Chris Froome e i leoni da tastiera

Nei giorni scorsi Chris Froome ha pubblicato sul suo canale YouTube un video per raccontare l'esperienza all'ultimo Tour e tra le varie cose ha voluto prendere posizione sui sempre più numerosi e violenti attacchi che gli atleti subiscono da parte del pubblico dei social network.

Abbiamo deciso di riproporre i punti salienti del suo discorso, che condividiamo nel suo senso e nelle sue finalità.

«Dopo la fine del Tour de France mi sono preso qualche giorno di pausa perché avevo davvero bisogno di staccare. Dopo l’incidente del primo giorno è stato molto pesante per me portare a termine la corsa; ci siamo scontrati a più di 60 km/h: c’erano corridori e biciclette sparse ovunque, io ho sbattuto violentemente la parte alta della coscia contro qualcosa, credo fosse la bici di un altro corridore e il dolore era talmente forte da non riuscire nemmeno ad alzarmi in piedi e permettere ai soccorritori di aiutarmi a tornare in sella. Nonostante questo, sentivo che per me era fondamentale terminare il Tour de France, anche se pieno di lividi e con il dolore alle ossa che mi sono portato fino a Parigi; dopo tutto quello che mi era successo avevo bisogno di mettere quei chilometri nelle gambe e sono orgoglioso di esserci riuscito.
L’aspetto che mi ha colpito di più di questo Tour de France è stato il sostegno del pubblico: mai, neppure negli anni in cui ho portato la maglia gialla fino a Parigi o lottavo per riuscirci, la gente mi aveva sostenuto in questo modo. Nonostante fossi per la maggior parte del tempo in fondo al gruppo, le persone non smettevano di incitarmi, di spronarmi e di farmi sentire la loro vicinanza e il loro affetto. Avere il loro incoraggiamento mi ha aiutato a non mollare e per questo mi sento di ringraziarli di cuore.

Proprio questo sostegno da parte delle persone in un momento molto difficile per me mi ha fatto riflettere su un tema di cui hanno parlato alcuni atleti durante le Olimpiadi e che penso sia di fondamentale importanza, ovvero l’impatto che le eccessive critiche hanno sulla serenità psicologica ed in definitiva sulla salute mentale degli atleti.
A livello generale pare ci sia l’aspettativa, da parte del pubblico, di trovarsi di fronte non a delle persone normali, seppur eccellenti nel loro sport, ma a dei veri e propri extraterrestri in grado di reggere qualsiasi tipo di pressione e di attacco. Io credo che questo sia profondamente sbagliato perché non tutti gli atleti riescono a gestire questo tipo di stress.
Ci sono sempre più atleti che soffrono a causa di quello che gli utenti dei social network scrivono su di loro; i social media consentono a chiunque di sedersi dietro a uno schermo e insultare un atleta, con un linguaggio che le persone non si permetterebbero mai di avere se incontrassero lo stesso atleta, la stessa persona, per strada o al supermercato.
Io sono convinto che essere un atleta significhi lavorare duro per dimostrare le proprie capacità sportive nelle corse e negli eventi, ma non è incluso anche il fatto di avere questo carico ulteriore di energia per sopportare questo tipo di pressioni e di critiche, spesso eccessive e gratuite.

Quello che vorrei dire alle persone è di pensarci due volte prima di scaricare il loro odio e insultare o criticare ferocemente un atleta. Siamo tutti qua fuori per dare il meglio di noi, per ottenere i risultati migliori possibili quando rappresentiamo il nostro Paese o il nostro team. Provate a mettervi al nostro posto e magari abbiate un po’ più di pazienza quando non risultiamo all’altezza delle vostre aspettative, perché i primi a dispiacersi e a soffrire se i risultati non arrivano siamo proprio noi atleti».

