Le ferite di Nacer Bouhanni

Il fatto risale al 28 marzo 2021: Nacer Bouhanni, Arkéa Samsic, durante la volata della Cholet-Pays de la Loire, compie un'evidente irregolarità stringendo Jake Stewart contro le transenne. La giuria lo squalifica e intanto l'opinione pubblica inizia a discutere la condotta dell'atleta francese. Si dice che non è la prima volta che Bouhanni si rende protagonista di volate così scorrette e si invitano gli organi competenti a prendere provvedimenti contro di lui. L'Unione Ciclistica Internazionale potrebbe intervenire proprio in questi giorni, sanzionandolo. Purtroppo però, nel frattempo, il dibattito è scaduto e al corridore sono stati rivolti pesanti insulti razzisti che nulla hanno a che vedere con la pur grave irregolarità commessa in volata. Il primo a parlare di questo fatto è stato proprio Jake Stewart: «Su molte cose si può essere più o meno d'accordo però, in questo mondo, non c'è posto per il razzismo. Lo dico chiaramente ai cosiddetti tifosi del ciclismo che hanno rivolto insulti simili a Bouhanni: non siete i benvenuti qui».
Nacer Bouhanni, dopo diverse notti difficili, ieri ha dichiarato di essersi affidato a dei legali e ha rilasciato un'intervista a “L’Équipe” raccontando la propria verità, facendo emergere un dolore che aveva sempre nascosto. «Mi sono costruito uno scudo per proteggermi da tutto questo. Nella vita di tutti i giorni non sono così, freddo, duro, come posso sembrare in corsa. Sono venticinque anni che sono nel ciclismo e da quando ero bambino affronto il razzismo in silenzio perché, quando se ne parla, sembra sempre di voler passare per vittime, ora non riesco proprio più a non dire nulla». Il corridore francese spiega che, sino ad oggi, non aveva mai voluto parlarne proprio per questo timore ma le domande che si è posto nel tempo sono molte. Nel suo racconto la parola razzismo è spesso sostituita da un giro di parole, il razzismo è “quella cosa lì”, quella che lo tormenta da troppo tempo. «Mi hanno detto di tornare in Africa, mi hanno dato del terrorista, sono arrivati a dire che dovrei essere estromesso dal ciclismo e che avrei fatto apposta a stringere Stewart contro le transenne. Pagherò ciò che devo pagare, ma questa è pura follia».
I messaggi di insulti sono aumentati drasticamente nell'ultimo periodo, le notifiche arrivano da ogni social e quando non giungono direttamente a lui, sono gli amici, involontariamente a mostrargliele. «Mi dicono: “Sai cosa ho letto? Guarda cosa dicono di te“. Ho dovuto chiedere di non dirmi più nulla, che non voglio sapere più nulla. Non sono una vittima, lo ripeto. Se fossero dieci, quindici messaggi, ci passerei sopra. Ora non è più possibile. Era già un periodo difficile, non ci voleva». Nacer Bouhanni è molto chiaro: gli episodi di razzismo di cui parla non avvengono in gruppo o nelle squadre in cui milita. «Direttamente, in gruppo, non è mai accaduto nulla, poi non so cosa pensino i miei colleghi. Fuori corsa, invece, ho ricevuto alcuni insulti razzisti e purtroppo da persone adulte, persone che dovrebbero sapere ciò che dicono. Fino a quando sono parole di bambini piccoli, scivolano via, dagli adulti le ferite sono maggiori. Sono nato in Francia e quando ho vinto il campionato nazionale ero felicissimo su quel podio, mentre risuonava la Marsigliese. Sono fiero per quei giorni, ma sono altrettanto orgoglioso del cognome che porto, di essere un francese di origini magrebine».
Nelle parole dell'atleta si percepisce un distacco dalla propria carriera e dai risultati ottenuti. «Quanto avrò vinto in tutto? Circa settanta gare? Restituisco ogni trofeo, non li voglio più, non mi porterò le vittorie nella tomba. A me interessa l'amore della mia famiglia. Porterò tutte le prove alla polizia, sporgerò denuncia, ma il male resta. Spero che la giustizia faccia qualcosa perché, altrimenti, vuol dire che chiunque può fare di tutto senza alcuna conseguenza. Vorrei liberarmi da questo peso che mi assilla»
Ancor più dal momento in cui Nacer, proprio per il ciclismo, ha discusso con il padre. «In famiglia, per proteggermi, hanno sempre evitato il discorso razzismo. Hanno fatto bene. Mio padre mi ha ripetuto di non farci caso, di essere fiero e di continuare per la mia strada. Me lo ha ripetuto anche quando gli ho raccontato come stavo, guardandolo dritto negli occhi e dicendogli che se continuerà così potrei anche lasciare il ciclismo. Anche quando ho detto al mio manager che non sarei partito per la Roue Tourangelle perché le mie condizioni psicologiche non me lo permettevano. Per questo ho discusso con mio padre, la persona che mi ha sempre protetto, che mi vuole bene, che mi ha aiutato a proseguire in questo mondo anche quando ero a terra. Un'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso».

Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021


Dietro casa, il monte Učka: intervista a Josip Rumac

Josip Rumac, Androni Giocattoli-Sidermec, è tornato a casa in questi giorni, ad Opatija, in Croazia, vicino a Rijeka, per noi Fiume. Ormai erano più di due mesi che era lontano dalla sua città, tra ritiri, corse e allenamenti. «Stamattina, dopo l'allenamento, ho preso la macchina e ho guidato verso la casa di mia madre. Sono tornato a sera e mi sono stupito ancora una volta vedendo il monte Učka dietro casa mia. Per noi è una specie di protettore della città e, ogni volta che viene scalato al Giro di Croazia, essere lì davanti vuol dire molto». In realtà, Rumac ha un legame particolarmente stretto con la sua terra. «Giro il mondo e ti assicuro che non vorrei fare altro, ma ogni volta che torno qui e rivedo questi viali, lunghi, ampi, affacciati sul mare ed il riflesso del monte nell'acqua, mi dico che nessun posto è come questo».

Da ragazzo quelle acque le ha anche solcate perché, prima di essere ciclista, Rumac andava in barca a vela. Racconta che gli piaceva e che anche oggi farebbe volentieri un giro in barca, anche se la sua idea è sempre stata un'altra. «Io ho sempre voluto diventare un ciclista professionista, anche nel periodo in cui giocavo a pallavolo. Sembra strano anche a me perché la Croazia non è una nazione particolarmente legata al ciclismo. Da noi ci sono tanti amatori, pochi professionisti. Le bellezze naturali hanno permesso di sviluppare il cicloturismo che è un modo di pensare alla bici bellissimo ma diverso». Così Josip, all'uscita da scuola, prendeva la sua bicicletta, montava in sella, e andava, prima nel cortile e poi lungo il mare. Fino a quando è arrivato il tempo delle gare, la prima vittoria a nove anni, in mountain bike.

«Se c'è una costante nel mio carattere è proprio il fatto di provare sempre, ogni cosa. Sin da bambino ero così. Se decidevo di fare qualcosa, mi ci mettevo ed insistevo fino a che non ci riuscivo. Personalmente credo molto nel fatto che si impari più dagli errori che dai successi. I successi fanno piacere, ma gli errori insegnano. Così ogni volta in cui sbagli puoi ritentare e ritentare meglio. Alla fine, noi impariamo dai tentativi». La bicicletta è il mezzo ideale per imparare perché consente a Rumac di apprendere nella tranquillità. «Quando pedalo sono sereno e motivato, così ho modo di reagire alle difficoltà. Ognuno di noi trova motivazione in qualcosa di diverso, io la trovo nella possibilità di continuare a fare ciò che avrei sempre voluto fare. Mi dico che è sempre stato il mio sogno e che devo reagire. Da quando ho finito le scuole, il ciclismo è sempre stato il mio lavoro. Questo è il mio orgoglio». In Androni, poi, c'è qualcosa in più. «Ognuno di noi sa che le cose si fanno assieme, che si cresce o si cambia assieme. Per un atleta è molto importante non sentirsi solo nelle difficoltà, è un aspetto che può fare la differenza».

Sotto la voce “grinta”, nel vocabolario di Josip Rumac, ci sono due nomi: l’ex ciclocrossista francese Julien Absalon ed il “pistolero” Alberto Contador perché «non conta solo vincere, ma anche il modo in cui vinci e le loro vittorie si fanno ricordare». Lui vorrebbe farsi ricordare alla Strade Bianche e alla Milano-Sanremo. La corsa dei suoi sogni, però, resta il Giro d'Italia, la gara a cui ha sempre pensato quando pensava al ciclismo ed a cui ha partecipato per la prima volta lo scorso anno. Sotto la voce bellezza, invece, l'Italia, un paese che sta iniziando a conoscere. «L'Italia è incredibile. Puoi capitare ovunque, in una grande città o in un piccolo borgo dimenticato, e stai certo che troverai qualcosa di bello, qualcosa in grado di sorprenderti. A me è sempre successo così».

Foto: Luigi Sestili


L'urlo e il furore

Pomeriggio di Pasqua 2021. Mancano quattrocento metri al traguardo di Oudenaarde, Fiandre Orientali. Il cielo è leggermente velato. L'azzurro si butta nel bianco come avena che si mescola a una zuppa di latte. Sullo sfondo, dietro le transenne, non ci sono tifosi: si vede qualche albero spelacchiato, un po' di verde, segnali stradali che indicano divieto di transito, persino un bagno chimico. Ci sono solo due uomini davanti a giocarsi il successo: Asgreen e van der Poel. Gli altri arrancano e annaspano, si appoggiano a quello che rimane dentro: poco, ma quanto basta per sopravvivere. Si lanciano all'inseguimento o forse più a cercare la consolazione di un terzo posto.

Da un po' di chilometri ci si domanda: cosa deve fare Asgreen? Meglio secondo oppure niente? Cosa deve inventarsi il danese per battere van der Poel allo sprint? Deve aspettare Sénéchal nel gruppetto inseguitore?

