Lasciare il segno: intervista ad Edoardo Affini

Al termine della cronometro inaugurale di Torino, vinta da Filippo Ganna, Edoardo Affini gli si è avvicinato e gli ha detto: «Pippo, guarda che a Milano farò di tutto per romperti le uova nel paniere». Ganna e Affini sono accomunati dalla genuinità: poche chiacchiere e pedalare, per dirla in gergo ciclistico. Per questo, se Edoardo dovesse scegliere due parole per descrivere il suo lavoro al Giro sceglierebbe affidabilità e tenacia. La prima perché la fiducia, nel ciclismo, è fondamentale: «Da gregario, so di essere qui per gli altri, per far fare meno fatica possibile ai miei capitani. Questo significa dare tutto, anche più di quello che daresti per te stesso. Se guardate il mio viso sullo Zoncolan, capite il vero significato dell'essere gregari. Ero finito, non ne avevo più, distrutto. Ci vuole coraggio e grinta per sacrificare te stesso per un'altra persona». Essere gregari significa mettere le tue gambe per qualcun altro, ma non solo. «Se le gambe non girano, non puoi farci nulla. Tutte le parole sono inutili, se il tuo capitano non è in condizione. Però, quando sei in corsa per tre settimane, serve anche la parola giusta al momento giusto. Non incide sulla prestazione, ma sulla persona, sul suo stato d'animo».

A lui, per esempio, ha fatto molto piacere il gesto di George Bennett che, proprio quel giorno, scendendo dallo Zoncolan dopo il traguardo, lo ha visto in difficoltà in salita e gli si è avvicinato per un breve tratto, per ringraziarlo. «Mi ha detto che più di così non era riuscito a dare, che gli spiaceva. Anche questa è fiducia, è considerazione di chi ha lavorato con te». Qui c'è un appunto: «Purtroppo a seguito della voce che raccontava di Bennett che ha scalato due volte lo Zoncolan per starmi vicino - cosa impossibile: avremo fatto assieme 50 o 100 metri - mi sono sentito dire che avrei dovuto essere squalificato, che avevamo commesso un'irregolarità. Spiace perché si rovina un bel gesto. Un gesto da raccontare, ma correttamente».

Verona è stata la città in cui più si è meravigliato, proprio mentre stava lavorando per Dylan Groenewegen. «Ho preso la testa mentre arrivavano le altre squadre da sinistra per non rimanere imbottigliato. Andavo talmente bene che pensavo fosse il lancio perfetto. In volata non ti volti mai, ma ti accorgi se hai qualcuno a ruota ed io non sentivo nessuno. Ho continuato a spingere fino a quando non ho sentito l'aria mossa da Nizzolo alle mie spalle. Lì ho capito che mi avrebbe superato». Dylan Groenewegen e Edoardo Affini non si conoscono molto: si sono visti qualche giorno in ritiro e poi sono venuti qui.

Affini crede che il segreto per ritrovare Groenewegen sia la normalità. «Noi lo abbiamo trattato come il ragazzo di sempre, come un velocista che sa vincere e vincere bene. Ogni volta che abbiamo formato il suo treno, abbiamo pensato questo e lui lo sa, lo ha capito. A Verona era arrabbiato con se stesso, perché avrebbe voluto fare di più. Mi sembra un buon segnale» In ogni caso, dice Affini, tornare serve, sempre, anche se fa paura. «Dopo quell'incidente lui e la sua famiglia hanno subito minacce molto pesanti. Sono passati nove mesi, ma è tornato ed è molto motivato. Certo, qualche residuo questi avvenimenti lo lasciano, lui, però, è molto bravo a separare la parte umana da quella professionale. Credo soffra ancora per l'accaduto ma, da professionista qual è, in gara riesce a metterlo da parte. Riesce a essere quanto più simile al ragazzo che tutti conoscevamo».

Poi una battuta, sulla terza settimana. «Per me sarà sopravvivenza e costante aiuto in squadra. Però i freni non li tirerò. Se capito davanti e vogliono battermi devono andare più veloci altrimenti potrei metterci lo zampino».