Foto: Bettini


La sfida a Pogačar viene dal Nord

Il ciclismo del nord Europa vive, senza ombra di dubbio, il momento migliore della propria storia. A vittorie sporadiche e a volte isolate, nell'arco dei decenni, fa seguito un vivaio sempre più prolifico e di qualità da cui attingere.
Chiariamo: ciclismo del nord non con riferimento a Belgio e Olanda, ma ancora più su, Danimarca e Norvegia per la precisione.
I risultati dei danesi, recenti, sono sotto gli occhi di tutti, dal Mondiale di Pedersen all'esplosione di Vingegaard, passando per le monumento di Fuglsang e il Fiandre di Asgreen fino alla definitiva maturazione di corridori come Cort Nielsen, di recente vincitore di una tappa alla Vuelta, e diversi risultati di peso qua e là. E tanto altro arriverà grazie a interessanti giovani in rampa di lancio.
In una direzione simile (verso il vertice) si muove la Norvegia, che ai soliti noti (vedi Kristoff, e dove Hushovd e Arvesen sono stati un po' pionieri di questa nuova generazione, tanto che Arvesen ora è direttore sportivo della squadra norvegese UNO X-Pro Cycling Team, compagine emergente del ciclismo mondiale) affianca alcuni fra i maggiori talenti da seguire a livello assoluto: Foss, Leknessund e da quest'anno anche Tobias Halland Johannessen.
Il giovane "norge" Tobias, grazie anche all'aiuto del gemello Anders, è stato l'autentico dominatore del Tour de l'Avenir, concluso, pochi minuti fa, con due vittorie di tappa (che per la Norvegia diventano cinque su dieci se contiamo quella di Anders e le due di Wærenskjold) e la vittoria nella classifica generale, conquistata davanti a due corridori già presenti nel mondo del professionismo: lo spagnolo Carlos Rodriguez (INEOS Grenadiers) e l'italiano Filippo Zana (Bardiani). Rodriguez che oggi sfiora un'impresa clamorosa, rimontando 2'11 dei 2'18'' che aveva di distacco, con una fuga solitaria di quasi 50 km.
Tobias Halland Johannessen (per farla più breve: THJ), corridore esplosivo più che scalatore puro, è alla sua prima vera e propria stagione su strada dove si è diviso tra squadra Continental e Professional; arriva da mountain bike e ciclocross, vive vicino a Oslo e in alta montagna non si è mai praticamente testato: alla conquista del Tour de l'Avenir mette vicino anche il podio al Giro Under 23 alle spalle di quel fenomeno che porta il nome di Ayuso.
Nelle scorse settimane, THJ ha prolungato di tre anni il contratto con la Uno X Pro Cycling Team, la squadra, si diceva, rivelazione, della stagione, che a suon di investimenti vuole crescere a dismisura facendosi portavoce del movimento nordico.
In pochi anni, UNO X ha creato due squadre - prima la Continental, poi quella Professional - e ha lanciato diversi corridori sia norvegesi che danesi (i già citati Foss e Leknessund, ma anche Hindsgaul, il campione europeo U23 Hvideberg, il vice campione olimpico su pista Larsen, e poi Andersen, Wærenskjold, eccetera), si è messa in grande evidenza in diverse corse in Belgio, dal 2022 avrà la sua squadra femminile (già chiesta la licenza per far parte del Women's World Tour) e dal 2023 l'idea è chiara: Uno X vorrà entrare nel mondo del WT.
Uno X che lo scorso anno ha tesserato simbolicamente Johannes Klæbo, il fondista più forte del mondo.
Nella giornata di ieri, poi, al termine della fatica fatta sulle Alpi francesi dai ragazzi del Tour de l'Avenir, il CEO di Uno X, Vegar Kulset, tra il serio e il faceto (ma nemmeno troppo) scriveva così su Twitter: «Uno X Mobility (progetto fondato proprio da Kulset e improntato a diverse soluzioni per la mobilità sostenibile N.d.A.) e Uno X Pro Cycling Team invitano LEGO™ a unirsi con i propri mattoncini all'avventura norvegese-danese. Vingegaard e i fratelli Halland Johannessen nella stessa squadra potrebbero diventare dei seri avversari per Pogačar in un paio di anni».
Il vento del nord spira e sembra davvero fare sul serio.


Quanto bene vogliamo a Damiano caruso?

