Verso Tokyo e oltre: intervista a Dino Salvoldi

L’esplosione della pandemia da Sars-Cov2, la scorsa primavera, ha scombussolato anche i piani della nazionale italiana femminile su pista, il tutto alla vigilia delle Olimpiadi di Tokyo, poi slittate al 2021. Non appena è stato possibile tornare ad allenarsi a Montichiari, Dino Salvoldi, C.T. della nazionale, ed il suo staff, hanno avuto subito chiara la necessità di variare l’intensità degli allenamenti. Ed è proprio da qui che siamo partiti, quando, durante il raduno del 24 febbraio al velodromo di Montichiari, il C.T. ha approfondito con noi lo stato dell’arte della pista femminile, in questa stagione divenuta per cause di forza maggiore, anno olimpico. «In questo periodo tutto ciò che si programma deve tenere presente un calendario in continua modificazione. Se è vero che l’Olimpiade è il traguardo finale, è altrettanto vero che gli step per raggiungerla nella miglior condizione possibile passano tanto attraverso gli allenamenti quanto attraverso le competizioni ed entrambi sono essenziali per mantenere alto sia il livello tecnico-tattico che quello più prettamente prestazionale».

Per quanto concerne il primo punto, Salvoldi si ritiene soddisfatto degli accordi raggiunti con le squadre delle ragazze: durante la settimana i team danno piena disponibilità alla federazione per i raduni, di durata più breve, e durante il fine settimana la federazione si impegna a favorire lo svolgimento delle gare con i club di appartenenza.

«Si tratta di un fattore storico, nessuna invidia per l’erba del vicino ma le situazioni sono differenti. Nazioni come Stati Uniti, Canada e Australia, le potenze della pista, hanno una squadra che lavora tutto l’anno insieme e che dà priorità alla pista. Da noi questo non è possibile in quanto la prevalenza della strada si fa sentire. Bisogna accettare questa situazione e lavorare con più intensità dove necessario. Soprattutto, dopo che durante il primo lockdown, con l’uso e talvolta l’abuso di cicloergometri e rulli si sono verificati importanti squilibri fra chi si era allenato troppo e chi si era allenato troppo poco». Questa intensità Salvoldi la traduce tanto in un aumento del numero di raduni, quanto in una spiccata attenzione ai dettagli tecnici che possa, almeno momentaneamente, supplire al secondo punto, ovvero al calendario scarno. «Stiamo lavorando sul quartetto, con allenamenti di squadra che potenzino la resistenza. Nel mentre simuliamo anche frazioni di gara, per valutare la forma fisica, compatibilmente con il periodo dell’anno in cui ci troviamo. Dall’altra parte, invece, ci concentriamo sulle qualità aerobiche e sul gesto tattico. La nostra squadra ha un livello molto elevato e la simulazione di una gara internazionale in velodromo non si disgiunge molto dalla realtà». Il calendario ha già fatto segnare i primi rinvii: i campionati europei su pista previsti per febbraio saranno a giugno, mentre le prove di Nation Cup previste, una al mese, da aprile a giugno sono ancora incerte. In più mancano tutte le gare di Madison che si sarebbero dovute tenere in Europa e che subiscono cancellazioni quasi quotidianamente.

Rachele Barbieri: sguardo fisso verso gli obiettivi stagionali.

«Questo per noi è un grosso problema. Il talento qui abbonda ed i risultati parlano per noi, a scarseggiare è l’esperienza. Si tratta di un gruppo molto giovane ed in questi casi non c’è nulla come la specificità e la ripetitività di ogni singolo meccanismo per imparare. Più un’atleta è abituata ad un frangente di gara, più riesce a economizzare sul gesto tecnico, a risparmiare energie e nel contempo ad acquisire quell’occhio e quell’istinto che al cospetto delle eccellenze mondiali fanno la differenza. L’esperienza si acquisisce con lo scorrere del tempo e con gli errori, bisogna solo aspettare e non allentare l’attenzione». Nonostante questo, Dino Salvoldi lo dice in maniera chiara e schietta: non sono ammessi alibi ed è necessario farsi trovare pronti a qualunque situazione. «Non siamo gli unici ad essere in questa condizione, la pandemia ha colpito tutti. Per questo bisogna continuare a credere nel lavoro quotidiano insieme, dandosi dei traguardi a breve e a lungo termine. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno e credo tutti abbiano questo dovere. Per assurdo questo rinvio delle Olimpiadi potrebbe non essere un male: in questo anno il gruppo si è ampliato, sono arrivate ragazze nuove che stanno crescendo con noi. Per fare dei nomi: atlete come Chiara Consonni e Silvia Zanardi, che un anno fa non avrebbero avuto alcuna possibilità di convocazione, oggi sono fra le papabili azzurre olimpiche».

Questo, però, continua Salvoldi non deve indurre in un errore comunque grave. «Quando mi chiedono cosa mi aspetto dalla Olimpiadi di Tokyo rispondo sempre che per noi devono essere un passaggio chiave in vista di Parigi. Non sappiamo neanche noi cosa possiamo fare esattamente. Nel quartetto credo che si sia indietro rispetto ad altre nazioni. Per quanto concerne invece Madison e Omnium il livello è già pienamente soddisfacente. Il punto cruciale sono le altre discipline veloci che al momento, stante il regolamento in vigore, non ci permettono di avere atlete al via. Questi allenamenti servono anche a potenziare quegli aspetti e a far vedere quanto possiamo dare. La giovane età si fa sentire anche in questo frangente». Il gruppo ha un’età media molto bassa, basti pensare che la ragazza con più esperienza è Maria Giulia Confalonieri che ha appena ventotto anni, ma si conosce e lavora assieme da molto tempo, per Salvoldi questo è un punto a favore delle azzurre.

Il gruppo azzurro a Montichiari sognando Tokyo 2020.

«L’età similare consente a queste ragazze di attraversare fasi di vita quasi identiche, per questo si capiscono in pista ma, ancor prima, condividono aspetti di vita quotidiana. In ambito internazionale questa conoscenza agevola molto il lavoro». Non solo la conoscenza è affinata fra le ragazze stesse, ma anche con Salvoldi, ormai, si è stabilito un rapporto professionale consolidato. «Alcune di loro le conosco da quando avevano quindici anni. Le squadre cambiano, le compagne cambiano, la nazionale è sempre rimasta un punto fermo. Siamo cambiati assieme e forse per questo ci capiamo meglio. La chiave di tutto risiede nell’estrema franchezza nel dire le cose». Dino Salvoldi non si nasconde, il momento che ancora oggi lo spaventa maggiormente è quello delle convocazioni, le notti prima dell’ufficializzazione delle scelte il sonno fatica a venire. «Le decisioni le comunico singolarmente e cerco di apportare motivazioni che possano farle comprendere se non accettare. Certe volte ci si muove su un filo sottilissimo e la differenza è fatta da sensazioni e possibili svolgimenti di gara, per cui è anche più difficile spiegare. La consapevolezza è indispensabile: la ragazza che non viene scelta sa che la decisione è stata presa secondo criteri di correttezza ma sa anche che in qualsiasi altra nazionale non solo sarebbe stata scelta, ma probabilmente anche medagliata. L’esclusione non si accetta mai pienamente, ma così si rende sopportabile». Il C.T. spiega sempre alle atlete che l’esclusione non è personale o irrimediabile, riguarda solo l’appuntamento specifico. «Cerco di convincerle a focalizzarsi su altri traguardi e le sfido a farmi cambiare idea».

