «Dentro di me dicevo: vai, vai, vai» - ha raccontato a fine corsa. Con i suoi watt avrebbero acceso probabilmente tutte le luci del viale che lo conduceva verso l'arrivo, mentre dietro Zana, Colnaghi, Coati e Gazzoli (e Frigo nelle prime fasi a lavorare per tutti) lo coprivano, perfettamente, manco fosse una di quelle giornate fredde da passare sul divano a guardare la tv. A guardare ciclismo: gioco che regala oggi la maglia iridata a un solo corridore, ma quanto c'è di squadra dietro ogni successo.
Oggi Filippo Baroncini (che è pure caduto a metà corsa) ci ha fatto saltare da quel divano, ci ha fatto vedere cos'è il talento, la crescita graduale, la potenza del finisseur, ci ha fatto vedere cosa vuol dire finalizzare il lavoro di squadra - Colnaghi all'attacco e gli altri a lavorare per ricucire, Zana stopper come uno di quei cagnacci che ti morde le caviglie - lui che è capace di andare forte dappertutto, ma che non sembra di quelli buoni ovunque e basta, ma di quelli davvero competitivi su ogni terreno: salita, cronometro, finali vallonati e incasinati come quello di oggi.
E a guardarlo negli occhi a fine gara o a rivedere l'azione che lo ha portato a vincere, sembra impossibile che per lui finisca qui. La rampa sopra Leuven lo ha lanciato, ma non sappiamo bene ancora dove potrà arrivare.
Foto: Bettini
UCI e Gravel, ne parliamo con Enough
24 Settembre 2021ApprofondimentiGravel
L'annuncio UCI, riguardante la creazione di una nuova serie gravel e di un campionato mondiale apposito, ha aperto un interessante dibattito nell'ambiente. Abbiamo scambiato qualche impressione con Federico Damiani, una delle anime del team Enough, che in Italia è velocemente diventato un riferimento nel settore: «Sono tematiche complesse in cui la lucidità di analisi è fondamentale. Prima di farsi un'idea specifica di ciò che potrebbe accadere, bisognerebbe conoscere in maniera accurata quello che l'UCI vorrà fare e a oggi questo non lo sa nessuno. La speranza è che venga salvaguardato il clima di condivisione e festa che, soprattutto qui in Europa, è alla base del mondo gravel. Nessuno, anche ai vertici, però ha detto che questo non avverrà». Damiani pone l'accento su un tema importante: si parla spesso di spirito e disciplina gravel, ma il termine gravel racchiude un insieme di cose talmente diverse da non potersi semplificare così. «È una disciplina così vasta da non essere una disciplina: credo che se questo avverrà, sarà sul modello americano, gare più veloci su fondo sterrato. In Europa, invece, abbiamo gare più lunghe e basate anche molto sulla fruizione del paesaggio, che si avvicinano di più al mondo ultracycling. Basta fare un confronto fra Unbound Gravel e Badlands».
Le gare lunghe, specifica Damiani, sono, in fondo, un modo diverso di viaggiare: «Di solito nel viaggio scegli tu dove andare, come e quando, riservandoti anche di rimandare. In queste gare invece è il mondo a “capitarti” addosso e tu lo vivi in quel momento».
Un indizio che propende per il modello americano è il fatto che, a quanto pare, sarà prevista una vera e propria Gravel Fondo Series per le qualificazioni agli eventi più importanti. «Qui i punti sono due. Il primo è capire in che relazione saranno questi eventi con il calendario gravel che conosciamo. Di certo, se i nomi maggiormente rappresentativi non dovessero partecipare a queste gare, il potenziale Campione del Mondo in carica sarà parzialmente delegittimato. Il secondo, invece, concerne il fatto che chi partecipa a questi eventi anche per il paesaggio e i luoghi che vede, e sono moltissimi, farà più fatica a dedicare un intero fine settimana a una gara che in realtà da questo punto di vista non offre nulla». A questo proposito gli fa eco Mattia De Marchi, recente vincitore di Badlands: «Dovremo essere noi bravi a raccontare alle persone che, qualunque sia la decisione presa, nella visione della bicicletta e del ciclismo non cambierà nulla: già adesso ci sono persone che hanno una maggiore propensione agonistica e altre che invece vogliono solo godersi il momento».