Foto: BettiniPhoto


Dal fondo del gruppo

«Faccio parte della corsa, in realtà la chiudo, ma mi sento a tutti gli effetti un piccolo pezzo della carovana». Basterebbero queste poche parole di Fabio Allotta per raccontare il suo compito al Giro d'Italia. Fabio è sul furgone del fine gara: l'ultima vettura che vedete transitare quando andate ad assistere ad una tappa. In quel “far parte”, in “quell'appartenere” ci sono già molte cose che lui si preoccupa di spiegarci. «Sai, con il fatto che sei il “fine gara”, molti non riescono nemmeno ad immaginare quanto si viva intensamente la corsa dal fondo. Pochi metri davanti a me ci sono tutte quelle storie che nessuno vede perché le telecamere non le inquadrano quasi mai, tutte quelle storie che nessuno racconta. Così, spesso, si parla solo dei primi». Fabio Allotta ricopre questo incarico da tre anni, prima ha anche corso in bicicletta e certe sensazioni non può dimenticarle. A livello pratico comunica con la giuria, segnala i tempi ed i dorsali dei corridori che si ritirano. Raccontarla così, però, sarebbe riduttivo.

«Ieri sono arrivato al traguardo quarantacinque minuti dopo la corsa. Voi pensate di salire il Giau con gli ultimi, di vederli faticare, mentre rischiano di uscire dal tempo massimo e di non poter far nulla. Diciamocelo, è snervante». Certo, perché poi quella del fine corsa diventa una vita parallela al gruppo ed ai suoi spostamenti, nel bene e nel male. «Quando c'è stata la caduta di Alessandro De Marchi ho fatto fatica a trovare il coraggio di guardare. Indietreggiavo come a non voler vedere. I corridori sono abituati ad alzarsi subito e ripartire anche se feriti. Quando vedi un ragazzo che non si muove per tre o quattro minuti, ti prende paura». Uno dei momenti più brutti è proprio il ritiro.

«In alcune situazioni è mio compito caricare la bicicletta dei corridori che lasciano la gara. Alcuni salgono sul furgone del fine gara e arrivano con me al traguardo. Ricordo ancora quando, l'anno scorso, Boaro si ritirò in lacrime, deluso, col morale a terra. In quel momento tu hai accanto una persona che sta soffrendo, cosa puoi fare? Devi stare in silenzio, aspettare e poi, con delicatezza, provare a vedere se ha voglia di parlare. Devi cercare di portarla per qualche attimo fuori da quel mondo perché quel mondo, in quel momento, è l'oggetto della sua delusione. Con Manuele ci sono riuscito e quando è salito sulla sua ammiraglia ha sorriso». Fabio Allotta prova a fare lo stesso con tutte le persone che incrocia sul percorso: «Mi faccio vedere, saluto. Le persone sono incuriosite anche dalla mia vettura, vogliono capire cosa faccio. Per questo cercano di sbirciare dai finestrini, proprio come fanno con le ammiraglie».

Perché, alla fine, la realtà del fine corsa è fatta proprio da questi piccoli momenti. «Non c'è molto tempo per parlare, ma i ciclisti sono una specie rara. Io ho sempre in macchina dei gel o dell'acqua. La crisi di fame è orribile, si soffre in maniera indicibile, avendola provata lo so e, se li vedo in difficoltà, passo una barretta. Loro se ne ricordano, ti ringraziano e da quel momento maturano una forte fiducia in te. A me quella fiducia fa stare bene». Forse quella fiducia deriva anche dal fatto che è proprio Fabio ad alzarsi all'alba ogni mattina per andare in un punto prestabilito, recuperare l'acqua per i corridori e portarla ai pullman. «Così ho conosciuto i massaggiatori ed i direttori sportivi. Magari scambiamo solo due parole, al volo, quando ci fermiamo a fare pipì durante la tappa, ma, in fondo, il bello della carovana è proprio questo. Basta poco, che poi poco non è mai».