Il cuore dell’Andalusia è terra secca, fatta di salite aspre, poca vegetazione, sole a picco sulla testa. E a fine agosto fa un caldo terribile. È terreno per imboscate e alla partenza da Puerto Lumbreras l’atmosfera è di quelle tese. Almeno tre della banda Ineos pronti ad attaccare Roglic. Manca solo la musichetta da western. Luogo designato per lo scontro: l’Alto de Velefique, salita durissima che conduce al traguardo.
Ma c’è qualcuno che se ne frega dei progetti degli altri, viene da Ragusa e si chiama Damiano Caruso. Da quelle parti non è meno secco e aspro l'ambiente d'estate. Parte con un gruppetto, con Bardet, Majka e Amezqueta, tra gli altri, sulle prime rampe del secondo colle, l’Alto Collado Venta Luisa. Poi in un tratto di falsopiano a metà salita rompe gli indugi e quando mancano 71 km all’arrivo, se ne va #alvento, da solo. Pedala bene Damiano, sembra quello del Giro. Regolare, ritmo altissimo. Passa per primo sul Venta Luisa, inizia la discesa e non molla. Il suo vantaggio sul gruppo della Roja supera i 5 minuti. La Jumbo non spinge troppo e Damiano ne approfitta.

Il caldo non da tregua. Quando attacca la rampa dell’Alto de le Velefique pedala bene, rilancia la sua Merida, maglietta aperta e bocca spalancata. Damiano è a tutta. Fa caldissimo, è secco tutto attorno. Probabilmente Damiano si sente come in Sicilia, quando pedalava da ragazzo. Lo aspettano 11 km e mezzo da fare fuori soglia. E mentre lui conta le gocce di sudore che cadono sull'asflato, ecco iniziare le sparatorie dietro di lui: Adam Yates prima, risponde Roglic, rientra Bernal. Ci riprova Carapaz, ma niente da fare. Ancora un allungo di Yates. Cedono tutti, cede anche Bernal. Se ne vanno Mas e Roglic, a tutta. Una serie di attacchi feroci. Ma Damiano è là davanti, sempre a maglietta aperta, sempre a bocca spalancata. E pedala sempre bene. E fa sempre un caldo maledetto.

Nessuno sconto per lui, alle sue spalle se le danno di santa ragione. Ma Damiano vede l’ultimo chilometro e a quel punto non molla più. Fa in tempo a chiudersi la maglietta, ad esultare come avesse segnato un goal in finale, a tagliare il traguardo con più di un minuto su Primoz Roglic ed Eric Mas.

Una giornata di ciclismo eroico, un Damiano Caruso d’annata, che sembra migliorare sempre di più. Maglia a pois di miglior scalatore da portare con orgoglio.
«Sono andato via da solo a 71 km dall'arrivo perché ho sentito che la Ineos voleva chiudere il buco e allora mi sono sentito di provarci da solo» ha detto subito dopo la gara.

Quanto ti vogliamo bene, Damiano!


Alta fedeltà

Si scrive Salvatore Puccio si legge alta fedeltà. Come uno strumento fondamentale che ti serve e trovi nella cassetta degli attrezzi, oppure uno di quegli elettrodomestici che in cucina fanno tutto, ma proprio tutto.
Si scrive Puccio, si pensa all'usato sicuro; se guardi quando è arrivato al team Sky, era l'estate del 2011, ti accorgi che solo un certo Geraint Thomas ha militato più di lui nel team britannico: G è infatti l'unico ancora attivo dall'anno della fondazione (ci sarebbe Swift, il quale però, ha passato qualche stagione fuori da casa) della squadra.

Se pensi a Puccio, e questo sarà lo stesso ragionamento che faranno loro, i suoi tecnici, pensi a quel ragazzone di ormai 32 anni che in carriera non ha mai vinto, ma è il combustibile per fare andare avanti la macchina. È il collante che tiene uniti i pezzi, il "penso quindi sono" fondamentale per costruire una squadra, soprattutto quando poi davanti - o a ruota - ha corridori che altrove potrebbero essere capitani ovunque: Bernal, Adam Yates, Carapaz, Sivakov giusto per fare quattro nomi presenti alla Vuelta e dove gli altri sono, oltre a lui, Narvaez, Pidcock e van Baarle.

Se pensi a Puccio pensi a ieri alla Vuelta quando lo vedevi tirare nel tentativo di riavvicinare il gruppo a Caruso in fuga, e allora per una volta dicevi, "dai Puccio, lascia stare, vai piano, lascia Caruso davanti con quel bel vantaggio".