Già, perché tanto De Marchi quanto Damiani sono concordi sul dire che nessuna scelta UCI potrà mai cambiare ciò che il gravel significa per ciascuno. «Crediamo sia sbagliato togliere l'aspetto di festa e scambio dalle gare gravel, però non bisogna nemmeno demonizzare la parte di agonismo che c'è. Quella c'è in tutte le circostanze della vita, non si può fingere di non vederla». Mattia De Marchi continua: «Mantenere le relazioni è molto semplice: basterebbe dormire tutti nello stesso villaggio e preservare i momenti di convivialità. Evitare che ad un certo punto ci sia un fuggi fuggi ognuno nella propria camera di albergo perché “si deve gareggiare”. Se lo si farà, questa scelta potrà anche avere buoni effetti». Il vincitore di Badlands si riferisce alla possibilità che più professionisti si avvicinino a questo mondo, soprattutto coloro che soffrono l'eccessiva competitività, le rinunce e le pressioni. «Saranno pochi, magari, ma di certo qualcuno ci sarà e questo sarà il modo per raccontare un ciclismo diverso, per far capire che può esserci». Del resto, come Federico Damiani spiega bene: «Il mondo gravel non è più un mondo di nicchia e ovviamente crescendo ha iniziato a suscitare interessi commerciali. Peter Stetina ha detto che si sarebbe dovuti per forza arrivare a questo punto. Non so se “per forza”, ma che ci si sarebbe arrivati era prevedibile».
Di fronte a ciò che accade, allora, la domanda migliore che ci si possa fare è come leggerlo per trasformarlo in una opportunità. «Se si avvicinassero sempre più media? Se anche la televisione provasse a raccontare una gara in Kenya, ad esempio? Forse non in diretta, ma in leggera differita. Un sacco di persone seguono i nostri tracciati sulle mappe interattive - continua De Marchi - proviamo a pensare a cosa potrebbe voler dire seguire le immagini televisive. Non tanto per la cronaca, per raccontare il prima e il dopo. Per raccontare gli ultimi ancora più dei primi: è in loro che le persone si immedesimano».
Il mondo cambia e Federico Damiani fa notare che ciò che avviene ora nel gravel è già avvenuto nella mountain bike senza tutte queste discussioni: «Non mi risulta che ci siano persone che si domandano se sia corretto oppure no disputare una gara di cross country. Il punto è sempre il come. Penso alle regole: è del tutto ovvio che delle regole servano, ovunque non solo nel gravel. Ad oggi si rispettano anche tante regole non scritte, per esempio in alcuni eventi, fermarsi tutti assieme ai ristori e poi ripartire. Se ci saranno tante regole scritte, dubito che qualcuno rispetterà quelle non scritte. Anche perché il livello cresce sempre».
Detto che in ogni scelta è lecito seguire anche una logica commerciale, l'importante è che non ci si limiti esclusivamente a quella. «Si può parlare con i brand, ma è necessario parlare anche con gli atleti o gli organizzatori degli eventi e questo, purtroppo, al momento non è stato fatto. Speriamo che l’UCI lo faccia presto» si augurano Federico e Mattia.
Il giudizio è, quindi, sospeso almeno fino a quando non ne sapremo di più.
Quei cinque centesimi
22 Settembre 2021CorseMondiale Ciclismo,Longo Borghini,Affini,Sobrero,Ganna,Leuven,Bruges,Staffetta mista,Cecchini,Cavalli
D'altra parte cosa sono cinque centesimi? In realtà non sapremmo quantificarli in una gara di biciclette, perché arrivare davanti per cinque centesimi dopo cinquantuno (51!) minuti ha tanto il sapore della beffa o di quelle corse tipo lo sci alpino.
Ma il cronometro benedetto e maledetto ha sentenziato: gioia per i ragazzi azzurri, beffa per gli svizzeri che sarebbe stato meglio togliere quei distacchi dopo la virgola e assegnare la medaglia a tutti e dodici (12!).
È che ci stiamo abituando così bene a questa Italia, popolo di passistoni e abili cronomen, ma così bene che se ce l'aveste detto qualche anno fa ci saremmo messi a ridere o vi avremmo accusato di circonvenzione di incapace.
Ci stiamo abituando così bene a Filippo Ganna trascinatore, a Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini e Marta Cavalli finalizzatrici, a Edoardo Affini e Matteo Sobrero carburanti per il motore, azzurri che oggi, tra Knokke-Heist e Bruges, si sono regalati un'altra medaglia.
Forse qualcuno ancora storce il naso per questa gara, ma noi ci siamo divertiti. Distacchi a fisarmonica tra la frazione maschile e quella femminile; una crono che racconta mille storie e la più intensa è quella di Tony Martin, all'ultimo ballo come va tanto di moda dire, all'ultima gara, all'ultima maglia, all'ultima medaglia.