Una lezione di rispetto

Il ciclismo è una lezione di rispetto. Leva e dà, assorbe, ma soprattutto insegna. Perché Bernal rispetta il Giro. Lo capisci in quell'attacco sul Giau dove riprende di nerbo e con grazia quelli davanti, va in discesa e te lo puoi solo immaginare fino a quando non sbuca dall'oscurità.
Lo scorgi in un attimo dopo aver passato quaranta minuti a guardare facce festose al traguardo, invece che la corsa, perché sì, il Giro è nell'attesa dei tifosi all'arrivo - e su Pordoi e Marmolada, ma quelli non hanno visto passare nessuno - ma anche nel nervosismo di chi impreca davanti alla tv.
Perché Bernal voleva venire da anni qui per vincere. Niente frasi di circostanza, in Italia è diventato corridore e qui si vuole consacrare - lo ha sempre detto. Perché nel suo gesto di levarsi via di forza la mantellina, accomodandola nel taschino posteriore e senza più badare a pioggia o a intoppi, ma solo per mostrare la sua maglia rosa, c'è il rispetto per una giornata che difficilmente dimenticheremo. Perché qualche giorno fa, quando vinse a Campo Felice, non esultò, convinto che davanti ci fosse ancora la fuga e quella cosa non gli è andata giù.
"Davanti continua la cavalcata meravigliosa di Egan Bernal", la spiegava così Pancani. Un momento surreale - moderna radiocronaca. Catapultati nel passato: perché chi vuole pensare in grande cercando paragoni con il Tour dovrebbe prima guardare in casa propria. E in un tappone diventato tappino ma che farà ugualmente i suoi danni, non può lasciare tutto il mondo senza immagini.
Perché il rispetto per il ciclismo è in Gorka Izagirre a tutta e che finisce lungo in discesa e solo lui lo sa come ha evitato quell'auto parcheggiata in curva. Perché nonostante il freddo, la pioggia, la stanchezza e la paura, i corridori e le squadre dicono che avrebbero corso la tappa originale, ma si è preferito fare altrimenti - e le motivazioni non convincono del tutto, e la poca chiarezza sull'argomento resta tale anche dopo la tappa.
E partono sotto una pioggia che non cessa un secondo e vanno all'attacco, per conto proprio o in compagnia, ma sempre alla ricerca di qualcosa che solo loro possono capire.
Perché i gesti più belli, anche in una giornata da dimenticare, ma che non dimenticheremo, arrivano da loro: uomini spettacolo, ma soprattutto uomini. Caruso, che dopo una vita per i suoi capitani, oggi è più vicino al podio. Bettiol e Ganna che da soli potrebbero trainare il gruppo per giorni. Nibali che ieri cade e si fa male, oggi va in fuga. Ciccone, Vlasov e Carthy che soffrono, ma resistono. Almeida, che ha sacrificato i suoi sogni per la causa di Evenepoel.
Evenepoel, arrivato dietro, tanto dietro che non te lo potevi immaginare, congelato, che non riusciva più a pedalare e nemmeno a scendere dalla bici. Perché come lui altri che non abbiamo visto e mai vedremo, come Guglielmi e van den Berg in fuga nei giorni scorsi e oggi ultimi a quasi un'ora. O Formolo e Pedrero che ci provano in una giornata tremenda, accorciata e mutilata, sì, ma pur sempre dura. Ci provano e, possiamo giurarci, ci riproveranno.
Perché il ciclismo insegna, toglie, offre spunti. Eccellente educatore. Oggi ci ha tolto tanto, in una giornata ai limiti del grottesco, ma ci ha restituito tutto - o almeno c'ha provato - in quegli attimi finali in cui Bernal è spuntato dalla curva, dopo il buio. Degno padrone di una corsa, oggi, ahinoi, più piccola di quello che pensava di essere, ma resa grande dai suoi protagonisti.

Foto: BettiniPhoto


100% Daniel Oss

Questa puntata l’abbiamo registrata a poche ore dalla partenza del Giro d’Italia 2021 – che in questi giorni si appresta ad affrontare la terza settimana.
Siamo andati a trovare un Daniel Oss sereno e rilassato, anche se molto concentrato sulla Corsa Rosa. Non tanto per parlare di attualità, quanto per approfondire la sua visione del ciclismo, della professione di corridore. Per farci raccontare come lui stesso è evoluto in tutti questi anni in gruppo e come vede il suo futuro, in sella alla bicicletta ma non solo.
Daniel Oss è uno dei personaggi più riconoscibili del plotone, un professionista esemplare ma anche un grande comunicatore.
Godetevi questa oretta di freestyle, registrata a Trento a casa di Franz Perini, manager di Daniel.

Volete vedere anche la versione video di questo episodio? Ecco il link:

100% Daniel Oss – ep. 12
Intervista: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Special thanks: Franz Perini