Scrivi Puccio e pensi al gregario: funzione basilare per ogni azione da mettere in pratica in uno sport che premia l'individualità, ma che dietro ha la squadra, ma soprattutto corridori come lui.
E quando guardi nel suo palmarès ricordi quella volta che vinse un Giro delle Fiandre, no, non stiamo dando i numeri, era un Fiandre per Under 23, Beloften oppre Espoirs, lo chiamano. Quel giorno Puccio vestiva la maglia della nazionale e quinto, sempre con la maglia azzurra, arrivò Trentin: le loro carriere sono state poi diametralmente opposte.

E quando pensi a Puccio, pensi a un ragazzo che a 12 anni si trasferiva dalla Sicilia all'Umbria perché suo padre lavorava da tanti anni da quelle parti come camionista; a casa a Menfi rientrava così poco che la scelta, per tutti, di emigrare fu naturale. Vedi un ragazzo umile che quando si racconta ti rimanda indietro semplicità. «Quante gare avrei potuto vincere? - raccontava tempo fa a Bicisport - Non molte. E allora mi sono ritagliato il ruolo di gregario, la squadra lo apprezza e mi premia, economicamente e professionalmente».

Zero vittorie da professionista, ma 27 classiche monumento disputate (pure con un 12° posto alla Sanremo nel 2014), 15 Grandi Giri, quest'anno di fianco a Bernal al Giro, vinto e alla Vuelta, in questi giorni. Una maglia rosa vestita per un giorno sarà il punto più alto della sua carriera, ma di fianco a lui quante soddisfazioni per i capitani. A lui questo importa: perché essere Puccio significa essere fedeli. A ogni costo.


Marco Villa guarda già a Parigi

«Forse l'idea di dover affrontare i detentori del record del mondo ha fatto tremare le gambe anche alla Danimarca» scherza Marco Villa, CT della nazionale azzurra su pista. Spiega così la medaglia d'oro olimpica nell'inseguimento, dopo cinque anni a dimostrare il valore del lavoro fatto. Villa, da uomo di sport, sa bene che la concretizzazione, in questi casi vale quanto la fantasia. «Nelle prove degli ultimi giorni i tempi delle nostre avversarie erano migliori, non so se sia stata tattica. La Danimarca, poi, negli ultimi due anni aveva quasi sempre fatto meglio di noi». Se dei timori potevano esserci, al quartetto sono sempre arrivati stimoli, risposte e razionalizzazioni. «Vero che i danesi si sono praticamente riportati sugli inglesi in semifinale, altrettanto vero, però, che hanno potuto sfruttare la scia. Lo stesso discorso vale per le qualifiche: molte squadre hanno avuto il vantaggio di potersi basare su dei tempi di riferimento. Ai ragazzi ho detto questo la sera prima».
Marco Villa ha da sempre le idee chiare: le analisi, per essere utili, vanno fatte prima. «In partenza eravamo in vantaggio e non era un caso: sulle nostre tabelle era previsto. Sapevamo che avremmo potuto perdere qualcosa nel finale. Uno era il punto: dovevamo restare dai sette ai nove decimi, perché quei tempi sono nelle gambe di Ganna». Poi gli azzurri hanno festeggiato come chi ha avuto ragione a discapito dei momenti difficili. «La caduta di Lamon durante le qualificazioni a queste Olimpiadi è stato uno dei momenti più difficili, oltre alla pandemia. Si è sempre in tanti e i posti sono pochi. Saremmo stati pronti anche lo scorso anno, lo abbiamo dimostrato».
Villa spiega, razionalizza, chiarisce e soprattutto chiede. «Dopo lo scratch a Elia Viviani ho detto solo: “Elia, cosa sta succedendo?”. Mi ha detto che le gambe c'erano, la testa no. Era stato irriconoscibile. La risposta se l'è data da solo, io non posso entrare nella sua testa o nelle sue gambe. La tempo race non è mai stata la sua gara, ha fatto un'eliminazione stupenda e una grande corsa a punti». Per questo il bronzo di Tokyo vale come l'oro di Rio, perché viene da un periodo difficile. Per questo, se parla di madison, il CT è certo che la coppia Viviani-Consonni abbia molto da dire. «Simone quella mattina non stava bene e una gara di sessanta chilometri non puoi improvvisarla. Sulla base delle circostanze non puoi costruire un'analisi per il futuro. Succede e basta».
Intanto, via verso Parigi 2024. «Il gruppo è rodato con uomini di esperienza, allo stesso tempo ho dimostrato che la strada per i giovani è sempre aperta. Si guardi Milan. È uno stimolo per loro e anche per gli altri perché se non si danno da fare sono sopravanzati». Ora basta chiacchiere, a Parigi mancano solo tre anni.