Fase di studio, non c'è surplace. Lo speaker è concentrato, c'è silenzio. I telecronisti si schiariscono la voce, le pulsazioni, già alte, salgono ancora. Van der Poel è davanti, ma il suo sguardo è fisso sulla ruota anteriore di Asgreen, ben saldo sul sellino, che nasconde la sua sagacia dietro pesanti occhiali neri.

Trecento metri e lo sprint ancora non parte: "Esattamente come lo scorso anno quando van der Poel sconfisse Wout van Aert", ci si ripete. Duecentocinquanta metri: Asgreen ora si alza sui pedali, un movimento sciolto, come si è mostrato libero da inganni e costrizioni tutto il giorno, sempre attento e all'avanguardia ad ogni tentativo altrui, e a volte persino capace di offrirlo in prima persona, con quel suo fare statuario, le caviglie sottili e la potenza della dinamite danese.

Duecento metri: parte lo sprint. Van der Poel, maglia di campione olandese e calzoncini neri («Quando indossa calzoncini neri al posto di quelli bianchi vuol dire che non è in gran giornata» ripete ossessiva la stampa del suo paese di origine, a metà tra le mani avanti e la scaramanzia), sembra non avere il calcio d'inizio dei giorni migliori. Asgreen, nella sua maglia di campione danese con enorme croce bianca su campo rosso, lo affianca, ma van der Poel ha ancora mezza bicicletta di vantaggio. Ma torniamo all'inizio.

Mattina di Pasqua 2021. Partenza del Giro delle Fiandre. Il cielo è lattiginoso. Un grigio chiaro come la bava di un cane. Fa freddo: corridori che indossano guanti e manicotti. Tutti si nascondono – dovere di sponsor – dietro occhiali di ogni genere, tranne Taco van der Hoorn, in fuga alla Sanremo e da aspettarselo in fuga anche oggi. Anni fa viaggiò per l'Europa con un furgoncino Volkswagen del 1982, battendo come un giovane studente i percorsi delle classiche belghe e italiane. Ci fu una volta in cui frantumò in volata un certo van Aert che ancora non era quello che conosciamo oggi. False speranze: Taco non attacca. In fuga ci vanno prima in quattro che poi diventano sette. Fra loro c'è Bissegger, talento elvetico: sarà l'ultimo a mollare sul Koppenberg a quarantacinque chilometri dall'arrivo. C'è Norsgaard, danese della Movistar, stessa squadra in cui corre sua sorella, lui sì già in fuga alla Sanremo e che raddoppia oggi. Ci sono Denz, uno dei nomi più belli del gruppo, Van Den Bossche, Paaschens, Houle. C'è Wallays: in una fuga che, chilometro dopo chilometro, assume margini preoccupanti, almeno per chi insegue. Wallays vince poco, ma benissimo, se giocasse a calcio sarebbe un falso nueve, sempre all'attacco ma con fantasia, e se la stagione fosse solo la Paris-Tours sarebbe quasi un cannibale.

Si passa con estrema velocità nei paesini dell'est delle Fiandre: case basse e storte, poca gente, porte e finestre che ti osservano con sguardi indisposti, di sbieco. Simboli quasi solo fiamminghi, insegne di pub e friggitorie. Striscioni dei fan club che salutano i propri beniamini. C'è un bambino avvolto in una bandiera più grande di lui e un altro su una pista ciclabile che prova un furibondo sprint su una bici da corsa per tenere il ritmo del gruppetto in fuga.
Ci riesce persino meglio, almeno per un po', rispetto a quelli dietro, col vantaggio che sale fino a toccare i tredici minuti. Nel frattempo una doppia squalifica per scorrettezze: per Fedorov che frena mentre è in testa al gruppo rischiando di combinare un macello e per Vergaerde che prova a colpirlo con una spallata.

Van Avermaet prima e Van Asbroeck poi si fermano a salutare moglie e figli. Si fora e si cambia la bici, si gettano borracce ai tifosi e per questo motivo Schär viene squalificato. Suo padre, oggi proprietario di un negozio di bici, in carriera ha vinto solo una corsa. Era il 1976, era la Setmana Catalana: sconfisse un certo Merckx.

Si procede senza troppi spasmi, cautela e progressione, con il Declercq Express che tira il gruppo e macina chilometri in testa, aiutato da due vagoni nostrani, Affini e Milan, che a conti fatti saranno i maggiori protagonisti per il ciclismo italiano, oggi - a eccezione di un buon Trentin, sfortunato per la foratura nel finale.

La prima delle due accoppiate Oude Kwaremont-Paterberg, a circa sessanta dall'arrivo, dà il via a un'ora e mezza finale di attacchi e contrattacchi. Di pulsazioni che salgono e di cuore in gola. Asgreen, van der Poel, van Aert e Alaphilippe sono i più in palla. Attaccano, chiudono, mangiano la polvere e tagliano l'aria. Con loro c'è pure un sorprendente Haller davanti, seconda giovinezza la sua, austriaco dai capelli lunghi, barba folta, grande tifoso dell'Arsenal. Da piccolo giocava ad hockey ma scelse il ciclismo: con quel fisico avrebbe pure potuto fare il rugbista. Con lui anche un rinato Teuns, da troppo tempo atteso su queste strade a questi livelli.

Ma la corsa di oggi è come un cubo di Rubik completato e dato in mano a un ragazzino. Ogni volta che te lo restituisce devi ricominciare da capo. Poi, come spesso accade in queste corse, in una fase di studio tra i sei - sui quali era rientrato anche il sempre presente Turgis - se ne vanno via i tre più forti oggi: Asgreen, van der Poel e van Aert. All'ultimo passaggio sul vecchio Kwaremont, cede anche il belga, gli altri due vedono Oudenaarde con un fastidio in meno e la storia di questo Giro delle Fiandre può tornare verso l'epilogo inaspettato.

Cento metri all'arrivo: Asgreen supera van der Poel. Sessanta metri all'arrivo van der Poel molla. Forse non bluffava, o almeno non così tanto. Scuote la testa, si inchina. Asgreen è un urlo di furore che colpisce le Fiandre orientali. Van der Poel è secondo, un enorme van Avermaet terzo davanti a Stuyven. Sesto van Aert, migliore degli italiani Bettiol, ventottesimo.

per Alvento Magazine - Alessandro Autieri
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021


Giro delle Fiandre: ovvero giganti, inganni e stanchezza

Van Aert, van der Poel, (van) Alaphilippe: parliamo sempre di loro tre, è vero, ma d'altra parte è di uso comune definirli “the big three”. Al centro dell'attenzione però c'è anche una corsa, o meglio la Corsa, arrivata alla sua edizione numero 105.

La Ronde in programma domenica (diretta a partire dalle 09.55 circa su Raisport ed Eurosport) difficilmente mentirà sul vincitore e vedrà i tre citati favoriti, anche se i dettagli sul loro stato di forma e sull'avvicinamento a un possibile successo assumono una narrazione diversa rispetto al recente passato.

Van Aert o della forza. Arriva alla partenza di Anversa con una sola condizione: quella del favorito. Anversa, ma niente triangolare piazza del Grote Markt, nessun tentativo di assimilare immagini a quadri e affreschi come quelli all'interno della cattedrale di Nostra Signora, niente Municipio, né Palazzo delle Corporazioni a far da sfondo, niente statua di Silvio Brabone mentre sconfigge il gigante Druon Antigoon, niente tavolini (vuoti) dei caffè con i loro tendoni (chiusi). Bandiere poche, solo la tensione pre gara che si sposta sulla Steenplein, in riva alla Schelda («in questo momento più semplice dal punto di vista logistico, più pratico per tenere lontano il pubblico», spiegano gli organizzatori) che resta il punto di riferimento, sia nel suo silenzio assordante che nella capacità di essere, ora e sempre, come in un ciclo continuo, soprattutto quando nelle Fiandre si parla di intrattenimento a due ruote. Sullo sfondo in lontananza si vedrà un'altra statua: quello del Lange Wapper, gigante che popola i racconti folcloristici dei fiamminghi e che sarà semplice accostare metaforicamente a colui che poche ore dopo vincerà la Corsa.

Wout van Aert, e riprendiamo il filo: ha sofferto ad Harelbeke – della settimana belga la corsa che più si avvicina al Fiandre -, ma alla Gand-Wevelgem ha colto il primo successo in una grande classica del suo paese, inteso come Stato, nazione, e pareva una mancanza, se volete, un dato stonato nel suo palmarès già ricco in qualità più che in quantità. Si è parlato in abbondanza dell'opera di Nathan van Hooydonck, nome da pittore più che da santo, fondamentale compagno di squadra, e si è discusso dell'importanza della squadra anche domenica. Gliene servirà una più solida, è vero, ma fino a un certo punto: perché a un certo punto non si potrà bluffare, e con Oude Kwaremont e Paterberg come trampolino finale conterà soltanto quello che ognuno avrà dentro da trasmettere fuori: forza, potenza, cambio di ritmo, testa, energia: elementi che sembrano disegnati sulla sagoma del demolitore di pietre (RollingStone è copyright di altri) nato a Herentals, non troppo lontano da Anversa.

Van der Poel o dell'inganno. Subito un chiarimento: toni leggeri per definire quel prodigio di talento e istinto, di mulinate sui pedali da mettere alla prova la forza demolitrice di un fiume in piena. Alla Dwars door Vlaanderen a un certo punto si è staccato su una breve e ripida salitella: come se gli avessero levato il pane di bocca. Come se ce lo avessero levato a noi: c'è stato un attimo di silenzio e di costernazione nel tentativo di darci delle spiegazioni. Per qualcuno, ad esempio Eddy Planckaert, uno che al nord ha vinto qualcosina, è stato un mezzo bluff: «Bastava vederlo come pedalava nel finale sotto l'occhio della telecamera che lo aspettava. Smorfie da faccia distrutta: la sua idea è quella di togliersi di dosso il titolo del favorito assoluto».
La risposta del van olandese non si è fatta attendere: «Ma quale bluff: caldo, brutta giornata, non ne avevo, ma questo non vuol dire che non ne avrò al Fiandre» Nelle ultime ore ha aggiunto: «Sono un po' stanco. Forse sono arrivato un po' lungo con la condizione. Domenica il favorito sarà van Aert».