C’è un’altra parola chiave che Dino Salvoldi utilizza in vista delle Olimpiadi: rischio accettato. «Per i discorsi fatti sino ad ora, si potrebbe essere indotti a credere che, visto il livello alto, saranno sempre scelte le migliori in assoluto. Se fosse così, correrebbero sempre le stesse atlete. Ogni commissario tecnico sa che, se vuole far crescere la squadra, ha il dovere di correre alcuni rischi calcolati per permettere a tutte le atlete di gareggiare. Altrimenti si potenziano solo i risultati delle eccellenze e non si aiutano le altre a migliorare. Dobbiamo anche pensare che per queste ragazze la nazionale vuol dire visibilità ed i successi ottenuti con la nazionale sono quelli che consentono i maggiori salti di livello anche nelle squadre di club. Se avranno pazienza e continueranno a migliorare, tutte queste atlete sono destinate a grandi traguardi».

In questa comunicazione, l’esperienza è la base. «Io vengo dagli anni di Antonella Bellutti, un’atleta straordinaria, con numeri assurdi. Per questo, almeno all’inizio, ero portato a scegliere molto sulla base dei numeri. Negli anni ho capito che quei tempi non erano più replicabili e che le scelte avrebbero dovuto sempre prendere in considerazione il lato umano e motivazionale. Ci sono caratteristiche caratteriali personali simili in ragazze e ragazzi. Poi ci sono caratteristiche che pertengono specificamente alla sensibilità femminile: gli errori vanno comunicati con maggiore tatto, con vicinanza e soprattutto con un linguaggio diverso, altrimenti i danni sono irreparabili». Salvoldi dà un rapido sguardo alle ragazze che nel frattempo si sono preparate per continuare l’allenamento, ci saluta, si alza, va al tavolo predisposto al centro del velodromo ed inizia a spiegare la prossima fase della preparazione: venerdì 23 luglio 2021, il giorno di inizio dell’Olimpiade, si avvicina sempre più e non c’è tempo da perdere.

Foto: Paolo Penni Martelli


La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli

Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».

Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».

A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».

Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».

Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».

Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».

Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».

Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli


Un giorno sul lettino dei massaggi

 

Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.

«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».

De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.

«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».

Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».

Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».

Foto: Paolo Penni Martelli


Ma un Giro d'Italia, quando lo vinceremo di nuovo?

Per ovvi motivi il 2020 è stato un anno differente dal solito, ma per quanto riguarda il valore del ciclismo italiano nei Grandi Giri, è proseguita la costante tendenza degli ultimi anni che oscilla verso il basso. Dato che la narrazione ciclistica dalle nostre parti ruota perlopiù attorno ai risultati nelle grandi corse a tappe, abbiamo deciso di prendere in esame il movimento italiano nella sua massima espressione agonistica proprio in virtù di quello che è stato ottenuto nelle gare di tre settimane.
È vero: le grandi classiche o i mondiali, le vittorie nei traguardi parziali o nelle volate, hanno fascino e importanza, ma la tradizione vuole che ci si scaldi principalmente per le imprese in maglia gialla di Nibali, per gli scatti in salita di Pantani o Chiappucci, per la maglia rosa di Gianni Bugno, senza nulla togliere ai buoni risultati raccolti negli anni nelle altre corse. E non è solo una questione di tradizione, è anche il termometro dell’espressione di una scuola, quella del ciclismo italiano, che fino a qualche anno fa esprimeva diversi corridori di valore assoluto e che ora per vari motivi si è vista superare da altre nazioni.

Giro d’Italia: cartina tornasole del movimento

Giro d’Italia 2020 – Tappa da Alba a Sestriere  Wilco Kelderman in maglia rosa, subito a ruota Vincenzo Nibali. Chi raccoglierà l’eredità del siciliano? Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

Nella Corsa Rosa della passata stagione è arrivato il peggior risultato di sempre per i corridori italiani in classifica generale con il settimo posto di Nibali – tra i primi dieci anche Masnada, nono. Oltretutto è stata una corsa decimata prima dalle assenze e poi, strada facendo, dai ritiri di alcuni possibili protagonisti.

Mai, prima di allora, il migliore italiano in classifica si era trovato così in basso. E non va dimenticato come il risultato peggiore, prima di quello arrivato nel 2020, fosse stato il quinto posto di Pozzovivo nel 2018: due risultati intervallati dal podio del solito Nibali nel 2019, unico italiano nei dieci in quell’edizione: alle sue spalle il migliore azzurro fu Formolo, quindicesimo. Se ci spostiamo ancora di due anni: nel 2016 vinse Nibali, ma il migliore dietro il siciliano fu Visconti, tredicesimo, risultato acquisito principalmente grazie alle fughe.

Usando la “corsa di casa” come cartina tornasole del ciclismo italiano, non possiamo derubricare il cammino dell’ultima stagione come un’annata difficile o un incidente di percorso; si tratta più di una tendenza in voga ormai da tempo e con le sue eccezioni, vedi il 2017. Quell’anno, oltre al podio di Nibali, terzo, interessanti furono il sesto di Pozzovivo e il decimo di Formolo, in un’edizione di buon livello, in quanto a concorrenza internazionale, di sicuro tra le migliori degli ultimi vent’anni di Corsa Rosa.

Giro d’Italia 1993 – Claudio Chiappucci in maglia verde e Miguel Indurain in maglia rosa – Foto: BettiniPhoto©2010

Nelle altre occasioni in cui il ciclismo italiano non metteva nessun suo rappresentante sul podio si era riuscito a piazzarlo a ridosso: quarto Scarponi nel 2012, stessi risultati per Chiappucci nel 1995 e Giupponi nel 1988. Andò peggio, come nel 2018, nel 1987: quinto Giupponi, ma subito alle sue spalle Giovannetti, sesto.