Andare a vedere il Giro

La domenica, forse, è il giorno in cui meno ci si sorprende quando si incontrano tante persone sulle strade del Giro d'Italia. Non ci si sorprende perché di solito è il giorno in cui non si lavora e non si va a scuola, così c'è tutto il tempo per venire qui, per sedersi su un marciapiede e aspettare il passaggio. Non è sempre così, però, e forse dovremmo ricordarcelo più spesso. A noi, ieri pomeriggio, a Gorizia, lo ha ricordato Guido.
Non sapevamo nulla di Guido e Guido non sapeva nulla di noi. Ci ha colpito perché era fuori dall'uscio di una casa con un grembiule azzurro, sporcato sul petto e sulle maniche di grigio. Ci ha colpito, forse, proprio perché era domenica e di domenica, al Giro, tutti si presentano con l'abito della festa. Solo scambiandoci qualche parola abbiamo capito.
Guido è un falegname, come era un falegname suo padre, e la sua è la realtà di tutte le botteghe artigiane. «Mio padre mi ha sempre detto che si fa festa quando si è fatto il proprio dovere, per questo, se alla domenica non si è finito di preparare le consegne, non è domenica. Quando hai fatto il tuo dovere, mi diceva, ti riposi anche meglio perché sei tranquillo con te stesso e non hai più pensieri».
Per Guido ieri non era domenica, perché ha molto lavoro da fare e pochi giorni per terminarlo, così era in bottega, così stava lavorando e fino a qualche giorno prima non pensava neppure al Giro d'Italia perché «dopo quello che abbiamo passato con la pandemia, con tutte le spese che ho da pagare, con tutti i problemi che mi vengono in mente appena apro quella porta, figuratevi se ho tempo di pensare al Giro d'Italia».
Fino a qualche giorno fa, perché poi ha cambiato idea. «L'altro giorno mio figlio mi ha detto se lunedì potevo farlo restare a casa da scuola e portarlo a vedere il tappone di Cortina d'Ampezzo perché “il Giro arriva anche domenica, ma la tappa di lunedì è più bella”. Cosa pensate gli abbia risposto? Gli ho detto di no, che poteva scordarselo, che il dovere viene prima del piacere, che se non va a scuola, se non studia, si troverà a lavorare giorno e notte come me, a non saper parlare come si deve, a fare brutte figure. Gli ho detto che avrebbe dovuto accontentarsi dell'arrivo di domenica». Poi, però, Guido è andato da solo in bottega, si è messo a lavorare ed ha ripensato a tutto.
«Mentre non avevo lavoro, nei mesi scorsi, ho passato davvero momenti difficili ed ho capito quanto avesse ragione mio padre: quando manca il lavoro si disfa tutto, crolla tutto. Se non riesci a mettere assieme un pranzo con una cena non c'è storia che tenga. Sinceramente, però, ho anche capito quanto avesse ragione mio figlio. No, non andare a scuola è sbagliato ed infatti non lo farò stare a casa, però anche non fare ciò che vorresti per pensare sempre e solo al dovere è sbagliato. Perché poi, se succede come è successo in questi due anni, non sei solo a terra perché non porti a casa la pagnotta per le persone a cui vuoi bene. Sei a terra anche perché col tuo modo di essere le hai rese tristi due volte: prima negandogli i divertimenti per il senso del dovere, poi spiegandogli che era stato tutto inutile perché non solo non avrebbero avuto più i divertimenti ma nemmeno le cose a cui erano abituati perché “papà non ha lavoro”. Sì, domani chiudo presto bottega e appena mio figlio torna da scuola lo porto a vedere il Giro che passa. Fosse anche solo uno sguardo da un cavalcavia, ma lo porto al Giro. Il tempo bisogna trovarlo. Stasera mi studio la cartina».
Così Guido e suo figlio oggi avranno tempo per il Giro, ma soprattutto avranno trovato tempo per se stessi. Assieme come un padre ed un figlio e questo è quello che conta davvero. Sempre.