Insomma, il nipote di Poulidor e figlio di Adrie si cala sempre meglio nel ruolo di personaggio e ora inizia a giocare un po' di più con la sua immagine – a margine di tutto ciò, interessante considerazione di Walter Godefroot: «Mathieu per come corre ricorda più suo nonno che suo padre».

Intanto, dal Belgio, https://wiewintdekoers.be/, un sito che si occupa di prevedere i risultati delle corse ciclistiche partendo da dati basati su statistiche e prestazioni rielaborati da un'intelligenza artificiale, lo mette favorito assoluto (davanti a Van Avermaet, van Aert, Naesen e Stuyven). Fra poche ore scarteremo anche la caramella con la faccia dell'olandese sopra, scopriremo che sapore avrà e anche se questi ricercatori dell'Università di Anversa c'avranno preso.

Caldo e brutta giornata nei giorni scorsi anche per Alaphilippe. E stanchezza: «Sono un po' stanco, lo ammetto, il calendario italiano sta pesando sulle mie gambe». Il caldo è un po' il leitmotiv della corsa di mercoledì, ultimo capitolo di avvicinamento all'appuntamento che conta nel giorno di Pasqua e che a causa dello slittamento a ottobre della Roubaix, chiude in anticipo il blocco delle classiche sulle pietre.

Lampaert, quarto all'arrivo, quel caldo lo ha accusato in tutti i sensi, ma mai sottovalutarlo, van Baarle ha tirato fuori invece un numero da scuola d'élite e finalmente dopo tanto sbagliare i tempi il suo tempo è arrivato. Occhio anche a lui, ma stavolta è difficile lo lasceranno andare, anche se serviranno squadre solide e non solo le solite come nel caso della Quick Step (domani sarà Elegant e non Dececuninck e all'ultimo momento non schiera Štybar, fermato per un problema cardiaco), che dopo le meraviglie viste ad Harelbeke si è disfatta tra Gand e Waregem, ma ci giochiamo la dannazione eterna dell'anima su una corsa d'attacco e di testa da parte dei ragazzi di Lefevere.

Capitolo dedicato agli altri: numerosi, anche se il nuovo percorso difficilmente racconta bugie o storie di carneadi e sorprese, piuttosto può raccontare leggende di marcamenti e dispettucci, che è un po' uno dei paradigmi del ciclismo, fatto sta che da tenere d'occhio: Van Avermaet e Naesen, coppia AG2R che pare non prendersi troppo, i francesi Sénéchal, Turgis e Laporte (chi vi scrive pensa anche a Coquard), e poi ancora dal Belgio: Stuyven e Wellens, Benoot e G.Vermeersch. I tedeschi si affidano alle affilate speranze di Politt e a quelle un po' affievolite di Degenkolb, poi ancora la dinamite danese di Asgreen, Pedersen e Kragh Andersen (quest'ultimo mai troppo in palla per la verità a parte quel quasi colpaccio su via Roma a Sanremo) e quella norvegese di Kristoff, qui sette volte nei primi cinque su nove partecipazioni, con una vittoria, nel 2015, e due terzi posti nel 2019 e 2020. Ci sarà Sagan, scopriremo in che versione, mentre la Spagna si affida a Garcia Cortina e la Svizzera punta su Küng, uno che va forte, generoso, ma avrebbe bisogno di azzeccare i tempi giusti e di arrivare possibilmente da solo sfruttando il marcamento altrui.

Italiani: Trentin, Colbrelli e Nizzolo apparsi brillanti di recente saranno chiamati a una gara super per sperare in una top ten, Bettiol non è al meglio, ma da lui ci si può aspettare di tutto, in tutti i sensi. Ballerini, un po' in calo di recente, forse avrebbe spostato le sue mire sulla Roubaix, domani per lui sarà tutta esperienza utile.

IL PERCORSO

Più o meno lo stesso dal 2012, senza De Muur, tolto, poi rimesso, ma non ci sarà quest'anno ed è un torto non tanto alla storia di cui il ciclismo si fa spesso beffe, ma dal punto di vista tecnico una vera mancanza seppure nella sua versione a un centinaio di chilometri dall'arrivo. Da Anversa a Oudenaarde sono circa 254 chilometri, 19 muri (due in più dell'anno scorso) e sei tratti in pavè. Il finale è un mondiale sulle pietre, un circuito che prevede il doppio passaggio Vecchio Kwaremont-Paterberg che scatenerà la rissa finale. Se quei tre ne avranno potrebbe non esserci storia per gli altri. Ma anche alla Sanremo pensavamo andasse così e la realtà fu ben diversa.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ van Aert
⭐⭐⭐⭐ van der Poel, Alaphilippe
⭐⭐⭐ van Baarle, Asgreen, Stuyven
⭐⭐ Kristoff, Sénéchal, Lampaert, Küng, Van Avermaet, Trentin, O.Naesen
⭐Politt, Turgis, Laporte, Wellens, Degenkolb, Nizzolo, Colbrelli, Matthews, Pidcock, Pedersen, Kragh Andersen, Benoot, Bettiol, Barguil, Livyns, D.Van Poppel, Vanmarcke, Madouas

Foto: Nico Vereecken / PN / BettiniPhoto © 2020


Non è solo un lavoro: intervista a Rachele Barbieri

Sin dalle prime pedalate, Rachele Barbieri ha sempre avuto ben chiara una cosa: il ciclismo non avrebbe mai potuto essere un lavoro come tutti gli altri. «Di essere ciclista non smetti mai. Si tratta di un lavoro che ti assorbe completamente, da cui non esistono pause. Anche quando la stagione finisce, tu non puoi dimenticartene. Non esistono ferie dal ciclismo, per un semplice motivo: se ti dimentichi di essere ciclista, il ciclismo te la fa pagare. È un privilegio, qualcosa per cui essere grati, ma è faticoso, talvolta molto faticoso». Rachele è certa che, per comprendere al meglio queste parole, sia necessario vivere la realtà di un professionista, così ci porta subito qualche esempio. «Come tutti sanno la nostra alimentazione è controllata nei minimi dettagli, così quando ci sediamo a tavola, nei ritiri, tutto è dosato. Persino la quantità di Parmigiano per la pasta nella formaggiera. Talvolta succede che qualche ragazza ne prenda poco di più e per le altre non ne resti abbastanza. A noi è capitato di discutere per questo. Niente di grave, ci mancherebbe, ma la tensione porta anche ad esasperare certe situazioni».

Rachele Barbieri ammette di essere sempre stata una ragazza molto competitiva: «Del resto chi non lo è? Ogni volta che veniamo a Montichiari ad allenarci, in fondo, ci giochiamo un posto per un traguardo importante. Ognuna di noi vorrebbe ottenere la maglia azzurra di un Mondiale o di un'Olimpiade, così battagliamo per riuscirci. Non credo sia un problema. L'importante è che ci siano dei limiti ben definiti e che si abbia anche chiaro quale sia la cosa migliore per la squadra». In questo, prosegue la ventiquattrenne di Pavullo nel Frignano, aiutano particolarmente due aspetti. «Sappiamo bene di avere tutte dei valori importanti, così, se viene preferita un'altra ragazza, per quanto la delusione sia forte, si ha la certezza che farà bene, perché si conosce il suo valore. D'altra parte, nella vita, non solo nel ciclismo, è necessaria una buona dose di onestà intellettuale per riconoscere quando qualcuno sa fare qualcosa meglio di te. Che non significa che tu non vali nulla, solo che qualcuno, in questo momento, è più adatto di te per quel ruolo».

Barbieri ha un modo particolare di vivere il rapporto con la maglia azzurra. «Quando non sono stata convocata al Mondiale, ho preso la maglia, l'ho chiusa in un cassetto e non l'ho più guardata per diversi giorni. Sentivo mia quella casacca e non poterla indossare mi ha lasciato nello sconforto. È difficile da spiegare, ma tu senti tua la maglia azzurra quando hai la percezione di poter fare qualcosa di importante indossandola, diversamente può anche far paura».
Della pista, Rachele continua ad amare ciò che nei primi tempi la spaventava. «Se ho trovato il coraggio di salire in sella, la mia prima volta a Cento, è stato solo perché, essendo competitiva, non potevo sopportare che le altre bambine ci riuscissero ed io no. Poi ho scoperto quanto sia bella l'imprevedibilità dei velodromi, quella continua serie di scatti e rilanci che lasciano tutto incerto sino all'ultimo secondo. Pensa per uno spettatore cosa deve significare potersi sedere in tribuna e aver sempre sott'occhio tutto ciò che accade. Nel ciclismo su strada non succede mai, vediamo secondi, frammenti, la pista ti mostra tutto, anche il dietro le quinte».

Sorride quando pensa all'Olimpiade e torna ad analizzare, nel continuo tentativo di capire e migliorare. «Credo di avere nello spunto veloce un punto di forza, per questo preferisco gare brevi, come lo scratch, che mettono in risalto questa mia capacità. L'omnium è il sogno di tutte. Io sto lavorando sulla resistenza perché vorrei far parte anche della madison, non solo del quartetto. Sono 120 giri in cui devi essere a tutta, con l'unico sostegno della tua compagna, ed è impensabile affrontarla senza un gran lavoro alle spalle». Ma i Giochi Olimpici, per Barbieri, significano qualcosa in più. «Dire che sono un traguardo ambito per gli atleti è quasi scontato. Mi piacerebbe invece parlare di quanto siano importanti per le persone che ci guardano da casa. Tutti si fermano qualche minuto a guardare le Olimpiadi, anche persone che allo sport non si sono mai interessate. Credo possano essere una buona medicina per non pensare per qualche ora a tutto ciò che ci sta accadendo da un anno a questa parte».