E per trovare un risultato simile bisogna scavare negli annali e scorrere indietro fino al 1972: ancora nessun italiano sul podio, né ai piedi. Il migliore? Panizza, quinto, nel Giro dominato da Merckx. Quella però fu la prima volta in assoluto senza italiani sul podio dopo ben cinquantaquattro edizioni. Per l’epoca non fu che un’eccezione. Il biennio ’87-’88, invece, resta la prima e unica volta di due Giri consecutivi senza un rappresentante del ciclismo italiano tra i primi tre – l’impressione è che, se potessimo osservare il futuro prossimo nella sfera di cristallo, un destino simile si potrebbe prefigurare per il biennio 2020-2021, salvo exploit al momento difficilmente prevedibili.

Giro d’Italia 1988 – Siamo sul Gavia nella Chiesa in Valmalenco – Bormio di 120 km. Davanti Flavio Giupponi (ITA – Del Tongo) a ruota Chioccioli in maglia rosa.  Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2010

Nei due Giri del 1987 e del 1988, nonostante le indubbie qualità di Giupponi, che dopo i due quarti posti sarà secondo nel 1989, si viveva un momento di transizione. Si era pressoché chiusa l’epoca di Moser e Saronni (un po’ prima quella di Battaglin e di uno dei più grandi incompiuti del nostro ciclismo, Baronchelli) e si stava per aprire quella di Bugno, Chiappucci e Pantani – senza dimenticare Gotti che vinse due Giri in chiusura di secolo – per poi arrivare velocemente negli anni duemila ai successi nella Corsa Rosa di Garzelli, Cunego, Simoni, Di Luca, Savoldelli e Basso.
Proprio oggi, come a fine anni ’80, stiamo invece vivendo un cambio generazionale, anche se il mondo ciclistico è decisamente mutato e non solo dal punto di vista tecnologico. Muta la sua geografia e il peso specifico del movimento italiano, e oggi appare più difficile trovare da subito la svolta come avvenne negli anni ’90, dove, senza addentrarci in altri – spinosi – argomenti, l’Italia del pedale conobbe alcune delle vittorie più memorabili della propria storia.

Anni duemila: un contesto particolare

Tour de France 2010 – Si arriva a Bagnéres-de-Luchon. La grinta di Basso che chiuderà lontano dai migliori quel Tour. Foto: BettiniPhoto©2010

Nelle edizioni degli anni duemila del Giro, gli italiani vincevano, dominavano, ma i loro avversari non rappresentavano certo l’élite del ciclismo internazionale – per usare un eufemismo. Spesso gli sconfitti erano passisti dal profilo non di primissimo piano per una corsa a tappe, vedi Honchar, Hamilton o Gutierrez, oppure erano giovani speranze come nel caso di Popovych o Andy Schleck. I vincitori italiani di quelle edizioni erano corridori di grande spessore, non lo mettiamo in dubbio, ma inseriti in un contesto sempre più tourcentrico e dove il Giro veniva perlopiù relegato a gara di secondo piano – rispetto al Tour – e il meglio del ciclismo dei Grandi Giri si dava appuntamento fisso oltralpe un mesetto più tardi. E difatti i corridori italiani facevano incetta di podi e vittorie “tra le mura amiche” salvo poi essere un piatto poco più sostanzioso di un contorno – all’infuori di Basso – in Francia.

Giro d’Italia 2005 – Col delle Finestre – Paolo Savoldelli in maglia rosa.  Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2011

E in Francia Savoldelli vinse una tappa (nel 2005) e corse persino come gregario di Armstrong, ottenendo un venticinquesimo posto come risultato migliore, mentre Simoni rimbalzò tutte le volte che provò a testarsi al Tour, salvo conquistare un prestigioso successo di tappa nel 2003. Il suo miglior risultato in classifica fu il diciassettesimo posto l’anno successivo.
Garzelli non fece mai meglio di un quattordicesimo posto nel 2001, invece Cunego mostrò nella Grande Boucle solo sprazzi del suo enorme talento: undicesimo nel 2006 quando conquistò la maglia bianca al termine di una lotta serrata con il carneade tedesco Fothen,  mentre nel 2011 arrivò sesto al termine di una corsa di grande livello e che all’epoca veniva persino criticata e sottovalutata e che oggi, visti i risultati dei suoi eredi, si arriva a rimpiangere.
Infine, per restare ai vincitori del Giro d’Italia degli anni 2000: Di Luca partecipò a due Tour e si ritirò entrambe le volte, ma per caratteristiche l’abruzzese, discorso doping a parte, non era del tutto adatto alle corse a tappe e si reinventò uomo da tre settimane solo in un secondo momento.

Giro d’Italia 2015 Saint Vincent – Sestriere Sul Colle delle Finestre  Alberto Contador danza in rosa. Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2015

E arrivarono così la bellezza di undici successi consecutivi al Giro, dal ’97 di Gotti al 2007 di Di Luca, fino al 2008 quando sulle strade italiane si presentò, per vincere, uno dei più forti corridori in assoluto della storia recente: Alberto Contador, che si ripeté poi nel 2011 – successo poi revocato – e nel 2015. Mentre resta emblematico e spartiacque dei Giri d’Italia successivi, quello del 2012. Ci fu un podio tutto straniero ma occupato per due terzi da corridori che mai più avrebbero ottenuto un risultato simile e né lo avevano sfiorato prima: Hesjedal (primo) e De Gendt (terzo). Spartiacque perché fu un Giro di non eccelso livello dal punto di vista della partecipazione, però, a differenza di quello che succedeva qualche anno prima, l’Italia non riuscì a vincere, né a piazzare un corridore sul podio nonostante la presenza dei maggiori esponenti del nostro ciclismo delle corse a tappe di quegli anni: Scarponi, Basso, Cunego e Pozzovivo – pur se tutti e quattro in momenti differenti della loro parabola. Tutti i migliori italiani presenti tranne Nibali, che da par suo ottenne il suo primo podio al Tour. Si affacciarono a quel Giro 2012 corridori all’epoca più o meno giovani e che potevano rappresentare nell’immaginario il futuro per le corse a tappe: Brambilla che chiuse tredicesimo e Caruso ventiquattresimo. Cambieranno, però, gli obiettivi, i risultati e i ruoli in carriera e nessuno di loro sarà mai capace di lottare non solo per la maglia rosa, ma nemmeno per un posto vicino, trasformandosi in corridori con altre caratteristiche e prospettive.