Suggestioni

Chi conosce bene il Friuli conosce altrettanto bene i suoi richiami. D'altra parte lo spiega anche lo slogan che fa più o meno: "dal mare alla montagna in poche ore". Oppure il giro inverso, come in questo caso, grazie al potere della Corsa Rosa.
Ieri Carnia, montagna, alta, ma non proprio cime che toccano il cielo. Lingua dura, caratteri chiusi. Poche ore dopo si scende e si parte dal mare, da Grado, per poi superare la collina e vedere Gorizia.
Da Grado, vocali aperte, con quel centro storico che ha qualcosa di pregiato, che può far perdere la testa a chi, romanticamente, schiude il cuore all'inflessione del mare.
Barchette pastello attraccate ovunque, il molo, il consorzio dei pescatori dove chiedere se preparano il boreto, e poi la partenza della tappa attraversando il ponte che collega Grado ad Aquileia. Una volta a Grado ci potevi venire solo in barca.
C'è ancora il sole alto e qualche leggera bava di vento, e Campenaerts ha già attaccato quando una caduta estromette Buchmann dal Giro. Era appena passato il chilometro zero e si era proprio lungo quel ponte. Il giro di Buchmann, sin qui perfetto, finisce contro l'asfalto. La partenza viene fermata e ritardata, quando si riparte scappa la fuga rilanciata ancora da Campenaerts.
Si sono lamentati in molti anche oggi, ma se c'era un giorno in cui era permesso e logico andare via era proprio questo. I rimpianti, piuttosto, sono da ritrovare negli animi di chi non è scappato, poco lesto, stanco o forse distratto, o, piuttosto, nelle altre tappe.
Suggestioni, a riprendere il filo: perché dalla montagna si passa al mare, per arrivare al mosso confine attraversando il Collio, passando in mezzo a tenute, castelli, vigneti, ettari su ettari di prati ben tagliati.
In poche ore abbiamo sofferto in montagna, amato il mare, per poi guardare le colline verdi intorno a Gorizia, passando sopra strade ruvide e con il cielo che via via tendeva al nero.
Vento e suggestioni friulane, dove il tempo cambia repentinamente con il battito di un'ala. Dove le strade si fanno strette, si arrampicano, scendono, si amalgamano con curve a gomito, attraversano il confine per poi rientrare. Dove in pochi minuti si parla in un modo e poi in un altro, dove lingue e accenti si mescolano.
Suggestioni: come quelle che prova Victor Campenaerts all'arrivo dopo aver battuto Riesebeek e dopo averci provato in ogni modo. In fuga sempre, o quasi, in questa stagione e in questo Giro. Ce lo ricordiamo per quella dichiarazione in mondovisione al Giro del 2017 quando arrivò al traguardo mostrando sul petto una scritta grezzamente fatta con un pennarello: "Carlien Daten?". Era la richiesta di un appuntamento. Carlien, la ragazza, acconsentì per poi farlo piangere: "preferisco se restiamo amici" gli disse. Quel giorno al Giro Campenaerts fu anche multato e declassato.
Ce lo ricordiamo anche per il record dell'ora, poco non è, ma da un po' di tempo Campenaerts ha cambiato modo di correre: più aggressivo e sempre all'attacco, stanco di piazzamenti e forse anche di due di picche.
La pioggia batte incessantemente e poi dà tregua. Caldo, poi freddo e vento. Ci si inzuppa: "Ciò che zima che xe oggi", direbbero da queste parti. Ma per Campenaerts la suggestione rimanda a un giorno caldo dove mostrare il cinque a tutti, dove il suo mondo ha funzionato alla perfezione. Suggestioni, per lui che rilancia l'impegno della sua squadra in Africa affermando come «la bicicletta ti può cambiare la vita».

Foto: Luigi Sestili


Pensieri sparsi su fughe e Zoncolan

C'è qualcosa che non convince della giornata di ieri, qualcosa che torna a metà.
Diverse cose interessanti e da salvare, raccontare e tramandare: la parabola zoncolaniana di Fortunato sul quale si spendono parole di elogio ormai da ore, entrato nella storia dopo aver vinto su una salita che in pochi anni è leggenda; il talento (sbocciato, ma aspettiamo il successo pesante) di Covi, secondo a Montalcino e terzo sullo Zoncolan, ovvero le due tappe più attese, in attesa, perdonate il bisticcio, di domani, Cortina.
L'eleganza di Bernal, degna maglia rosa, si sarebbe detto una volta. il suo scatto (l'unico tra i big) nel finale a dimostrare che a oggi solo la schiena o qualche intoppo potrebbero fargli perdere il Giro. C'è Yates (il suo più che uno scatto, un allungo per testarsi e testare) che forse ha davvero calibrato la sua crescita man mano che si sarebbe andati avanti con le difficoltà in aumento. Ciccone e Caruso colpiscono perché non mollano: due italiani tra i primi 5 a fine Giro si possono sognare.

Due parole su Evenepoel, superata la crisi cognitiva (copyright di Kristian Perrone su Cicloweb, andate a leggere il pezzo) di Montalcino, ieri di nuovo in difficoltà lungo la discesa del Monte Rest.

Davanti Izagirre si esibisce nel solito spettacolo di famiglia non appena la strada scende (poi un giorno qualcuno spiegherà la capacità dei baschi di guidare così bene la bici) e Remco si stacca, e poi rientra grazie ai compagni. Sulla salita finale cede (quasi) subito sul forcing Ineos, ma va su del suo passo chiudendo a meno di 20" da Vlasov che aveva acceso la corsa, che sembrava dovesse metterla a ferro e fuoco e invece ne esce come lo sconfitto di giornata.