Foto: Paolo Penni Martelli


L'isola deserta di Thomas De Gendt

Per Thomas De Gendt andare in fuga è la trasposizione sui pedali di un racconto ambientato su un'isola deserta. Quando gli chiesero qualche tempo fa se ci fosse un corridore da portarsi in fuga rispose senza tentennare: Jens Voigt, Jacky Durand ed Eddy Merckx. Tre, non uno. Il motivo presto detto: più si è, meglio si sta, soprattutto quando la fuga inizia e c'è del lavoro da sbrigare per creare una storia. Un desiderio che spesso si scontra con la verità dell'inizio di ogni tappa, perché in realtà: «L'unica cosa che puoi scegliere è la tappa dove andare in fuga. Né troppo dura perché favorisca gli uomini di classifica, né troppo morbida per velocisti» raccontava sulle pagine di yellojersey.co.uk. Non puoi scegliere davvero con chi, puoi solo farti un'idea. «Dal chilometro zero si vede già chi è motivato». Poi la tappa parte e si fuga ogni dubbio su fegato e gambe. «È la speranza è portare i più forti con te». Banalmente lapalissiano.

Evidente come in avvio gli serva sempre un aiuto da qualcuno, nonostante “Solo” sia il titolo della sua biografia e il solipsismo la sua dottrina, mentre preferisce arrivare da solo come raccontato nell'intervista che trovate sull'ultimo numero di Alvento. «In volata posso anche giocarmela, ma volete mettere l'ebrezza di un arrivo in solitaria al traguardo?». Il succo del discorso, ma oltre al succo c'è tanta polpa. Almeno inizialmente avere compagnia è vitale per darsi cambi regolari e non cuocersi faccia al vento per ore e ore e per dare quella propulsione iniziale che serve a far passare ogni cattivo pensiero al gruppo. Il margine si dilata e poi gli altri dietro se vogliono si mettono giù pancia a terra a inseguire altrimenti si vola sino al traguardo. Cambi regolari inizialmente: un po' come dopo essere sbarcati su quell'isola deserta e aver organizzato bene il gruppo: chi cerca cibo, chi qualcosa per costruire un posto dove ripararsi. Fatta la capanna e trovate noci di cocco e insetti con cui sopravvivere almeno un po', Thomas De Gendt parla con gli altri Robinson Crusoe in fuga: «Non succede sempre in realtà. A volte facciamo progetti, altre volte non spiccichiamo parola» raccontava sempre sulle pagine di yellojersey.co.uk. che lo aveva intervistato nei giorni del successo al Tour 2019.

È il 13 luglio del 2019 quando individua la tappa giusta. Sceglie seguendo i diktat del suo “manuale per sopravvivere in una fuga”, sceglie – o meglio: gli capitano tra le ruote - uomini che più appropriati non possono esserci: Terpstra, singolare passistone olandese vincitore di una Roubaix e di un Fiandre, De Marchi, una sorta di De Gendt “de noantri” consapevole che in Friuli, da dove viene, non si dice così, e Ben King un altro del quale, tra storie personali fatte di bulimia («Una volta, avevo diciassette anni, mentre tornavo da un allenamento ho accostato e ho vomitato. Pensavo fosse il modo giusto per tenere tutto sotto controllo: divenne un'abitudine e quel problema iniziò a controllare me»), fughe, rivalse, fragole e sangue, si potrebbe stare qui a parlarne per ore.

Resta, De Gendt, con il solo De Marchi (era una tappa giusto a metà tra dura e abbordabile: ideale per una fuga da fare a pezzettini salitella dopo salitella) per poi lasciarlo inchiodato a terra sulla Cote de la Jaillere che osserva Saint-Etienne con fare quasi altezzoso.
Proprio su quella salita da dietro partono e lo spaventano due idoli di casa. Ce lo hanno a tiro. Lo vedono. Non lo riprendono. Braccia al cielo per De Gendt su quell'isola deserta mentre scruta le onde del mare che si infrangono davanti ai suoi occhi «È stato doloroso, ma bellissimo». Poche, semplici, lapalissiane parole.

E pochi giorni fa, sono ormai passati quasi due anni dall'ultimo successo, De Gendt ripete alla perfezione quella attrattive regole di sopravvivenza che da inizio stagione prova senza successo: in fuga prima all'UAE Tour e poi nella “sua” Parigi-Nizza, tenta in Catalunya dove ha già vinto quattro volte, tenta l'ultimo giorno arrivando a Barcelona nel circuito del Montjuïc dove ha già vinto una volta. Fuga numerosa, poi gli altri naufragano, lui allunga, si sbarazza dell'ultimo coraggioso e infine eccolo il colpo risolutivo. La caratteristica principale di quel caratterista della bicicletta.

Ps: a margine, visto che si parla di De Gendt, vogliamo farvi un annuncio: abbiamo acquistato i diritti della sua biografia. Sarà il primo titolo di un’esplosiva collana di storie di ciclismo. Restate sintonizzati.

Foto: Paolo Penni Martelli

 


Dalle guglie del Duomo allo Stelvio

Per Fabrizio Beyerle e Massimo Bonomi è iniziato tutto da un'esclamazione: «E noi cosa facciamo?». Partecipando, o semplicemente osservando, a diverse manifestazioni amatoriali di ciclismo, Fabrizio e Massimo hanno pensato che sarebbe stato il momento di inventare qualcosa di loro. Qualcosa che racchiudesse la loro idea di ciclismo. Così è nata l'idea della Duomo-Stelvio: una pedalata libera, da Piazza del Duomo fino a una delle cime più famose del mondo, il Passo dello Stelvio. «Ho origini tedesche, ma sono sempre vissuto a Milano. Per me pensare al Duomo vuol dire pensare a casa- racconta Fabrizio- in fondo, però, per ognuno di noi, da qualunque città provenga, ovunque sia nato, il Duomo di Milano è qualcosa di unico, un simbolo. E lo Stelvio? Il Passo dello Stelvio è la salita per eccellenza. Non è la più dura, ma senza dubbio è fra le più evocative. Tutti sanno cos'è lo Stelvio, tutti se lo immaginano appena ne sentono il nome. Per questo, il 24 luglio partiremo da sotto le guglie del Duomo e arriveremo lassù, in cima». Un'idea nata e portata avanti insieme ad una squadra di amatori: il Team 100.1. «Un nostro amico, ad ogni “pedalata”, deve percorrere sempre almeno cento chilometri, altrimenti si volta e fa il giro dell'isolato, pur di vedere quel numero sul contachilometri. Per questo ci chiamiamo così».

Questa volta i chilometri saranno 240, con ben 3400 metri di dislivello, più di 2400 nell'ultimo tratto, e un tracciato ben definito, spettacolare. «Siamo partiti all'alba di una mattina di settembre con macchina e bicicletta munita di Gps per disegnare nei dettagli il percorso e abbiamo scoperto o riscoperto paesaggi di cui spesso rischiamo di dimenticare la bellezza». Fabrizio racconta che Marco Saligari, durante una pedalata, qualche tempo fa, gli disse: «Mi raccomando, pedala con gli occhi» e da quel giorno lui si sente in dovere di raccontare a chiunque questo insegnamento che ha cambiato il suo modo di approcciarsi all'attività sportiva. «Spesso come amatori ci sentiamo dei fenomeni e dimentichiamo di guardarci attorno. È un grosso errore. Prendiamo il Sentiero Valtellina, la ciclabile che condurrà allo Stelvio partendo da Colico, sul lago di Como, e arrivando a Bormio. Si attraverserà diverse volte l'Adda su dei ponti dedicati che offrono scorci di rara bellezza, si transiterà in vecchi paesini in stile “L'albero degli zoccoli”, per poi inoltrarsi nei meleti. Da quelle parti si respira un profumo delicatissimo, sembra di sorseggiare succo di mela. E noi dovremmo perderci tutto questo per fare la corsa al miglior piazzamento o al miglior tempo?». La risposta è ovviamente negativa e, proprio per questo, Fabrizio e Massimo hanno pensato che non ci saranno premi, se non una medaglia di legno e l'iscrizione all'albo d'oro "Sovrano dello Stelvio". Per incoraggiare lo spirito di squadra saranno consentite staffette in modo da darsi il cambio durante il tragitto. «Non tutti sono allenati per simili distanze ed è anche giusto così. Darsi il cambio è un gesto molto importante nel ciclismo. Ogni staffetta sarà composta da tre persone di cui almeno una donna: anche questo è un messaggio a cui teniamo molto. L'importante è aiutarsi e arrivare. Chiunque arrivi può essere orgoglioso».

E Fabrizio se la immagina già quella mattina. «Quando i primi partecipanti arriveranno a Lecco, sarà mattina presto, intorno alle sette. Di fronte a loro si staglierà il Resegone ed a qualcuno verrà certamente in mente Alessandro Manzoni. Altri, magari stranieri, vedranno il lago per la prima volta, col sole alle spalle mentre chiacchierano con l'amico che pedala accanto. Così fino a Perledo e Varenna». Un'occasione unica perché, per gli ultimi cento chilometri, la pedalata sarà in mezzo alla natura, lontana dal traffico cittadino. «In un paese come il nostro, in cui l'insicurezza stradale è un vero e proprio dramma, credo che questa sia una possibilità importante. Per pedalare in tranquillità, senza paure e continuare a dare l'esempio. Io dico sempre che, come ciclisti, come parte debole, dobbiamo metterci nell'ottica di essere inattaccabili, di prestare la massima attenzione ad ogni dettaglio in modo da non lasciare alcun alibi agli automobilisti».

E fra tutti i ciclisti ve ne sarà uno speciale: Daniele Schena, soprannominato Stelvioman. «Parliamo di un uomo che ha scalato lo Stelvio ben quattrocento volte. Posso dire che per me è una questione di orgoglio pedalare accanto a lui». Solo ad una cosa Massimo e Fabrizio non vogliono pensare. «Abbiamo predisposto tutte le misure necessarie per evitare contagi da SarsCov2 e saremo rigorosi nel loro rispetto, ma questo pensiero non deve diventare assillante. Vogliamo credere che riusciremo a vivere questa avventura, con la leggerezza e la spensieratezza che la bicicletta consente. Finalmente all'aria aperta, finalmente assieme».