Giro d’Italia 2011 – Sotto il Duomo di Milano Contador festeggia la vittoria del suo secondo Giro. Gli verrà tolto tempo dopo e assegnato a Scarponi. Secondo diventerà Nibali, terzo Gadret. Foto: BettiniPhoto©2011

Nel decennio appena trascorso (2011-2020) un solo corridore ha conquistato a tutti gli effetti la maglia rosa finale, Nibali, vincitore nel 2013 e nel 2016. E a rendere ulteriormente pesante lo storico degli italiani ecco che solo altri due atleti negli ultimi anni sono riusciti a salire sul podio oltre al siciliano: Scarponi nel 2011 – tempo dopo gli fu attribuito il successo di quel Giro per la squalifica di Contador – e Aru nel 2014 e nel 2015.

Ed è pesante proprio il confronto tra i primi due decenni degli anni 2000. Tra il 2001 e il 2010 il ciclismo italiano ha portato a casa otto Giri su dieci, lasciando per strada solo quelli del 2008 e del 2009 con 19 podi, ottenuti da 12 corridori diversi, su 30 disponibili. Dal 2011 al 2020 invece tre successi se vogliamo considerare anche quello assegnato a tavolino a Scarponi e 8 podi, ottenuti da 3 corridori, su 30. È vero che in questi anni è aumentata la concorrenza straniera, ma allo stesso tempo è diminuita la potenza di fuoco di quella italiana. Ed è emblematico in questo il Giro del 2020, dove, a un parterre non esagerato per la lotta al podio, l’Italia non è riuscita a opporre alcuna controparte.

Tour e Vuelta

Tour de France 2014 Sugli Champs Elysees Vincenzo Nibali festeggia uno dei successi più importanti dello sport italiano del decennio appena trascorso. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2014

Se volessimo invece in breve considerare anche le altre due corse a tappe, si parla, anche a livello storico, di cifre assolutamente differenti, come se trattassimo un altro tipo di esercizio: dal ’65 a oggi sono tre le vittorie finali al Tour con Gimondi, Pantani e Nibali, e sedici podi con lo stesso Gimondi, Balmamion, Motta, Bugno, Chiappucci, e ancora Pantani, Basso e Nibali, mentre alla Vuelta i successi sono sei in tutta la storia, con quelli ottenuti negli anni 2010 da Nibali e Aru. E proprio per questo motivo, per chiarire meglio le difficoltà, occorre principalmente parlare della corsa di casa, quella che più di ogni altra riscalda il sentimento popolare italiano.

Carta d’identità e faticoso cambio generazionale

Giro d’Italia 2017 – Domenico Pozzovivo in compagnia di Zakarin in fuga verso Piancavallo. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2017

Fatti un po’ di numeri facciamo i nomi. Intanto identifichiamo subito nell’età avanzata dei protagonisti uno dei problemi che affronteremo anche in questo 2021 e poi successivamente nel 2022, salvo l’improvvisa esplosione di qualche interessante talento – che per inciso c’è. Nibali compirà 37 anni a novembre, Pozzovivo 39, eppure sono loro due i corridori che hanno ottenuto i migliori risultati nelle ultime stagioni. Pozzovivo, oltretutto, con una serie di infortuni anche abbastanza gravi che ne hanno condizionato il rendimento.

Gli altri corridori che andremo a nominare, per motivi diversi, non danno garanzie per un successo finale, per un podio o qualcosa di molto vicino ad esso. Eppure sono quelli che nell’ultima stagione hanno ottenuto i risultati migliori alle spalle del siciliano della Trek-Segafredo. Sono tutti professionisti di caratura importante, non c’è dubbio, ma pare difficile immaginarli a raccogliere l’eredità del corridore messinese.

E i perché vanno ricercati non solo nell’elevata competizione che anno dopo anno si sta facendo sempre più serrata e che coinvolge elementi di diverse nazioni, ma anche nel ruolo che i corridori italiani ricoprono all’interno dei propri team, e che a lungo andare ne condizionano la possibilità di potersi esprimere per la vittoria, modificandone le prospettive.

Tour de France 2020 – Damiano Caruso è uno dei gregari più affidabili in salita di tutto il gruppo. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

È il caso di Damiano Caruso, corridore di talento, ma da sempre votato alla causa altrui. Diciamocelo francamente: un conto è essere abituati a lottare per un successo o per un podio, oppure crescere per gradi con l’obiettivo di svettare poi nelle parti alte della classifica; un altro discorso è passare una carriera compiendo grandi sforzi in aiuto ai propri capitani e poi, nel momento della disputa decisiva, sfilarsi andando del proprio passo al traguardo. L’abitudine al successo, facendo il gregario, manca.

Il siciliano, classe ’87, ha fatto le sue scelte di carriera, più che opportune, ovvero mettere le sue grandi qualità a disposizione dei propri capitani e nonostante tutto ha raccolto risultati di prestigio. L’ultimo in ordine di tempo è forse il più interessante: 10° al Tour de France 2020, sebbene esemplare nel suo lavoro in appoggio al capitano Landa. Nonostante la sua affidabilità, tuttavia è difficile immaginarcelo capitano da un giorno all’altro e pretendente al podio da qui alle prossime stagioni. Certo manca la controprova, ma cosa sarebbe potuto diventare Caruso se si fosse messo in proprio? Non lo sapremo mai.

Giro d’Italia 2020 Se Fausto Masnada fosse lasciato libero di fare la sua gara, potrebbe ambire a un posto nei primi 5 del Giro? Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2020

C’è poi Fausto Masnada: il secondo migliore italiano in un Grande Giro nel 2020. È un classe ’93, ha una carriera davanti, e il Giro di pochi mesi fa è stata la sua prima vera prova con ambizioni di media classifica. Se a grinta Masnada non è secondo nessuno, il bergamasco pare voglia ripercorrere le orme di Caruso. «Mi rivedo molto in Damiano Caruso» racconta lui stesso ai microfoni di Giada Gambino su Bici.pro «Credo sarà proprio questo il mio ruolo nei prossimi anni».

Masnada è un attaccante nato, come Caruso si difende bene in salita, ma non ai livelli dei migliori in assoluto; come Caruso vince poco – anche se al momento ha raccolto qualcosa in più. Come Caruso ha ottenuto una bella top ten nel 2020 pur avendo sgobbato come un forsennato per aiutare il suo capitano al Giro. Anche per lui, almeno sulla carta, si prospetta un 2021 nel quale lo vedremo ancora lavorare per il capitano designato. Gli potrebbe venire incontro la condizione di quest’ultimo, ovvero Evenepoel. Qualora il belga non dovesse dare grandi garanzie di forma dopo l’incidente del Lombardia 2020, e Almeida fosse confermato verso il Tour, magari al corridore italiano della Deceuninck-Quick Step potrebbero toccare davvero i galloni del capitano. Attendiamo curiosi.