Pochi giorni fa "Der Panzerwagen" ha annunciato il ritiro dalle competizioni e oggi ha guidato la Germania in una crono a mille, di alto livello; altro che "eh ma la staffetta mista". Ben venga la staffetta mista. È affiatamento, tecnica e potenza, mostra i progressi di una squadra, tasta il polso alla punta dell'iceberg di un movimento, sia maschile che femminile. E poi li unisce: nel risultato, nel tifo dopo il traguardo con Ganna e gli altri a spingere idealmente la volatina azzurra.
E Ganna, sempre lui, chi sennò, tecnica e potenza in un solo corpo, ha trascinato la nazionale con quella sua proverbiale tranquillità che lo contraddistingue sia nella vittoria che nella sconfitta. Pista e strada non fa differenza: basta seguirlo. E poi Affini e Sobrero vagoncini affidabili, Longo Borghini, Cecchini e Cavalli che l'hanno spinta in rete.
Cinque centesimi sono bastati, anche se qualcuno al traguardo non lo aveva capito. Cinque centesimi per un podio. Un niente, difficile da quantificare. Cinque centesimi, sì, e oggi ce li prendiamo tutti.
Spingere Wout van Aert
22 Settembre 2021Storievan Aert,Mondiale Ciclismo,Jumbo,Leuven,Maglia iridata
Secondo, secondo, secondo, secondo, secondo. No, non ci si è incriccato il cervello e nemmeno incantata la tastiera. Se ci pensate bene il ritornello assomiglia al ruolino di marcia di Wout van Aert tra prove olimpiche e mondiali, appuntamenti iridati nel ciclocross e su strada: parliamo più o meno degli ultimi 12 mesi.
Due volte secondo nel 2020 ai Mondiali di Imola: prima nella crono dietro Ganna, poi pochi giorni dopo nella prova in linea, dietro Alaphilippe.
Secondo poi al mondiale di Ciclocross a Ostenda dietro van der Poel; secondo qualche mese fa a Tokyo dietro Carapaz, secondo domenica dietro Ganna. E più che un ritornello sembra diventata una sorta di maledizione per lui che in carriera, almeno quando si infangava con regolarità, le sue maglie iridate le ha vinte.
Ma quella di questa domenica è la medaglia d'argento che fa più male, perché spinto dal suo pubblico che a un certo punto goliardicamente faceva persino segno a Ganna di rallentare all'imbocco di una strettoia.
Spinto dall'idea di consacrarsi numero uno del ciclismo mondiale dopo aver vinto quest'anno 13 corse tra cui Gand-Wevelgem, Amstel, campionato nazionale in linea, 3 tappe al Tour e 2 alla Tirreno Adriatico.
Spinto da un motore che è un tutt'uno con la testa: chi la conosce la descrive come senza eguali. Un motore che gli permette di andare forte in salita, in pianura, in volata. Una testa che lo ha fatto ripartire dopo un incidente drammatico al Tour di un paio di anni fa. Che lo fa spingere oltre ogni limite, perché a trovarne di corridori che ieri lottano con Ganna, domani con Pogačar e Alaphilippe, dopodomani con van der Poel.
Alla fine della prova di domenica ha abbracciato Ganna, nonostante tutto, a dimostrazione dello spirito e del rispetto che trasmette il ragazzo di Herentals.
Si è dichiarato deluso, non poteva essere altrimenti, e ha aggiunto che da un punto di vista razionale perdere una crono per 5 secondi da un "super specialista", così lo ha definito, come Ganna, normalmente sarebbe una gran cosa, ma resta un argento che brucia, perché arrivato in casa e dopo essere stato in testa per due terzi di gara.
Dice, poi, van Aert che analizzerà la gara con calma da lunedì, ma che in realtà un'idea su dove ha perso la corsa ce l'ha: in un punto ha rischiato di cadere, e poi nel finale, tra Damme e Bruges, Ganna ha spinto nettamente più forte.
Domenica, tra i tanti corridori al via, abbiamo già trovato per chi simpatizzare: nessuno ce ne vorrà. Abbiamo trovato chi spingere con forza verso il traguardo per vederlo a braccia alzate - se proprio non dovesse essere qualcuno in maglia azzurra.
Siamo schietti, un Wout van Aert iridato non ci dispiacerebbe. O almeno che non arrivi di nuovo secondo, ecco.