Già, perché Fabrizio ha iniziato a pedalare sin da ragazzo per un motivo molto semplice: «Non riuscivo a stare fermo così ho iniziato a pedalare. In famiglia lo sanno tutti e le mie nipoti, bambine che hanno dai due ai sei anni, appena vedono qualcuno in bicicletta, si girano verso i genitori e dicono: “Guarda il nonno”. Quale miglior modo di raccontare il ciclismo?».


Tutti gli ingranaggi di una bicicletta: intervista a Donato Pucciarelli

«Sono nato a Montelupo Fiorentino, il paese di Franco Bitossi». Donato Pucciarelli, meccanico dell'Androni Giocattoli Sidermec, racconta così la sua toscanità, il suo essere “fumino”, quell'accendersi per un nulla. «Fino a diciotto anni non sapevo nemmeno cosa fosse il ciclismo, poi ho iniziato a pedalare, ma erano i tempi di Battaglin, Moser, Baronchelli, era dura vincere». Sono passati gli anni, ma Pucciarelli sente come fossero ora le difficoltà di quei tempi. «Erano anni duri. Mio fratello aveva una bottega di biciclette e vi lavorava come meccanico, non c'era tanto tempo da perdere. La mia era una famiglia contadina e bisognava guadagnarsi la pagnotta. Dovevo pensare a lavorare, non potevo portare la bicicletta in giro per il mondo. Mi allenavo quando finivo il mio turno e nonostante questo i miei risultati li ho ottenuti. Poi ho scelto di smettere, pensavo al mio lavoro e a farmi famiglia. Non ho rimpianti sebbene chissà, se fossi diventato ciclista, cosa sarebbe successo».

Poi ci sono gli anni che passano e le cose che accadono. «Non ci pensavo più, quando una sera, nel 1988, passò da me Roberto Gargioli. Era stato ingaggiato dalla squadra di Gianni Savio, noi abitavamo vicini e a lui serviva un meccanico a pochi chilometri da casa». Cambia tutto nella vita di Pucciarelli. A partire dalla prima volta in cui si trova a dover preparare le biciclette degli atleti: «Accanto a me, c'era il meccanico di Pedro Delgado. Io non avevo ancora finito di preparare tutto il materiale, lui aveva già sistemato tutte le bici. Che frustrazione! Ma serve anche questo. La gavetta ti fa crescere umile». Ed è da quell'umiltà che Donato Pucciarelli ha tratto gli insegnamenti più importanti. «Con i corridori non bisogna mai discutere. Hanno già tante pressioni, ci mancherebbe solo le nostre. Il nostro compito è farli stare tranquilli. Io lo dico sempre: “Siamo tutti qui per lavorare, chiedete, parlate, non fatevi remore. Partirete più leggeri”.»
Così ha imparato a rispondere alle richieste più inconsuete, ad accontentare i ragazzi per tranquillizzarli. «Gilberto Simoni correva con sella storta e io gliela posizionavo così, limando l'archetto, perché lui si trovasse bene. Alcune volte i ragazzi vengono a chiederti di alzare il manubrio di un millimetro. Non lo percepiranno nemmeno, ma tu devi alzare quel manubrio perché psicologicamente per loro è importante. Attenzione, però, questo non deve diventare un alibi». Pucciarelli sta pensando ai corridori che dopo una sconfitta o un errore in gara, cercano una scusante nel mezzo meccanico e non si assumono le proprie responsabilità. «Non si divertono neanche più in bicicletta e tutti i problemi nascono da lì. Se non vi divertite, pur con tutta la fatica che si fa, non continuate. Fermatevi. Se vi rendete conto che non è il vostro ambito, non tirate a campare. Il ciclismo è una delle possibilità più belle, non imbruttitelo col vostro modo di fare. Lamentarsi fa male». Per contrasto pensa a Egan Bernal. «A lui andava sempre bene tutto, vedevi che era felice di fare questo lavoro. Non l'ho mai sentito lamentarsi una volta ed i risultati sono arrivati».

Il mondo dei meccanici è cambiato nel corso degli anni e Pucciarelli ha vissuto questa modificazione dall'interno. «Giancarlo Ferretti mi chiamava Tarzan perché in corsa facevo delle acrobazie tremende. Ho provato a cambiare il filo dei freni o la catena in ammiraglia. Non c'erano tutte le bici che abbiamo oggi e bisognava cavarsela. Se si rompeva un cerchio, la sera si prendevano i raggi e si faceva un cerchio nuovo, oggi si cambia la ruota. Non c'erano i rapporti di giusti per scalare il Mortirolo, così te li inventavi. Poi vincevi una tappa del Tour de Las Americas davanti ai grandi e ti scordavi persino delle notti insonni. Eravamo in pochi a lavorare sulle biciclette, non avevamo tutte le conoscenze dei giovani di oggi ma avevamo la pratica». Qui, Pucciarelli apre una parentesi. «Stare in giro per il mondo, a volte anche senza tutta l'attrezzatura necessaria, ci ha insegnato ad arrangiarci e a distinguere ciò che davvero è un problema da ciò che non lo è. Quante cose teoricamente sono in un modo ed in pratica sono all'opposto? Quando sei in viaggio, sballottato da un albergo all'altro, senza tempo, al caldo afoso della Francia o sotto un diluvio invernale, lo capisci e ti adatti».

Di tutti questi anni, Donato Pucciarelli avrebbe molti episodi da raccontare, per esempio di quando Gianni Savio lo affiancava mentre preparava le biciclette: «Mi veniva vicino e mi chiedeva di spiegargli cosa stavo facendo, che rapporti usavo o cos'era quello strumento che avevo in mano. Poi precisava: “Sai, se i ragazzi me lo chiedono devo saperlo”. Su un aneddoto, però, si ferma diversi secondi. «Non ricordo che anno fosse. Eravamo al Giro d'Italia e Massimo Ghirotto perse una tappa da Claudio Chiappucci. Arrivò stremato, mi si avvicinò e mi disse solo: “Puccio, non ce l'ho fatta. Non ce l'ho fatta”. Andò via. Quegli occhi li rivedo ancora».

Foto: Luigi Sestili


Roubaix 2016, la leggenda di Matt & Tom

Words: Alessandro Autieri
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Sono le 16.55 del 10 aprile 2016 quando i corridori in testa alla gara entrano nel velodromo di Roubaix. Il cemento dell’ovale rimbomba come un frastuono, il cuore degli spettatori, quello dei corridori, dei direttori sportivi, batte ritmato fino in gola, gli attimi diventano eterni, come il silenzio improvviso del pubblico che si rende protagonista di un involontario gioco coreografico.

Prima di quel momento ci sono le urla, quasi tribali, in attesa di questi eroi moderni fatti di pelle e bici che stanno per entrare da un momento all’altro; c’è un fitto viavai di giornalisti tra la sala stampa e il prato al centro del vecchio impianto sportivo che ospita l’arrivo della corsa. Sgomitano per accaparrarsi un posto in prima fila, per scattare la foto migliore o strappare interviste a caldo; c’è il farfugliare dei tecnici trepidanti per quello che sta per avvenire. Bandiere di ogni nazione che sventolano sugli spalti, striscioni dei fans club. Si prepara il podio e il trofeo da dare al vincitore: un’enorme pietra. Un sasso vero, estratto da uno dei tratti attraversati dalla corsa, un blocco di pavè lavorato dalla Marbrerie Slosse di Orchies. Poi cala il silenzio come una ghigliottina; una quiete quasi religiosa, un momento di catarsi, nell’attesa di capire chi entrerà per primo e chi la spunterà infine sulla linea del traguardo.

Un silenzio che d’improvviso si alterna a grida cadenzate, al sibilo delle ruote, a quei pensieri che si fanno quasi tangibili: arrivano i corridori! Tom Boonen sta per vincere la sua quinta Parigi-Roubaix; non potrebbe andare diversamente: chi può batterlo? Sta per entrare nella storia, nel giorno dell’ultima vittoria qui per mano del suo più grande rivale, Fabian Cancellara. Boonen si appresta a superare Roger de Vleminck, diventando il nuovo “Monsieur Roubaix”. Boonen e Roger, capaci entrambi di vincere quattro volte questa corsa, amata da una parte del gruppo, odiata da altri, assurta infine a vero e proprio mito: si dice che questa gara sia capace di cambiarti. All’interno del velodromo, per disputare le ultime centinaia di metri assieme, le vittime designate: Mathew Hayman, Sep Vanmarcke, Edvald Boasson Hagen e Ian Stannard, che lo seguono in questo ordine. Sono paggi, opliti o piccoli aiutanti: dategli voi una definizione. Sono il contorno accanto al piatto principale, attorno a Tom Boonen, così veloce allo sprint, che la gara appare come una mera formalità. Deve fare solo quello che gli è sempre riuscito benissimo in bicicletta. Vincere.