Tour de France 2012 – Ivan Basso e Vincenzo Nibali, gli ultimi due italiani sul podio del Tour: pronto il passaggio di consegne. Foto: BettiniPhoto©2012

A conferma della tesi esposta poco sopra prendiamo in esame la parabola di Nibali: il siciliano dopo anni di apprendistato in maglia Liquigas – attenzione: apprendistato non gregariato – sulle orme di Ivan Basso, è cresciuto progredendo stagione dopo stagione andando a conquistare poi i successi che tutti conosciamo. Certo, quando parliamo di Nibali, parliamo di un grande talento, ma quello da solo, se non coltivato, non basta. Il passaggio da talento a campione passa da tanti piccoli fattori che condizionano la carriera di un corridore. Per lui questi fattori sono stati, oltre alla classe, anche la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto e la bravura di essersi messo in proprio giocandosi le sue chance. E ha funzionato alla grande.

Il caso di Pozzovivo poi, in proporzione al talento, non è così diverso. Il lucano, passato tardi nel World Tour, dopo una lunga militanza con le squadre dei Reverberi, ha (quasi sempre) potuto giocarsi le sue carte e così facendo, dal 2007 al 2020, esclusi i ritiri, solo una volta è uscito dai primi 20 della classifica di una grande corsa a tappe, ottenendo risultati di prestigio e con una certa continuità: sei top ten, tra cui due quinti e due sesti posti tra Giro e Vuelta. E difatti nel decennio appena alle nostre spalle è di sicuro stato il corridore più costante dopo Nibali, anche se gli è sempre mancato l’acuto necessario o quel podio che ne avrebbe coronato la carriera.

Non solo uomini-squadra

Davide Formolo: tutta la grinta del mondo.

Non può mancare Davide Formolo in questo elenco. Il classe ’92 della provincia di Verona dopo essersi testato diverse stagioni come uomo di classifica ha capito che il suo meglio lo potrebbe dare nelle corse di un giorno impegnative – un campionato italiano vinto e un podio alla Liegi e alla Strade Bianche non mentono, così come le cavalcate trionfali in una tappa del Giro del Delfinato 2020 e in una della Volta a Catalunya 2019.
Jonathan Vaughters nel 2015, a inizio stagione si sbilanciò: «Davide Formolo vincerà sicuramente un Giro d’Italia» disse alla Gazzetta dello Sport. E quelle aspettative sono diventate un po’ la croce della narrazione attorno al corridore. Quell’anno Formolo vinse una tappa al suo esordio al Giro con quello che, secondo noi, è il suo vero marchio di fabbrica, la fuga da lontano su percorsi misti. Ha grinta, tempismo, tiene bene in salita e quando lanciato all’attacco sa far valere un motore di livello: tutte caratteristiche ideali per trasformarsi definitivamente in un corridore capace di togliersi quelle due tre grosse soddisfazioni a stagione, piuttosto che navigare a vista per un ottavo, decimo posto nella classifica generale di un Grande Giro. Fino a oggi a Formolo, che ha tuttavia ottenuto alcuni piazzamenti in classifica tra Giro e Vuelta, ma senza acuti, è sempre mancato quel salto di qualità in una corsa a tappe di tre settimane, a causa magari di una giornata storta dove perdeva tempo in classifica, oppure a prestazioni a cronometro non in linea con i più forti. Tutto questo con buon pace della profezia di Vaughters.

Ciclocross Madignano 2021 – Fabio Aru impegnaot nel ciclocross: che 2021 sarà il suo?  Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021

Su Fabio Aru, invece, superfluo spendere più parole di quelle che si leggono in giro ed è doveroso quindi ampliare il discorso che lo riguarda a tutta la sua generazione di corridori. Quelli nati tra il 1989 e il 1991 – con l’eccezione di Roglič e in attesa di capire Quintana – che sembrano stati spazzati via dal nuovo che avanza. Aru, come Pinot, Bardet, Barguil, Chaves, mettiamoci dentro il Dumoulin delle ultime stagioni, Landa, corridori con un ottimo palmarès, ma che per un motivo o per l’altro si guarderanno indietro un giorno con l’impressione di essere stati quasi degli incompiuti. Certo è che il sardo tra 2014 e 2017 fu capace di risultati di enorme prestigio: vince la Vuelta 2015, due podi al Giro (2° nel 2015 e 3° nel 2014), un 5° posto sempre alla Vuelta (2014), un 5° posto al Tour (2017), con tanto di vittoria di tappa e maglia gialla indossata, mentre nel 2016 sempre in Francia, saltò per aria il penultimo giorno di corsa mentre si trovava sesto in classifica a poco più di un minuto e mezzo dal podio di Quintana. Sembra passata un’epoca per noi, figuriamoci per lui che ancora annaspa alla ricerca di un se stesso in bicicletta che forse mai più ritornerà.

Giro d’Italia 2020 – Per qualcuno Giulio Ciccone sarà la nostra punta per i prossimi anni nei Grandi Giri. Ma il forte scalatore abruzzese deve ancora dimostrare di essere a livello dei migliori per giocarsi una classifica generale. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

Giulio Ciccone è il più giovane tra i corridori sin qui nominati (è un dicembre ’94): chi scrive stravede per l’abruzzese ma giudica il tentativo di puntare su di lui per le corse a tappe al momento azzardato. A costo di prendere una grossa cantonata: Ciccone dovrebbe confrontarsi con i migliori corridori nelle corse di un giorno impegnative – tagliatissimo per certi percorsi come il Lombardia, il trittico delle Ardenne, ma anche diverse semi classiche del calendario – e abbandonare le velleità di alta classifica.
Potrebbe prendere le misure nelle brevi corse a tappe provando fughe e vittorie parziali, e poi nei Grandi Giri essere libero di esprimere l’indole battagliera senza restare ingessato per un piazzamento da primi dieci posti, ma non da podio. Felici di essere smentiti: ma a ora non riusciamo a immaginarci Ciccone capace di lottare per una vittoria (o un podio) al Giro o alla Vuelta, figuriamoci al Tour. Eventualmente ne avremo la contro prova al Giro di quest’anno. La concorrenza è spietata, il livello nelle ultime stagioni si è alzato notevolmente e Ciccone appare un gradino sotto rispetto a corridori come Bernal, Pogačar, Roglič, Carapaz, Mas, persino paradossalmente a un Evenepoel che un Grande Giro non lo ha mai corso, ma anche ai vari López, Thomas, Sivakov, Geoghegan Hart, Landa.