L'uomo dalle mille occasioni

Lo avevamo lasciato, Jasper Philipsen, in lacrime accasciato sul marciapiede al termine dell'ultima tappa del Tour de France, sull'Avenue des Champs-Élysées. Inconsolabile (e con un bicchiere di champagne in mano che chissà se gli avrà dato un po' di sollievo), singhiozzante dopo l'ennesimo piazzamento, la sua bici appoggiata sull'asfalto come a volersene liberare per sempre dopo tre settimane di fatica e tanti piazzamenti, mentre tifosi, o semplicemente gente accorsa lì per vedere quei matti in bicicletta fare scintille in volata, lo riprendevano col telefonino, altri bevevano birra e ridevano forse ignari di quello che stava succedendo da lì a pochi passi.
Lo ritroviamo, poche settimane dopo, vincente nella prima volata della Vuelta 2021. Lui che da bambino aveva un poster di Tom Boonen in camera e ha sempre sognato di emularlo, prima o poi.
Eccolo davanti a tutti in un finale che è caos come solo i finali veloci sanno esserlo, dove Roglič stavolta evita per un soffio la caduta; dove altri invece a terra ci finiscono e chiudono imbrattati di sangue come pezze gonfie di tempera rossa; dove il treno Groupama si sfalda; mentre alle sue spalle arriva Fabio Jakobsen, che poi alle "spalle" non è nemmeno corretto: gli arriva di fianco, dalla parte opposta della careggiata, e allora Philipsen si gira per guardarlo e lo batte con un colpo di reni che è quanto mai un guizzo risolutivo come quello di una rana in uno stagno.
Quel Fabio Jakobsen che arriva secondo di una ruota, ma è come una vittoria questa, lui che un anno fa era praticamente morto ed è un miracolo vederlo in bici, mentre ora rischia di vincere le volate di un Grande Giro - e ci saranno, nei prossimi giorni, altre occasioni per riprovarci.


Malinconica essenza

Quando si hanno giusto quei venti, venticinque anni, si arriva dai piedi del Massiccio di Gorbeia, tra Bizkaia e Álava, si va forte in salita, si ha lo sguardo che più malinconico non si potrebbe, il fascino che si emana è come quello di un romanzo ben scritto, un film che colpisce, che solo cuori freddi come abitassero oltre la barriera del nord potrebbero restare glaciali, indifferenti, apatici.
Mikel Landa, che oggi di anni ne ha più di trenta, con quel ciclismo atipico che viaggia sempre a metà tra il desiderio e la realizzazione, tra il colpo risolutivo e quello velleitario, tra la sfortuna e il successo definitivo, è quel romanzo, quel film, è colui che emana fascino e prova a scalfire gli animi più impenetrabili. Prova a fare breccia nella barriera.
In questa stagione non gli è riuscito molto in verità, quasi nulla; respinto, come quando arrivava al Giro tra i favoriti e alla quinta tappa sbatteva contro il segnale di uno spartitraffico. Oh, no, ci risiamo ancora.
Quei cuori - non quelli glaciali - si sono fermati ad osservare, a soffrire, non c'era più alcun modo per cambiare la situazione, nessun passo indietro o cambio di sceneggiatura. Nessuna finzione, né concetti astrusi e astratti come il landismo.
Si è disfatto il corpo, ha continuato a farsi del male nonostante quella quantità di sconfitte, di incidenti, di discese, di delusioni, avrebbero demolito anche un colosso.
E pochi giorni addietro è tornato alla vittoria a Burgos, dove Landa ha iniziato tempo fa a studiare ingegneria: conterebbe poco come successo se non fosse che uno così ha vinto poco. Sulfurei, in molti sostengono che, nonostante tutto, Mikel Landa difficilmente potrà vincere la Vuelta che parte oggi, ma soprattutto non potrà nemmeno andarci vicino.
«Il mio desiderio? Vincere una tappa, salire sul podio. Il momento più difficile dopo la caduta al Giro? Non partecipare alle Olimpiadi, non essere in questo circo che a vederlo da fuori ci sono momenti in cui non ne vorresti più far parte» racconta Landa sulle pagine di AS.
Chissà, amanti (a volte) delle storie a lieto fine ci aspettiamo qualcosa dalle tre settimane in terra spagnola e il conto con la sorte prima o poi dovrà dare qualcosa indietro al buon Mikel Landa, basco, scalatore, difficile da non amare. Nonostante tutto, o forse proprio grazie alla sua malinconica essenza d'antan.