Compiègne. 10.10 del mattino. Nella piccola cittadina a settanta chilometri da Parigi si annusa l’aria dei giorni indimenticabili. È domenica, è giorno di festa, è la partenza della Roubaix, la chiamano tutti così, ancora più che Parigi-Roubaix; in confidenza come un’amica, una sorella, un ospite fisso, un cerchio rosso sul calendario. D’altronde dal 1977 si parte da qui e chiamarla Compiègne-Roubaix stonerebbe. Qui a Compiègne la regina delle classiche è più importante di ogni altra cosa. Cosa, non corsa. È più importante del Natale, del santo patrono, di un battesimo o di un matrimonio, di un incontro pubblico tra presidenti, di Napoleone, del Tour, del rugby e del golf, persino del castello, che fu residenza reale di Luigi XV e ora è simbolo della cittadina francese. È domenica. C’è la Roubaix, ma le fabbriche vanno avanti. Nicolàs aveva chiesto la giornata libera, ma al lavoro è l’ultimo arrivato, il più giovane, e gli anziani si sono fatti cambiare di turno. Voleva seguire almeno la partenza, portare suo figlio piccolo a vedere i corridori, sventolare una bandiera e fare un paio di foto, racimolare qualche ricordo, un cappellino, un autografo, ma non gli è possibile, sarà per un’altra volta. Jacques, folte sopracciglia grigie, sguardo inossidabile, giaccone bombato nero, va alla partenza, invece, ma registra ugualmente la gara, anzi se la fa registrare da suo nipote, non è molto ferrato con la tecnologia; non ama nemmeno troppo i corridori di oggi, ma non potrebbe perdersi per nessun motivo al mondo la Roubaix.
«De Vlaeminck, Merckx, Moser, quelli sì che erano corridori. Queste sono fighette, di buoni ce ne sono giusto un paio» brontola, e anche se non cita i loro nomi, avrà pensato a Boonen, Sagan o Cancellara tra i corridori da salvare.

E la partenza è gremita di gente. Fa un discreto freschetto, di quello che penetra nelle ossa e ferisce le mani. Ma c’è un sole che splende – mentre il giorno prima pioveva e all’alba di quest’oggi una fitta nebbia aveva offerto un tetro buongiorno a tutti i protagonisti. Sole; come ormai accade ogni anno alla Roubaix: una sorta di maledizione al contrario. Non sono solo i tifosi, sadici, a volere una corsa bagnata, ma anche i corridori, masochisti, perché sanno che con le pietre bagnate aumenta il rischio, sale l’incertezza, ma chi va davvero forte sul pavè può fare ancora di più la differenza. E poi quei corridori spesso criticati per il loro essere a volte così pavidi qui si sentono tutti degli eroi. E cosa c’è di più eroico della sopravvivenza a una Roubaix bagnata tra pietre scivolose e fango.
L’ultima Roubaix bagnata è leggenda ormai, fa parte della letteratura di questo sport; era il 2002 e vinse Johan Museeuw per la terza e ultima volta in carriera, a pochi anni da quella infezione rimediata nella Foresta di Arenberg dopo una caduta che quasi gli costava l’amputazione di una gamba. Al terzo posto arrivò Boonen, che correva per la prima volta su quelle strade come professionista.

Boonen, che più tardi sarà conosciuto come Tornado Tom, doveva essere un punto d’appoggio del suo esperto compagno di squadra Hincapie, ma l’americano finì in un fosso: scene tipiche da Parigi-Roubaix. Lui invece si abbatté sulla corsa, così giovane e spavaldo, come solo a quell’età può succedere; belga in una squadra americana, con una personalità indemoniata, incendiaria, con la confidenza di colui che vuole dominare le pietre. In Belgio lo amano già e iniziano a sfregarsi le mani su quel talento incredibile. Immaginatevelo: alto, belloccio, elegante, veloce; è nato a Mol, nelle Fiandre, nemmeno troppo lontano da Compiègne. Alla fine di quella Roubaix le facce dei corridori saranno maschere di fango, alcune inespressive, altre addolorate, sculture scolpite nella creta; saranno facce bagnate fradice; consuetudine fino ad allora, come non lo sarà mai più in tutte le successive edizioni. Finita la gara si va dritti sotto la doccia; già, quel posto diventato mitico, che riempie di leggenda quello che già è intriso di mito. Le docce del velodromo: un posto freddo, austero, «ma è un bel modo per finire una gara dannata. Perché dovresti avere un bel posto, comodo, in un box per fare una doccia dopo duecentosessanta chilometri di inferno?».

È un vecchio edificio con l’intonaco scrostato, le postazioni doccia sono adiacenti l’una all’altra e per ognuna una targhetta ricorda il nome di un vincitore di questa gara chiamata “l’Inferno del Nord”. Dove c’è il nome di De Vlaeminck ci sono segnate quattro date come le sue quattro vittorie, mentre nel 2002 il nome di Boonen ancora non c’è, ma ci sarà presto, eccome se ci sarà. In quel posto si va per levarsi di dosso il dolore, le pene, ma anche per far parte di una tradizione, come un segugio che rievoca istinti primordiali e che ulula alla luna come prima di lui i suoi antenati. Ci si potrebbe tranquillamente togliere lo schifo da dosso lavandosi nelle comode docce a disposizione nei bus delle squadre, ma via! Che Roubaix sarebbe senza una doccia post-inferno? E poi le immagini dei corridori immortalati in quel posto fanno parte di archivi da consultare per riscoprire la memoria, anche recente, di questo sport crudele. Come quella che raffigura George Hincapie, una celebre foto risalente proprio a quel 2002, seduto, ancora vestito, su un predellino di legno e metallo. Le sue gambe sono completamente incrostate, ricoperte di fango indurito. Si tocca il naso con il palmo di una mano, strizza gli occhi un po’ per la fatica, un po’ per la delusione. Parcheggiata di fianco a lui la sua bicicletta, della quale si riconosce solo il numero di partenza attaccato sotto il tubo orizzontale: numero 101; per il resto anche il suo attrezzo è irriconoscibile come se avesse attorno un sarcofago di melma. Tutto questo attende i corridori dopo cinque, sei, sette ore di corsa.
Ma torniamo a quella mattina del 10 aprile 2016 a Compiègne, nord-est della Francia. Sono passati pochi minuti dal raduno attorno alle transenne che delimitano la piazza centrale della cittadina francese. Il cielo ora si copre di nuvole. I commissari di gara controllano che le bici siano regolari, che non ci siano elementi strani, motorini nascosti: circolano queste voci in gruppo da un po’ di anni. Quando Cancellara nel 2010 vinse nel giro di una settimana, Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix si sollevò un polverone che in confronto la sua azione, a cinquanta chilometri dall’arrivo nel velodromo Jean Stablinski, sembrò una semplice sgasata. Il suo dominio per qualcuno era un bluff. La RAI montò un caso con Davide Cassani e Alessandro Fabbretti che realizzarono un servizio spiegando la generica possibilità di montare un motorino su una bici da corsa e che fece il giro del mondo ciclistico; su YouTube altri provarono invece a ricostruire i fatti attorno ai due successi dello svizzero. Si arrivò ad esaminare i fotogrammi che, secondo gli autori dei filmati, avrebbero inchiodato Cancellara, reo di aver azionato il motore sul muro di Grammont al Fiandre e poi alla Roubaix: “guardatelo mentre schiaccia il bottone e la sua bici accelera misteriosamente”. I complottisti delle due ruote influenzeranno anche i suoi rivali, soprattutto il suo rivale di sempre, quello con cui se le dava di santa ragione in bicicletta sin dalla più tenera età, quando i due avevano uno sedici, e l’altro diciassette anni. «Se penso che sul successo di Cancellara al Giro delle Fiandre 2010 ci siano dei dubbi? Sì, ma è inutile dire altro. Io arrivai secondo e lui fu il più forte. Ormai è tardi, per tutto» disse un giorno Tom Boonen.

Tuttavia, eccoli i corridori che si allineano alla partenza. C’è proprio Cancellara, uno dei favoriti; ha annunciato che a fine stagione abbandonerà il ciclismo. Curvo sulla sua bicicletta, avvolto nella maglia bianca della Trek Segafredo, è concentrato, quasi fino alle lacrime. Tremendamente umano, anche se non si direbbe a scorrere il suo palmarès. È nato in Svizzera, ma è di chiare origini italiane. Suo padre, Donato, arriva da San Fele, provincia di Potenza, un nome di città che ben si addice a definire il suo motore. Potente in pianura, così efficace sul pavè che quando attacca sembra trasformarlo in asfalto. Stantuffo cadenzato come il pistone di un enorme motore (nessuna allusione), a volte inscalfibile come un aggeggio fondamentale nella prima rivoluzione industriale, oggi non fa nulla per nascondere le sue emozioni. Indossa un paio di guanti neri, pesanti, che probabilmente si sfilerà dopo il via: ogni precauzione è dovuta per via del freddo che colpisce. Allineato alla partenza, in maglia iridata c’è Peter Sagan: strano destino il suo. Guascone, lo definiscono, forte e talentuoso all’inverosimile, più genio che irregolare, in carriera ha già vinto tanto quanto pochi altri, per molti è un tipo irriverente, ma in realtà è un personaggio che fa bene al ciclismo. E che quando non ci sarà ne avremo tutti tremendamente bisogno. Non si prende mai troppo sul serio, a differenza nostra, e dà spettacolo in corsa e fuori. Sagan, sette giorni prima di questa Roubaix, conquista la sua prima Monumento e lo fa da campione del mondo in carica, vince il suo primo e unico Giro delle Fiandre: batte Cancellara, annichilisce ogni avversario. Eppure divide, non solo i tifosi, ma anche i tecnici: per un paio di stagioni la squadra non gli fa disputare la corsa, eppure lui, che arriva dalla mountain bike, sul pavè sa stare benissimo, guida la bici come pochi e oggi, su queste strade, insegue una clamorosa accoppiata in maglia arcobaleno sfuggita persino a Eddy Merckx.