Vuelta Espana 2020  Mattia Cattaneo sempre in fuga alla Vuelta – Foto: Luis Angel Gomez/BettiniPhoto©2020

Infine si potrebbe inserire in questa lista anche Mattia Cattaneo per il quale però vale un discorso differente da tutti gli altri. È l’ultimo vincitore italiano del Giro Under 23, passò subito nel World Tour in maglia Lampre ma più che le caratteristiche, le opportunità o i ruoli in squadra a frenarne l’ascesa è stata tutta una serie di problemi fisici. Dopo l’ottimo ultimo anno in maglia Androni (2019), Cattaneo si è guadagnato un contratto con la Quick Step provando, dopo un anno complicato dall’ennesimo infortunio, a fare classifica alla Vuelta. Ha chiuso al diciassettesimo posto, migliore degli italiani, sfiorando un paio di volte il successo di tappa. Difficile, però, oggi, a trent’anni già compiuti, immaginarlo in un ruolo differente dal gregario – seppur di lusso.

I motivi della crisi

Ma non si parla solo di numeri o di nomi. Detto di come influenzino negativamente i risultati i ruoli in squadra e la scarsa abitudine a lottare con l’eccellenza nelle fasi importanti, un’altra causa è che, banale a dirsi, si vive un momento storico sfavorevole. Un momento in cui, dopo Nibali, manca un campione assoluto – e sottolineiamo campione, non talento – capace di tenere testa ai migliori. Un momento in cui il movimento ciclistico italiano non è riuscito a dare alla luce uomini da grandi corse a tappe in grado di scontrarsi con tutta una generazione di corridori stranieri.

Alaphilippe conquista il mondiale a Imola. La Francia si è sbloccata nella corse di un giorno, ma ancora non riesce a trovare un uomo per le corse a tappe. (Foto: Luigi Sestili)

La forte concorrenza nei Grandi Giri che arriva dagli paesi stranieri è un altro fattore: non sono più le solite tre, quattro nazioni a dominare il ciclismo. E difatti, ma non è questa la sede giusta per parlarne, non è che altre nazioni “storiche” come Francia e Belgio se la passino meglio rispetto a noi, anzi. Anche se, soprattutto dal Belgio, stanno arrivando talenti che prima o poi saranno capaci di sfatare alcuni tra i tabù più lunghi della storia del ciclismo – il loro ultimo Grande Giro vinto risale al 1978. Sono tornati gli olandesi e arrivano in vetta con costanza inglesi e australiani, sloveni, colombiani ed ecuadoriani, tutte nazioni che dicono la loro nel nuovo assetto geopolitico mondiale e dove l’Italia mostra carenze a livello strutturale, con le proprie metodologie di crescita e di avvicinamento al mondo dei professionisti che evidentemente non funzionano più così bene come un tempo. Un po’ come se fossimo rimasti a guardare gli altri crescere cullandoci nella tradizione, convinti che bastasse per fare risultato.

C’è poi una questione che potremmo definire generazionale: i corridori passati negli ultimi anni nella massima categoria, lo hanno fatto dopo aver disputato poche o quasi nessuna corsa a tappe nelle serie giovanili. Questo pone un margine di svantaggio soprattutto nel confronto con i loro coetanei; si effettua il grande salto senza aver mai sviluppato né testato quelle caratteristiche fondamentali per imporsi nell’esercizio delle tre settimane: fondo, resistenza e recupero. E spesso quando ci si ritrova a lottare contro i pari età si prendono sonore sberle.

Giro dell’ Appennino 2019 – Giovanni Aleotti in maglia Cycling Team Friuli. Su di lui in tanti pronti a scommettere – Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2019

Nelle ultime stagioni, però, la tendenza si sta invertendo grazie ad alcune squadre dilettantistiche o Under 23 che stanno intensificando la loro attività all’estero in aggiunta al rilancio o alla nascita di corse a tappe nostrane. I frutti non si vedono ora, li vedremo semmai fra qualche stagione.

Davide Cassani, su Cyclingpro, spiegava a fine Giro 2020: «Io credo che, il non avere un dopo Nibali, non è un problema nato oggi, ma le conseguenze di un qualcosa che è mancato anni fa. Mi spiego: dal 2012 al 2016 in Italia, la categoria Under 23 aveva in calendario una sola corsa a tappe, il Val d’Aosta. Il Giro d’Italia giovani ed altre gare a tappe erano sparite. Cosa vuol dire? Che le nostre squadre dilettantistiche, ottimamente organizzate ma in grado solo di gareggiare in Italia, avevano a disposizione un calendario non all’altezza e questo ha abbassato il livello della categoria. Mentre nel resto del mondo i ragazzi correvano a destra e a manca facendo esperienze fondamentali alla loro crescita, noi ci siamo chiusi a correre in Italia. Ma se negli anni ’90 avevamo 7/8 corse a tappe che tenevano alto il nostro livello, in seguito sono sparite ed il nostro movimento ne ha subito le conseguenze. Credo che, anche per questo motivo, non abbiamo, per il momento, il dopo Nibali perché non siamo riusciti a preparare nel modo giusto i nostri giovani nel passaggio al professionismo. E abbiamo perso una generazione di scalatori».

Per diversi anni in Italia difatti era sparito persino il Giro dei dilettanti (con tutte le sue denominazioni e formule, Giro Bio, Giro Under 23, ecc.) fondamentale vetrina di talenti per i giovani azzurri che riuscivano così a misurarsi con i coetanei più forti. Da quando è stato riportato in auge (2017), nessun italiano ha vinto la classifica finale e solo lo scorso anno, con il terzo posto di Colleoni, un corridore di casa è riuscito nuovamente a salire sul podio dopo otto anni – l’ultimo Aru, secondo nel 2012.

Un problema di World Tour

Campionati del Mondo Limburg/Valkenburg 2012 – Liquigas impegnata nella Cronosquadre – Foto: Graham Watson/BettiniPhoto©2012

Ci sono poi problemi legati alla mancanza di sponsor e di investimenti che hanno portato all’uscita totale dal World Tour delle squadre italiane. Non è un caso che gli ultimi vincitori di un Giro d’Italia o lo hanno fatto in Liquigas oppure sono cresciuti lì. La Liquigas possedeva una struttura e una filosofia ideale, che ha permesso a un corridore come Nibali di maturare per gradi, senza pressioni esagerate legate al tutto e subito, con un programma da seguire, un contratto a lunga durata e senza il rischio di bruciarsi come spiegato benissimo in questa intervista dall’ex Team Manager Roberto Amadio. Un Nibali cresciuto oltretutto attorno a un capitano di spessore come Basso dal quale ha potuto carpire i segreti del mestiere. La stessa Lampre, l’ultima World Tour italiana, ha visto la parabola completa di un certo Cunego, uno dei più grandi talenti del nostro ciclismo degli anni duemila. L’uscita di scena di queste due squadre è stato un danno che tutt’oggi stiamo ancora pagando.