Dal Lago di Como alla Via della Seta in bicicletta

Dario Piasini ricorda bene il giorno in cui sorprese suo padre ad osservarlo di nascosto mentre giocava a calcio. «Sono nato nel 1950 e in quegli anni, subito dopo la guerra, lo sport non aveva lo spazio che ha oggi. Mio padre temeva portassi via del tempo allo studio o al lavoro così restava indifferente, però lo vedevo che di nascosto veniva alle partite. Credo che, in fondo, fosse felice». Il giorno in cui molti anni dopo gli hanno proposto di andare da Como a Pechino in bicicletta ha accettato senza pensarci troppo perché con lo sport è sempre stato in debito. «Non avevo più la potenza dei giovani, ma la voglia di conoscere e di mettermi alla prova era la stessa. L'età è spesso un ostacolo mentale».
È il 2005: 14000 chilometri, dal lago alla Via della Seta, quindici ciclisti e tre furgoni. «Se foravamo cambiavamo la ruota, non avevamo nemmeno la camera d'aria. Siamo partiti il 25 aprile, ci sono voluti quattro mesi». Ogni giorno una tappa, pochi giorni di riposo e un traguardo fisso. «Non ho mai avuto dubbi. Chi ha l'opportunità di viaggiare in questo modo è un privilegiato. Non è stato tutto facile: nel deserto non c'erano telefoni, mezzi di comunicazione, bastava una peritonite per lasciarci la pelle». Un medico li avverte: «Dal punto di vista ciclistico non avrete problemi, a livello psicologico invece sarete logorati, la tensione e il nervosismo vi porteranno a litigare per sciocchezze». Piasini queste discussioni le ricorda, come ricorda le lezioni di storia e geografia del professor Corbellini e le confessioni di quelle sere.
«Ci siamo detti cose che non avremmo detto a nessuno: ci liberavamo delle tensioni e delle preoccupazioni di casa, del lavoro. La fatica ti porta a capire». Si scordano facili pregiudizi: a Teheran inizialmente si fanno foto di nascosto, temendo il giudizio della popolazione, poi si scopre che proprio gli abitanti non vedono l'ora di farsi fotografare con questi avventurieri. «Se viaggi per sport, senza mettere in ballo idee politiche o religiose, troverai persone pronte ad accoglierti e aiutarti ovunque» chiosa Piasini.
Dalla Costa Dalmata a Samarcanda, al Kirghizistan e alla sua capitale che ricorda la Valtellina, dalla foto sul confine con i militari cinesi e le guide kazake, alle oasi verdi e al Fiume Giallo, a monasteri e Buddha dormienti, sino all'ingresso a Pechino, scortati dalla polizia. «Ho mangiato scorpioni e bacarozzi fritti e non erano neanche male. Solo ogni tanto ci concedevamo la pasta con la bottarga, visto che un ragazzo sardo aveva messo nel camion quattro chili di bottarga fresca alla partenza».
All'arrivo si vuole tornare ma dispiace perché quel mondo parallelo si sta esaurendo e nella vita di ogni giorno certe sensazioni non si ritrovano più. «Se chiudo gli occhi, rivedo tutto. Capita, ma è ancora presto. Sento di avere la forza per altre avventure. Verrà il giorno in cui dedicarsi al ricordo, ora voglio vivere».