Il ragazzino belga per quanto abbia ancora dei limiti e per quanto siamo d'accordo tutti non è, oggi, Merckx, sul passo ha un motore con pochi eguali e una gran testa, quella che fa la differenza. Il suo limite, però, viene amplificato dal fatto che i suoi due maggiori rivali generazionali, Pogačar e Bernal, fanno proprio dell'abilità nella guida, sia in gruppo che in altre situazioni, uno dei loro punti di forza. Remco in questo dovrà migliorare, perché così sarà sempre attaccabile.
Aspetti che non convincono. Intanto le fughe. Abbiamo detto: piacevole, anche di più, celebrare le vittorie di Lafay, Schmid o Fortunato, vedere Covi brillare ovunque, oppure Vendrame e van der Hoorn, e le loro storie da raccontare. Però qualcosa non torna quando su 13 tappe in linea ben 7 vedono la fuga arrivare e un'ottava è ripresa da Bernal (unico uomo di classifica a vincere una tappa) a pochi metri dal traguardo.

Sia chiaro, a noi la fuga piace, ma non così. Non quando è un libero lasciapassare tattico e politico da parte del gruppo. Non questa esagerata quanto plateale concessione. Il contentino dato dai più forti. Non questo ridurre ogni giorno a una sfida inclusiva tra fuggitivi, per la tappa, e tra gli uomini di classifica, per piazzamento e distacchi.

Chi vi scrive si era distratto su alcuni fatti ciclistici, come gli succede spesso nella vita di tutti i giorni, e non si era reso conto fino a qualche settimana fa che lo Zoncolan era da Sutrio e non da Ovaro. Due salite non paragonabili. Lo Zoncolan continua a non convincermi del tutto, in realtà, e perde il confronto tecnico rispetto a tante salite e tanti finali di corsa, non solo tra quelli disegnati nell'arco alpino.

Lo Zoncolan è una meravigliosa operazione di promozione del territorio, ha un nome che suona bene, bello e misterioso, dà agli spettatori la possibilità di vedere i corridori passare lenti come non mai, ti fa ammirare e rispettare la loro fatica, lo scenario è quasi geniale per quanto appare perfetto - ieri nebbia e neve, sull'altro versante le meravigliose curve da stadio, ma la domanda è: lo Zoncolan è così interessante dal punto di vista tecnico? È vero che la gara l'accendono i corridori, ma ieri come da previsione non è successo nulla fino a poco prima del chilometro finale - i più ottimisti speravano di vedere qualcosa intorno ai -3, ovvero l'inizio del tratto mortifero.

Almeno lo Zoncolan da Ovaro ti mette in un angolo da subito, pur restando poi una salita dove è (quasi) impossibile scattare davvero, dove con i rapportini ci si salva, dove la selezione arriva da dietro. E in aggiunta: perché non sfruttare per indurire la tappa anche qualcuna delle tante salite lì intorno?
Una sfida che più che ispirare, spaventa, anche se poi alla fine è vero, emergono sempre i valori dei più forti, come ieri Bernal o come tre anni fa Froome.

Foto: Luigi Sestili


Una questione di equilibrio

Il lavoro di Ugo Demaria è uno di quei lavori da spiegare bene. Demaria è fisioterapista e osteopata da molti anni ed è al Giro d'Italia con l'AG2R Citroën. «Credo ci sia un errore di base: alcuni pensano che dall'osteopata si vada solo quando ci si è fatti male in seguito a una caduta. In realtà non è e non deve essere così. Il nostro ruolo è anche quello di prevenire, di risolvere problemi che, magari, ad ora non sono nemmeno avvertiti come tali. Mi spiego meglio: se sali su una bicicletta con una ruota fuori centro, tu puoi pedalare comunque e, per i primi tempi, ti sembrerà anche normale. Fino a quando tutta la bicicletta si storterà e pedalare diventerà impossibile. Agli uomini e alle donne accade esattamente la stessa cosa».

Il punto centrale, osserva Demaria, è che gli umani non hanno naturalmente una conformazione fisica adatta a stare in bicicletta e molti movimenti che devono fare per stare su quella sella sono, per così dire, innaturali. «Determinate posizioni possono comportare dolore, proprio per questo motivo. Tendenzialmente sono situazioni marginali che se corrette portano un vantaggio minimo. Però un Giro d'Italia o un Tour de France spesso si giocano su pochi secondi e non ci si può permettere di trascurare nulla. Io parlo di riequilibrio: provo a fornire un equilibrio al corpo che per molte ore sta in una posizione a lui non consona».
La giornata di un osteopata al Giro inizia sin dal mattino presto, aiuta i massaggiatori, prepara i rifornimenti e poi va in hotel ad attendere l'arrivo della squadra. «Per questioni di tempo non riesco a trattare tutti gli atleti ogni giorno, così la priorità va a chi ha più bisogno di un trattamento per problematiche specifiche». Negli anni, Demaria ha affinato tecniche e capacità e, ultimamente, dopo cena, pratica anche trattamenti che aiutino il riposo.