Si tende a pensare che la mancanza di squadre World Tour sia solo la punta dell’iceberg delle difficoltà del nostro ciclismo, mentre in realtà è proprio da qui che a cascata derivano tutti i problemi. L’assenza di World Tour italiane significa meno corridori italiani che passano nel mondo dei professionisti, ma anche meno attenzione ai corridori italiani, meno ragazzi che hanno la possibilità di misurarsi e di fare del ciclismo un mestiere vero e proprio – non tutti riescono a navigare sino a 27/28 anni tra i dilettanti con un rimborso spese o con i premi gara – significa un effetto domino che porta all’abbandono precoce dell’attività, significa, come fa l’ Uroboro, innescare un processo dove senza un corridore italiano di vertice non si riesce a vendere il prodotto ciclismo e di conseguenza non si raccolgono grandi investimenti. Significa che il ciclismo non viene nemmeno più preso in considerazione come lavoro per il futuro.

Al Giro della Regione Friuli Venezia Giulia del 2020 nessun italiano non solo è salito sul podio, ma è entrato nelle prime dieci posizioni. Le ultime tre edizioni sono state vinte da tre grandi talenti del ciclismo mondiale: Pogacar, Champoussin e Leknessund.

Per Giorgio Furlan, attuale tecnico della General Store, squadra Under 23, «Oramai mancano corridori di valore perché il bacino da cui attingere è sempre più in diminuzione, ci sono tante corse in realtà, ma non bastano quelle. In Veneto abbiamo centocinquanta junior: siamo ai minimi storici». Mentre Christian Murro, ex corridore e ora organizzatore del Giro del Friuli dilettanti aggiunge: «Il problema è che gli allievi sono trecento: dove finisce quella metà? Dobbiamo capire perché tutti questi ragazzi smettono».

E poi, come accennavamo, manca un talento di livello assoluto, che deve ancora nascere o non lo abbiamo ancora visto arrivare (e a Ganna per il momento lasciamo fare benissimo quello che sa fare), oppure bisogna coltivarlo fra i tanti nomi interessanti e trasformarlo in campione. Perché bisogna avere la capacità, la pazienza, i mezzi per prendere questi talenti, costruirli e farli crescere. Bisogna dare loro la possibilità di esprimersi e misurarsi con i pari età stranieri.

Marco Pantani, sempre. Foto: BettiniPhoto

Certo è che diminuiscono i praticanti, che meno ragazzi vanno in bici e meno si iscriveranno a una società ciclistica. E meno ragazzi che praticano significa meno possibilità di attingere a un bacino dal quale possa emergere un futuro talento. Il giornalista inglese Herbie Sykes in un recente articolo sulla crisi del ciclismo italiano nei Grandi Giri, apparso sul magazine Pro Cycling, riporta alcuni dati che fanno capire qual è la situazione nel nostro paese. «Nel 2019, l’anno in cui British Cycling ha raggiunto 150.000 iscritti, la sua controparte italiana ne aveva 103.124. Di questi, 31.000 hanno affermato di essere giudici di corsa e organizzatori, e circa 41.000 gareggiavano tra gli amatori. L’Italia ha perso il 12% dei suoi corridori competitivi in tre anni, e due terzi del suo gruppo professionistico dal 1999». Sykes si riferisce al 1999, precisamente ai fatti di Madonna di Campiglio al Giro, perché per lui sono un po’ il grande spartiacque della parabola del nostro ciclismo. «La caduta in disgrazia di Pantani provocò un esodo di capitali, corse e interessi» scrive. Uno scotto che paghiamo ancora oggi.

Non è solo un fattore agonistico

La Festa della Bicicletta a Madrid nel 2018- Foto: Luis Angel Gomez/BettiniPhoto©2018

Ci sarebbe da analizzare l’esasperazione delle categorie giovanili, ma questo, oltre a coinvolgere tutto il mondo del ciclismo e non nello specifico solo quello italiano, è un argomento che tratteremo un’altra volta. Scavando più a fondo nei concetti, invece, e ribaltando la prospettiva, per Silvio Martinello il problema sta alle fondamenta, nell’educazione e nella cultura. «Alla mancanza di sicurezza che sta minando alla base il movimento» afferma in una recente intervista apparsa su www.bikeitalia.it l’ex campione olimpico su pista. «È un tema centrale: il ciclismo su strada sta attraversando un momento di crisi epocale per via della mancanza di sicurezza sulle strade. Basta guardare le corse giovanili dove il 90% dei partecipanti provengono da famiglie in cui si parla già la lingua del ciclismo, non si riesce più ad intercettare nessuno di nuovo. Più ciclisti per strada significa più sicurezza per tutti e un bacino di utenza più ampio che aumenterà anche la quantità e la qualità degli agonisti. È un concatenamento di fattori che abbiamo già visto altrove in Europa, in Germania o in Gran Bretagna per esempio, dove si è agito sulla sicurezza con determinazione e questo ha comportato anche un miglioramento dei risultati sportivi». Chi di voi, appassionato di ciclismo, manderebbe a cuor leggero il proprio figlio per strada a praticare questo sport? Urge in questo senso un intervento forte da parte delle istituzioni. E a proposito di basi: allargando il dibattito per un secondo, l’impressione è che in Italia lo sport non sia più al centro del discorso. non sia più un fattore di importanza culturale, né politica, né educativa. Magari ci si fa belli quando si contano le medaglie – finché dura – grazie a tecnici preparatissimi, come lo sono quelli del ciclismo, ma è un modo per continuare a nascondere i problemi. A scuola si parla quasi niente di sport, della sua storia e delle sue capacità educative come fosse argomento frivolo e di poco conto, ma soprattutto lo si insegna poco e male, come riportato da questo dettagliato dossier di Maurizio Mondoni.

Che futuro?

Gran Piemonte 2020 Ancora Giovanni Aleotti, qui in maglia azzurra, in azione. Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2020

Torniamo, per concludere, al lato strettamente agonistico della faccenda. Siamo arrivati a un evidente cambio generazionale. La storia vive di cicli – mai immagine fu più appropriata – e chissà che in questi anni, come successe proprio a fine anni ’80, non possa esserci un passaggio di consegne. Il dopo Moser-Saronni ha visto la velocissime parabola di Visentini e Chioccoli, ma poi ha conosciuto Bugno, Chiappucci, Pantani, Gotti: non servono presentazioni per i nomi citati. Ci sono stati Simoni, Savoldelli, Basso e poi Nibali (e Aru, anche lui protagonista di una parabola intensa quanto rapida). E ora si guarda al futuro per capire chi possa raccogliere l’eredità.