Sono i due favoriti Sagan e Cancellara; i successi dello svizzero e la straripante personalità dello slovacco, a tratti sembrerebbero non portare nessun rispetto nei confronti del terzo favorito: quel ragazzo sorridente in maglia blu scura marchiata Etixx-Quick Step, che si aggira tra le vetture delle squadre rilasciando serene dichiarazioni ai microfoni. È Tom Boonen quel ragazzo, anche se ormai non è più un ragazzo. Ha dovuto pagare lo scotto alle debolezze e al successo che possono travolgerti e rivoltarti come un calzino. Ha ceduto al maledetto fascino della cocaina ed è stato pizzicato positivo per ben due volte nel 2008 e nel 2009, la seconda a pochi giorni dalla conquista della terza Roubaix. Probabilmente, dirà poi, dopo aver festeggiato troppo al pub. Mazzate che lo hanno fatto crescere, lo hanno reso uomo, parole sue. «Non credo di avere un problema di dipendenza dalla cocaina, ho problemi quando bevo troppo» raccontava tempo fa. «Trecentosessantaquattro giorni all’anno sto bene, ma se bevo troppo qualcosa cambia nella mia testa. Ho bisogno di aiuto e qualcuno dovrebbe aiutarmi a capire cosa succede quando bevo troppo. Se continuerò a essere un ciclista? Non è un problema che al momento mi tocca, mentre la cocaina è un problema che riguarda tanti. È ovunque, davvero ovunque. Non ha a che fare con i soldi, la celebrità o il ciclismo, ma è un problema di tutti, un problema della vita di tutti i giorni, tra i giovani, ma non solo».

Al via sorride Tom Boonen, scambia chiacchiere con colleghi e giornalisti, ha il volto tranquillo e soddisfatto. Ha vinto la Roubaix nel 2005, nel 2008, nel 2009 e nel 2012 – «Quel giorno volavo, potevo fare qualsiasi cosa», ma per lui essere alla partenza oggi assume i contorni del miracolo. Pochi mesi prima, siamo a ottobre, seconda tappa dell’Abu Dhabi Tour, Tommeke – è il suo vezzeggiativo – cade rovinosamente a terra. Batte il capo, ne uscirà malissimo. Sviene, il sangue sgorga dall’orecchio e macchia la maglia verde della classifica a punti che indossa quel giorno. Tredici centimetri di frattura cranica, danni permanenti all’udito, il monito dei dottori: «Per almeno sei mesi non potrai gareggiare». Dopo due mesi sale ugualmente in sella alla sua bici e dichiara che a fine carriera si dedicherà ai motorsport: «Il sogno sarebbe la 24 ore di Zolder» racconta «È vicino casa, farei divertire famiglia e amici». La mattina della Roubaix gli arriva un messaggio sul telefono: è il medico che lo ha curato subito dopo l’incidente: “Oggi sarebbe stato il primo giorno nel quale saresti potuto salire sulla tua bici” c’è scritto. «Sono in anticipo con i programmi, no?» rivela, schietto.

Sono circa le undici del mattino ora a Compiègne e sono centonovantasei i corridori al via: moltitudine di colori, bici e nazionalità. Indossano quasi tutti guanti termici e manicotti che via via verranno riportati in ammiraglia. Grida ovunque. Quelle del pubblico, eccitato. Quelle dei freni, sovraesposti, che sibilano: sembra il miagolio di centinaia di gatti. Applausi scroscianti, incitamenti. Tra i centonovantasei ci sono praticamente tutti quelli che ti aspetti, manca Van Avermaet che pochi giorni prima al Giro delle Fiandre si è schiantato e ne è uscito tutto rotto e manca pure il campione uscente John Degenkolb. A gennaio, mentre si stava allenando con altri compagni di squadra ad Alicante, è stato investito dall’auto guidata contromano da un’anziana signora inglese, che era convinta di essere nella corsia giusta – guidava come fosse in Gran Bretagna. Diverse fratture, cicatrici, un dito penzolante, poi riattaccato: John Degenkolb è un ciclista come tanti altri, ovvero un sopravvissuto. E così che la conta dei favoriti si allarga leggermente rispetto a Boonen, Cancellara e Sagan in rigoroso ordine alfabetico. Quei nomi da tenere d’occhio sono Terpstra, Stybar, Vanmarcke e Kristoff. Attenzione però: se c’è una corsa che può premiare un outsider questa è la Parigi-Roubaix, pardon, semplicemente la Roubaix. Dura, tormentata, ma così ricca di pericoli improvvisi e inaspettati che non sai mai chi potrebbe spuntarla, non sai mai come potresti arrivare all’ultima curva. Pur prendendoti cura delle tue gambe rischi di rimanere all’improvviso svuotato di ogni energia. Certo è che tra i favoriti, ma neppure tra gli outsider, ti sogneresti mai di inserire Mathew, detto Matt, Hayman.

Si parte con una decina di minuti di ritardo rispetto alla tabella di marcia: il vento a favore rischia di far andare i corridori troppo forte e di far saltare i piani all’organizzazione. Quali piani vi starete chiedendo? Alla Roubaix c’è sempre il rischio di trovare le sbarre del passaggio a livello abbassate, come in una giornata di lavoro qualunque: per questo si cerca di calcolare tutto al millesimo. È bagarre sin da subito, sfuriate su sfuriate che sembrano non voler attendere nemmeno i ventisette settori in pavè di cui è disseminata la corsa; i tratti più attesi sono lontani dalla partenza e puntano come una luce infernale verso l’arrivo: sono differenziati tra di loro da un numero progressivo di stelline di difficoltà: una stella significa che è un tratto semplice, cinque significa che se ne hai, fai la differenza, altrimenti maledici il momento in cui hai scelto di fare il corridore. Il settore più atteso, più duro, più simbolico è la foresta di Arenberg: cinque stelline, manco a dirlo. Tutto dritto, in leggera discesa, definito anche Tranchée d’Arenberg, perché la sua cupezza ricordava i condotti tagliati dalle trincee durante la Prima Guerra Mondiale. È un posto lugubre che solo in uno sport tremendo come il ciclismo poteva assurgere a simbolo, solo all’interno di una corsa infernale poteva diventare decisivo. Duemilaquattrocento metri di strada in mezzo a un bosco, col pavè viscido: quando esci da lì rischi di essere un’altra persona. Mancano poco meno di un centinaio di chilometri al traguardo quando viene affrontato, la corsa, però, è già cambiata, già esplosa. Avevano attaccato, sin da subito, venticinque temerari, poi ridotti a sedici, infine ancora di meno: la Roubaix è una corsa da bastone e denti aguzzi e solo i più forti, solo i più rudi, ce la fanno.

Cadute a ogni settore in pavè, forature; si fa la conta di chi c’è e chi non c’è, ma si capisce poco o nulla. Moto e auto tirano su polvere, ai bordi della strada c’è ancora fango che si mescola alla gente, che riempie le strade come la curva di uno stadio sudamericano. Bandiere fiamminghe, francesi, svizzere, italiane, persino dell’Ucraina a onorare Yaroslav Popovich che ha scelto proprio la Roubaix per lasciare il ciclismo dopo quindici anni, ed è persino in fuga. Popovych passò professionista con la nomea del nuovo Cannibale, del nuovo Eddy Merckx, si accontentò di uno stipendio importante e di diventare un buon gregario. Nel gruppo davanti qualcuno che può far paura c’è: il francese Chavanel su tutti. Definito da Lefevere “il più fiammingo dei francesi”, in Belgio lo chiamano “La Machine” e in Francia prima di chiamarlo semplicemente ChaCha, lo definiscono barodeur ovvero attaccante, fuggitivo. In mezzo agli Chavanel e ai Popovych, anche un italiano, Puccio, uno spagnolo, Erviti, e c’è pure Hayman e no, nemmeno stavolta lo vedi favorito.

Mathew Hayman arriva dall’Australia, ha trentotto anni e in carriera ha vinto solo tre corse: una in Germania nel 2005, i Giochi del Commonwealth l’anno dopo e nel 2011 una piccola corsa in linea francese: la Paris-Bourges. È uno che nel ciclismo si è sempre sbattuto per gli altri, gregario si definirebbe. È un uomo-squadra, appariscente più per la sua statura, che per i suoi risultati. Grande, possente, è un collante all’interno del suo team, l’Orica GreenEdge. Ha aiutato velocisti, uomini da classiche e scalatori. Quella che sta disputando è la sua quindicesima Roubaix che per lui è la corsa dei sogni; è stato ottavo nel 2012, decimo l’anno prima, ma è anche finito fuori tempo massimo una volta: era il 2002, l’ultima Roubaix bagnata, ricordate? Qualche settimana fa, durante la prima gara stagionale sul pavè in Belgio, Hayman cade e si frattura il braccio destro. Lo portano via in ambulanza e deve dire addio alla sua Campagna del Nord. Gli suggeriscono di prepararsi per il Giro d’Italia, di togliersi dalla testa l’idea di correre la Roubaix, esce persino un comunicato ufficiale della sua squadra che annuncia la sua assenza dalle pietre del nord. Con il tipo di incidente che ha avuto rischierebbe di cadere e di peggiorare la sua situazione fisica e di essere persino un pericolo per gli altri. Non ci sta, Mathew, si butta sui rulli allenandosi come un matto per mantenere la condizione; si costruisce una postazione fai-da-te in casa con una scala dove poter poggiare il braccio ingessato, restando in posizione aerodinamica. Una volta tolto il gesso si testa in Spagna in un paio di corse, poi fa una ricognizione sul lastricato della Roubaix, non sente dolore nemmeno con le vibrazioni trasmesse dalle pietre al braccio, e così decide di prendere il via alla corsa.

E con questo preambolo: come fa a far paura Hayman lì davanti? La squadra di Boonen fa corsa dura per ripiombare sulla fuga. Tony Martin distrugge il gruppo come se fra le mani avesse un’ascia e non una bicicletta. È una corsa folle. Fratture in gruppo, a inizio gara persino ventagli come fosse una tappa del Tour. Una caduta frena Cancellara, quando siamo ancora lontani dall’arrivo. Resta intruppato anche Sagan. La loro corsa è praticamente finita.