«A questi atleti si chiede tutto, da loro si vuole tutto. Lo stress e la pressione sono una componente importante. Non sono uno psicologo e non mi arrogo competenze che non ho, ma sono sicuro del fatto che ogni persona che stia a diretto contatto con gli atleti debba cercare di affinare la propria sensibilità e avere particolare attenzione ad ogni dettaglio, anche quello che sembra trascurabile». E la sensibilità, che è pane per il lavoro di Demaria, è duplice. «La palpazione è fondamentale, aiutano i test e gli esami. Soprattutto, però, è necessario ascoltare e, se possibile, aver provato ad andare in bicicletta e conoscere quelle sensazioni. Conoscere la dinamica di un corpo in bicicletta, non solo a livello teorico ma anche pratico».

Il resto sono aneddoti e conoscenza personale. Per esempio quando si parla di Andrea Vendrame. «Potrebbe essere mio figlio. L'ho visto crescere. Nel primo giorno di riposo non stava molto bene, stava ancora entrando in forma. La sera prima ci ha detto che ci avrebbe provato. Diciamo che ci è anche riuscito. Noi avevamo il timore che non tenesse sull'ultima salita, quando ha scollinato poteva perderla solo lui». Demaria gli consiglia di riguardare le gare di Paolo Bettini e di ispirarsi a lui per istinto e tenacia.

Non solo, però, perché Demaria lavora anche con atleti fuori dalla squadra. «Se tutti avessero la testa di Pozzovivo, avremmo una qualità stellare. Pensate che è venuto a cena da me il 22 dicembre: c'erano tante golosità in tavola, lui no. Lui si è mangiato la sua insalata con la carne cruda. A Modolo, invece, una volta feci assaggiare il carpaccio, lo mangiò di gusto e, pensate, il giorno dopo fece scintille alla Sanremo».

Foto: Luigi Sestili


This must be the place

"Piedi per terra, testa nel cielo" cantava con timbro ispirato David Byrne. Lassù, dove il mostro Zoncolan si erge chiazzato di bianco e immerso nella nebbia. Lassù, dove si può fantasticare, proiettandosi nel mito.

Lassù, dove tutti ora conosco Lorenzo Fortunato. «Mi piacerebbe vincere una tappa al Giro» diceva qualche settimana fa.

Sognare e poi fuggire, con uno scatto senza volo. Costante, scandito. Scappare via. Da Bennett, Mollema e Covi, forse più forti, ma non oggi. Riprendere Tratnik che qui in Friuli è di casa. Nato al confine, a Idria, dove si dice che gli abitanti siano un po' matti perché l'acqua del fiume che la bagna è stata contaminata dal mercurio delle miniere. Dove il piatto tipico sono gli Idrijski Žlikrofi una sorta di ravioli ripieni di patate, e, volendo, lardo ed erba cipollina.

È fatto così, Tratnik, famiglia di giocatori di basket. Grosso com'è non ce lo vedresti andare forte in salita, e infatti gli ultimi metri li percorre a zig zag vedendo la sagoma azzurra dello scalatore bolognese andare via. Vinse a San Daniele del Friuli pochi mesi fa. «Ho tenuto duro perché ad aspettarmi c'era la mia ragazza» disse. Vinse poco lontano dallo Zoncolan dove se oggi ci fosse il sole vedresti il cielo a un passo, scorgeresti la Panoramica delle Vette, ti potresti immaginare anche il mare.

Zoncolan. Un muro di nebbia. Da giorni non si parla che di lui, e portiamo pazienza per un Giro che, con un solo padrone in Rosa, a tratti inscalfibile, vede gli altri quasi in disarmo.

Giochi di fughe. Concessioni nemmeno troppo celate. Fughe che arrivano sempre e ciò non riscalda. Una sorta di Moloch contro cui lo spettatore combatte. Sarebbe auspicabile vedere i migliori lottare per la vittoria di tappa, ma poco importa, almeno per Fortunato.