Di ritorni e multidisciplinarità

Non saranno, forse, le due gare più importanti del mondo, nemmeno l'acme della loro carriera, ma vincere ieri è stato importante. Un ritorno in piena regola e nello stesso giorno, a distanza di poche ore, ma che diciamo, di pochissimi minuti e nemmeno troppi chilometri.
Sulle strade di casa sua, in Danimarca, vince l'ex campione del mondo Mads Pedersen, che sostenere arrivi da un momento difficile è un eufemismo, come racconta a fine corsa lui stesso e senza troppi giri di parole: «Al Tour ho sofferto e lottato per raggiungere un buon livello: ma non è un segreto che lì sia stata tutta una merda».
Volata che pareva infinita, gestita splendidamente come ogni tanto gli capita, in quelle giornate di grazia che a volte lo prendono e lo fanno sembrare imbattibile: sconfitti Groenewegen e Nizzolo, di certo non due che si avventuravano lì davanti per caso. Ora che il suo nome torna in voga, sarà un avversario per tutti in ottica Europeo.
In Polonia, invece, passano pochi minuti quando a vincere è Fernando Gaviria. Se Pedersen, in una stagione difficile il segno lo aveva comunque lasciato (Kuurne-Brussels-Kuurne a inizio stagione), il velocista colombiano non vinceva da quasi un anno esatto, due se parliamo di World Tour.
Per farlo si è dovuto inventare un guizzo da cavalletta per mettere il proprio copertoncino davanti a quello di Kooij. Giovanissimo (2001) che fino a un paio di anni fa faceva speed skating a buon livello e che tutt'ora d'inverno continua a praticarlo. Esaltazione della multidisciplinarità.


La voglia di normalità di Fabio Aru

Leggere il suo nome fra gli otto Qhubeka NextHash che parteciperanno a La Vuelta al via sabato, ci ha fatto piacere non c'è che dire. L'uomo Aru che è esattamente l'Aru corridore, che merita rispetto per i suoi tentativi di provarci, di stare a galla, di riuscirci anche a costo di fallire.
Di rispondere alle critiche come se poi essere Aru dovesse cambiare qualcosa più a noi che a lui; essere Aru nella sua normalità, quella del corridore, dell'uomo che ci prova sempre e comunque. Che sprofonda e ritenta, che ingoia delusioni e prova a dribblare critiche - a volte sacrosante quando espresse con giudizio, a volte, troppo spesso, ingiuste, pesanti. Che più che critiche sembrano lo sfogo amaro di chi aspetta sempre un passo falso altrui.
Ci riprova: in quella Spagna dove conserva alcuni fra i suoi migliori ricordi: «La mia prima Vuelta è stata nel 2014: ho vinto due tappe e sono arrivato tra i primi cinque della classifica generale. Nel 2015 ho vinto la Roja è stato fantastico: mi ha davvero cambiato la vita» ha raccontato poche ore fa.
Sarà il ritorno in un Grande Giro dopo il ritiro al Tour 2020 che lasciò scorie nella sua giovane testa e nelle gambe già usurate dal tempo, e portò al divorzio con la sua vecchia squadra.
Non interessa se "a parlare sarà la strada", come si direbbe, perché essere Fabio Aru risulta poi troppo spesso un tentativo di dimostrare qualcosa a chissà chi; a chi gli fa i conti in tasca, a chi la prende sul personale per i risultati che non arrivano, come se fosse la loro vita a dipendere dai piazzamenti di Aru e non quella di Fabio.
Oggi leggere il suo nome tra i partecipanti alla prossima Vuelta non può che riempirci di piacere, a prescindere dai risultati, e da quello che verrà. "Dalla parte di Fabio Aru", anche questo si è scritto e letto spesso nei mesi scorsi. Oggi l'intento è quello di schierarsi di fianco a lui e alla sua voglia di normalità. Al desiderio di attaccarsi un numero sulla maglia e correre, faticare, sudare, come uno dei tanti. Comunque andrà la corsa a noi interessa il giusto: forza Fabio, allora, dietro la sua voglia di normalità si nasconde l'amore per la bicicletta.