15.26: mancano circa sessantatré chilometri all’arrivo. Eccola la fuga da lontano che perde pezzi e si rimescola con il gruppo dei migliori tirato sempre da Tony Martin; negli anni Martin si è fatto il nome di Panzerwagen talmente forte va in pianura. Dentro ci sono Boonen, Rowe, Stannard, Boasson Hagen, Vanmarcke, Haussler, Moscon e altri. Allunga Stannard, lo segue Vanmarcke e mentre da dietro sembra ormai a compimento il miracoloso inseguimento di Cancellara e Sagan, lo svizzero scivola a terra, Sagan, funambolico creatore di illusioni, lo salta con tutta la bicicletta, ma non serve a nulla, ormai è tagliato fuori. È un via vai continuo lì davanti mentre la coda si sgretola; altre cadute, curve impolverate che si alternano a pozzanghere da evitare. Il pubblico è una scenografia tutta da vedere: c’è una banda davanti a un piccolo edificio con i mattoni rossi e una scritta che sa di antico, la banda intona “When the saint go marching in” al passaggio dei corridori. Vengono incitati tutti: i primi lo vediamo grazie al favore delle telecamere, gli ultimi, persino quelli davanti al carro scopa, ce lo possiamo immaginare. A casa sul divano c’è da stringere i pugni fino a romperseli per la tensione.

16.29 è ormai passata un’ora. Un’ora in cui poteva succedere di tutto ed in effetti succede di tutto. Diranno: “È stata la corsa di un giorno più spettacolare degli ultimi vent’anni”. Restano in cinque a venti chilometri dall’arrivo: Stannard, Hayman, Boasson Hagen, Vanmarcke e Boonen. Pensate: nemmeno ora Hayman lo potremmo immaginare come favorito. Ci si marca, si fa l’elastico, ci si prova, ci si arrende, si arranca, ci si accuccia, si bluffa, c’è un attacco dietro l’altro, ci si guarda e si rallenta per far chiudere al tuo avversario il buco propiziato da un allungo, si teme ogni centimetro di strada, ed è così che scivolano via anche gli ultimi ventimila metri di corsa. Tra un potente allungo di Stannard, un guizzo dietro l’altro di Vanmarcke, mentre Boonen controlla e Boasson Hagen anfana come un vecchietto costretto a salire al quinto piano con la spesa, Hayman sornione centellina ogni energia, si alimenta bene, scruta gli avversari, sa che questa è un’occasione incredibile e irripetibile.

Superato il quart’ultimo settore, Le Carrefour de l’Arbre, spesso così decisivo, Vanmarcke sembra sfoderare il colpo risolutivo. Non è così; non lo è nemmeno qualche minuto dopo quello di Boonen, né di nuovo quello di Vanmarcke, né quello di Boasson Hagen. Ci prova persino Hayman a 4,4 chilometri dall’arrivo su un tratto di strada impolverato e che tira leggermente all’insù. A 2,2 dall’arrivo Boonen si gioca la carta della disperazione: ma come? È il più veloce, perché lo fa? Forse non si sente troppo bene e attacca con l’azione degna di un finisseur. Hayman chiude su di lui, si danno un paio di cambi, Stannard dietro non ce la fa più. Sono le 16.55 e si entra nel velodromo.

C’è silenzio. C’è una curva che potremmo definire: Curva Cancellara. Un enorme striscione in tributo allo svizzero con scritto GO CANCELLARA GO. Il fiato è sospeso come ogni giudizio su quello che sta per accadere. Entra per primo Boonen, alla sua ruota, concentrato, Hayman, poi Vanmarcke in terza ruota ha i denti stretti, è affaticato, ha fatto uno sforzo enorme per dribblare Stannard e chiudere sui due davanti. Percorrono un giro all’interno dell’ovale, suona la campana che indica l’ultima tornata, inizia un grido di guerra cadenzato dagli spalti mentre i tre davanti si allargano, rallentano, arrivano a tanto così dalla balaustra che li divide dal pubblico. Boasson Hagen in maglia di campione di Norvegia riporta sotto Stannard.

16.56: Boonen è ancora davanti, stringe alla corda, si guarda indietro e davanti, tutti pensano: ormai è fatta! Eccolo sta per vincere la quinta Roubaix, nonostante le gambe intorpidite, e ci vorranno forse altri venti o trent’anni prima che qualcun altro possa eguagliarlo. Tutti si sbagliano. Hayman, sornione come un enorme gatto, supera a destra Boonen; il belga guarda dietro come a voler prendere la scia dell’australiano; Vanmarcke non chiude, da dietro arriva Stannard a tutta velocità, i due provano ad affiancare Boonen, ma l’interesse è tutto qualche metro più avanti, a quei due. Al campione belga e al carneade australiano. Hayman guida, chiude leggermente la corda, ai 100 metri è davanti di una bicicletta, Boonen non riesce a passare e sul breve rettilineo del velodromo cerca spazio sulla destra allargandosi. Non solo manca lo spazio e il tempo, non ci sono gambe per passare. Hayman vince. Prima allarga le braccia come un enorme Cristo, poi si mette una mano sulla testa, quasi non riesce a sorridere, incredulo. Boonen china il capo: sconfitto. Sagan sarà 11° a 2’20”, Cancellara 40° con un ritardo di 7’35”. Per lui il danno e la beffa, cercando conforto dai suoi tifosi cadrà di nuovo a terra.

Hayman non ci crede, così poco avvezzo alla vittoria, figurarsi ad una Roubaix. Tutti volevano fosse Boonen a vincere, in parte persino lui. «Una parte di me si è sentita male per aver vinto» dirà. Il pubblico non capisce, come non capisce Hayman che scuote la testa per la seconda volta in pochi minuti. La prima a un chilometro dal traguardo quando Boonen gli chiede un cambio.
«Gli ho fatto no con la testa: ho preservato le energie per la volata».
A fine corsa l’unico belga in tutto il mondo contento per la vittoria di Matt sarà proprio Boonen.
«È venuto da me subito dopo la corsa, abbracciandomi e complimentandosi. Amico mio – mi ha detto – te lo meriti».

Hayman correrà altre due volte la Roubaix arrivando a diciassette partecipazioni: recordman assoluto insieme a Frédéric Guesdon. Il suo nome resterà per sempre legato a questa corsa. Come lo resterà quello di Tom Boonen, che l’anno dopo correrà su queste strade per l’ultima volta in carriera, finendo tredicesimo.


La verità di van Aert, gli inganni del Nord

La Gand-Wevelgem è una corsa che tesse inganni. Sono poco più di ventotto i chilometri da Ypres a Wevelgem, il percorso, invece, si snoda in un budello attorcigliato che somiglia a una litania dolente. Scherpenberg, Vidaigneberg, Baneberg, Monteberg, Kemmelberg e si torna a ripetere ogni muro, senza logica e senza ordine.

Il vento oggi è un dinamitardo impazzito che imperversa da destra a sinistra, da sinistra a destra. I ventagli sono l'unica possibilità per non esserne respinti, assecondare la rabbia dell'aria, le sue sberle, per restare attaccato alla ruota che hai davanti e che sembra sempre più distante. Chi perde un metro non lo recupera più. Così il gruppo si disperde in tanti rivoli, ferito irrimediabilmente, smembrato.

Mancano ancora cento chilometri all'arrivo e davanti sono solo venti uomini a giocarsela senza ritegno. Tra di loro Wout van Aert, Matteo Trentin, Michael Matthews, Stephan Küng, Sam Bennett, Sonny Colbrelli e Giacomo Nizzolo. Procedono veloci, appaiati, quasi raggruppati, si scrutano, si controllano mentre la sabbia alzata dal vento sembra risucchiata dal cielo e le pietre stortano le bici e le bocche che in certi istanti sembrano deformarsi, il ghigno della fatica. Dietro gli inseguitori cadono nella ragnatela della menzogna del tempo, di quel minuto di distacco che sembra poco e invece è troppo: così Štybar prova a rientrare con Ballerini, così Van Avermaet e Arnaud Démare sgasano a vuoto, illudendosi ed illudendo.

Wout van Aert è un attore alla prova generale al secondo passaggio sul Kemmelberg. Chissà cosa avranno pensato quelli che gli erano a ruota, mentre il respiro faticava a salire. Chissà cosa avrà pensato Bennett ad ogni curva, ad ogni discesa, ad ogni strappo, mentre il suo stomaco sembrava ribaltarsi per gettare fuori qualcosa di indigesto. In certi momenti la verità non è ammessa, bisogna fingere e far credere agli altri che è meglio che ti temano perché in volata sei più veloce. Anche la paura può spezzare le gambe, in questo spera Sam Bennett.

Sarà un nuovo attacco di van Aert sul Kemmelberg a lacerare ogni finzione. Bennett resta in coda, perde dieci, quindici metri. La nausea si trasforma in conato di vomito, sembra una liberazione, nonostante il tremore e la debolezza. È questa la forza che gli permette di tornare in testa a tirare, come se niente fosse successo. Sta mentendo l'atleta Quick Step ma il corpo non lo inganni, le viscere sentono tutto. Sembra una Pietà quando si sfila, testa bassa, poi alta, poi di lato, sudore freddo e gambe ferme. A raccattare ossigeno chissà dove per non fermarsi e buttarsi a terra.

Ci si avvicina sempre più a Wevelgem. Van Aert parla con il compagno Van Hooydonck: a tutta, andatura alta per scongiurare attacchi. Chi prova, rimbalza. Lo sa bene Küng che è l'enigma dell'impotenza quando prova ad allungare all'ultimo chilometro come quando parte lungo, troppo lungo, ai quattrocentocinquanta metri dalla linea bianca del traguardo.

Non c'è più tempo per aspettare, le gambe scalpitano nervose. Van Aert lancia la volata a centro strada e non c'è più storia che tenga. Sembra tutto facile anche se facile non è, dopo duecentocinquanta chilometri. Nizzolo e Trentin partono dal fondo, quasi sollevano la bicicletta dai colpi che danno sui pedali, rimontano tutti, non lui che fa corsa a parte. Lui che ringrazierà il compagno di squadra, che dirà che è stata dura, durissima, perché, quando si è solo venti in gruppo, quel vento contrario devi affrontarlo a viso aperto a costo di sembrare incosciente. E poi quel «sono felice», che spesso non si ammette, che si ritiene scontato, ed invece oggi sì, come una liberazione dalla fatica. Perché la fatica rende tutto tremendamente vero, nel senso di onesto, spietato, anche crudele, se volete. Come una bicicletta, come un uomo.Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021