Zoncolan, come il ritornello di una canzone osannata. Scendono lacrime da un incredulo vincitore che intervistato smette di parlare in inglese: «Adesso non ce la faccio» esclama radioso. Leggero su quelle rampe che non demordono, che più sali e peggio è, che più vedi la cima e più senti il petto esplodere. Prima vittoria in carriera per lui, che arriva da Bologna, dove invece dei ravioli si fanno i tortellini, lui che al basket preferiva il calcio. Prima vittoria nella storia della sua squadra guidata da Basso e Contador che in salita, a tratti, hanno fatto quel che han voluto.

E quel tifoso che a un certo punto gli si avvicina e per la troppa esultanza rischia di farlo cadere? Assomigliava a Basso, lo abbiamo pensato in diversi. Un segno del destino.

E mentre Fortunato sale, prima sul velluto, poi su un asfalto che pare infilzare le sue unghie nelle ruote, tutto intorno aumentano neve e spettatori. E mentre sale aumenta il vantaggio, e, increduli: "vince davvero Fortunato". E mentre sale, ancora nebbia, neve grigia, spettatori scalmanati, alcuni al solito travestiti, altri con un campanaccio che chissà, forse l'avranno preso in prestito da qualche mucca al pascolo.

E quando arriva: "Occhi che si illuminano, sono solo un animale che cerca casa", sempre David Byrne, caldo e intonato. Immaginavi o forse solo lo sognavi che questo sarebbe stato il posto giusto, Fortunato, "this must be the place". E oggi sullo Zoncolan, è andata proprio così.


Aprite i vostri occhi

Quando Edoardo Affini si è messo in testa a tirare per Groenewegen a poche centinaia di metri dal traguardo, nessuno si sarebbe aspettato mai di rivederlo sbucare con un certo margine all'ultima curva, con uno di quegli schiaffi al gruppo che ormai non si vedevano da tempo: il colpo del finisseur.

Dice che non era pianificato, che ha trovato lo spazio e si è gettato, ma è parso così perfetto, o quasi, che facciamo fatica a crederci. Quasi, perché le schegge della deflagrazione si infrangono a venti metri dalla linea d'arrivo.

Valgono più quattro ore di nulla praticamente assoluto, oppure quell'ultimo minuto di sprint? La risposta è difficile da dare, ma la troviamo negli occhi rossi per la rabbia di Affini e nella lingua di Nizzolo mostrata a tutti come una liberazione.

Vale tanto quell'ultimo minuto di sprint, vale per tutti, ma in particolare per lui. Una serie ridondante di piazzamenti al Giro senza vittoria e poi oggi, nel più semplice degli sprint, nella più semplice delle tappe, è il più veloce. Il più forte. Il più quadrato. Vigoroso e intenso nella sua maglia di campione europeo.

È un paradosso quello che coinvolge i folli delle volate. Perché concentrano in pochi attimi emozioni che si tengono dentro per lunghe ore interminabili, per lunghi anni passati a sognare un successo di questo genere.

E sono mesi che Elia Viviani sogna questo traguardo: «È una strada che conosco a memoria, la faccio tutti i giorni sin da quando sono bambino». Forse anni a pensarci. Se chiude gli occhi, Elia potrebbe descriverti perfettamente ogni centimetro di asfalto che porta verso il traguardo. Se chiude gli occhi e pensa a quando fra pochi mesi sarà il portabandiera italiano ai Giochi Olimpici forse un minimo riuscirà ad arginare l'amarezza.

Ma chiude gli occhi e parte lungo Nizzolo, dribbla Sagan, piomba sulla ruota di un Gaviria che rimbalza contro l'attrito, sfinito da gambe che non trovano più i giorni migliori.

Apre gli occhi, Nizzolo, perché a destra c'è ancora Affini e al traguardo mancano 150 metri. Che sono quantificabili in... tre secondi?

E noi sgraniamo gli occhi in quel lungo attimo, urliamo "Affini" come fa Rob Hatch in televisione, urliamo "Nizzolo" perché al Giro non ha mai vinto e vorremmo vederlo vincere prima o poi.

E siamo la delusione di Viviani, e di questo suo lungo momento, e siamo l'incredulità di Affini, che ha sfiorato il colpo.

Siamo il denso giubilo di Nizzolo che stavolta la vittoria la prende a piene mani e l'assapora. Una vittoria che, come dicono loro, i ciclisti, prima o poi a furia di cercarla arriva, semplicemente.
Banale e sorprendente, come in quel gioco assurdo che è la follia degli sprint.

Foto: BettiniPhoto