È un contesto liquido: le difficoltà della generazione di quei corridori che adesso hanno dai 25 ai 32 anni circa, potrebbero non essere più le difficoltà di quei corridori arrivati nelle ultime stagioni o che devono arrivare. Grazie al cambio di filosofia di diverse squadre giovanili i volti nuovi del ciclismo italiano sembrano pronti a raccogliere il testimone.

Road World Championship Innsbruck – Tirol 2018 – Alessandro Fancellu vola verso una medaglia al mondiale di Innsbruck. photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2018

Fra i più interessanti ecco Aleotti, Colleoni, Fancellu, Piccolo e Tiberi. Aleotti è quello che negli ultimi anni da Under 23 ha ottenuto i risultati più incoraggianti. Il secondo posto al Tour de l’Avenir nel 2019, al cospetto del meglio in gara nel panorama internazionale, è una base importante da cui partire, per un corridore che ci viene dipinto dai suoi tecnici non solo come uno dal gran motore, ma come uno con la testa fatta per primeggiare.

Colleoni è stato il migliore italiano all’ultimo Giro Under 23 e, come Aleotti, ha da subito la possibilità di cimentarsi nel World Tour con una squadra importante – Aleotti nella BORA-hansgrohe, Colleoni nel Team BikeExchange. E poi ancora Fancellu, scalatore della EOLO-Kometa, che secondo il suo Team Manager Basso ha tutte le qualità per emergere persino come fuoriclasse del ciclismo.

2019 Road World Championship Yorkshire – Antonio Tiberi: campione del mondo a cronometro tra gli junior nel 2019. Foto Luca Bettini/BettiniPhoto©2019

Tiberi e Piccolo, rispettivamente con Trek-Segafredo e Astana da questo 2021, hanno qualità importanti, ma andranno anche loro fatti crescere con grande calma e per gradi, anche perché, a conti fatti, non hanno ottenuto risultati di rilievo tra gli Under 23 nelle corse a tappe. C’è poi Conca, il quale però sembra, parole sue, voler raccogliere il testimone delle fughe vincenti da De Gendt, nonostante tra 2019 e 2020 abbia ottenuto risultati importanti nella categoria Under 23 in alcune corse a tappe di prestigio. Tra quelli che già stanno correndo tra i professionisti almeno dall’anno scorso, vanno seguiti Bagioli (Andrea) e Covi, che però, nonostante i risultati tra gli Under nelle prove a tappe, sembrano decisamente più tagliati per le corse di un giorno, mentre Conci e Fabbro, dopo qualche stagione di apprendistato, devono ancora dimostrare tutto nei Grandi Giri. Anche se per loro potrebbe valere quel discorso di crescita graduale di cui si parlava prima. D’altra parte, come dice il detto colombiano: non tutte le arance maturano allo stesso tempo.

Certo, per questi corridori lo scontro sarà duro e da essere un buon prospetto a diventare un vincitore del Giro d’Italia ce ne passa. Oltretutto stiamo vivendo uno dei momenti più floridi a livello di competitività nelle corse a tappe. Il livello è altissimo. I corridori appartenenti alla stessa generazione dei giovani italiani menzionati sono Bernal o Pogačar, che hanno già vinto un Tour, oppure Mas o Gaudu che hanno già dato segno di poter lottare al vertice, senza dimenticare Geoghegan Hart o Hindley, primo e secondo al Giro 2020. La strada da fare è ancora molto lunga, probabilmente passeranno anni di risultati ancora peggiori rispetto al 2020. Ma il futuro non possiamo che guardarlo con gli occhi pieni di fiducia.

Foto in evidenza: Gio Auletta / Pentaphoto


Tutte le avventure che possiamo immaginare

C’è stato un giorno in cui Manuel Vecchiato ha cambiato il proprio modo di vedere e di vivere la bicicletta, dopo anni in cui era stato in gruppo con tutta l’intenzione di diventare professionista. «Ricordo che, alle feste di fine anno scolastico, mentre gli altri bambini giocavano a calcio, io osservavo le persone in bicicletta che passavano fuori dal cortile della scuola. Mi chiedevo dove stessero andando e immaginavo i loro viaggi. E poi? Poi ho smesso di chiedermelo».

Manuel in quel momento smette di fare il corridore, ma non smette di andare in bicicletta. «Spesso si pensa che per vivere un’avventura sia necessario prendere un aereo, affrontare voli di molte ore e arrivare chissà dove. In realtà, se sai dove guardare, c’è una parte di avventura anche dietro casa tua». È da questa considerazione che inizia un altro tratto di storia per tre ragazzi: Manuel, Mirko ed Enrico.

«Abbiamo viaggiato molto e spesso abbiamo ideato da noi i nostri itinerari, disegnandoli. Così abbiamo pensato: perché non condividere con altri appassionati il nostro viaggio, la nostra avventura? La passione per la bicicletta è un qualcosa che accomuna molti e sono certo che tantissime persone si sorprendono a pensare a quanto sarebbe bello scalare quella montagna o affrontare quel viaggio. Non lo fanno per un semplice motivo: credono di non esserne all’altezza, di non avere le qualità fisiche per farlo. Hanno paura».

Wamii, questo è il nome della piattaforma, è una sorta di antidoto a questo timore, a questi dubbi. «Se ci siamo riusciti noi, vuol dire che chiunque può riuscirci. Sapere che qualcuno prima di te ha passato ciò che tu stai passando ora è sempre una forma di sicurezza. Il nostro, in fondo, è un modo per raccontare i tragitti dei nostri viaggi». È fine giugno 2020 quando circa venti tracciati, interamente situati in Veneto, vengono messi a disposizione del pubblico di appassionati. «Le persone sono spaventate dall’imprevedibilità. Dall’idea di arrivare ad un sentiero e di trovarlo bloccato, di non sapere dove passare. Magari di non avere un luogo dove trascorrere la notte, se il viaggio è di più giorni. Se racconti tutto questo, se dai indicazioni precise, le persone si buttano e scoprono che è bello. Poi magari le incontri, ti scrivono, e ti dicono che si sono sorprese perché pedalando su quel tragitto hanno visto uno squarcio che c’era sempre stato, ma che con la velocità quotidiana non avevano mai ammirato».

Così ad ogni viaggio è abbinata una struttura dove sostare per riposarsi e ad ogni struttura è abbinato un viaggio. «Quante volte capita di essere in hotel e di sentire qualcuno che chiede informazioni su luoghi vicini da visitare? Quando siamo spensierati, magari in vacanza, è il momento in cui osiamo maggiormente, noleggiamo una bicicletta e via». Perché alla fine un’avventura può partire anche dal caso, da un giorno in cui eri annoiato e non sapevi cosa fare. Nell’avventura, spiega Vecchiato, ci sono i valori della solitudine e anche della noia, cose indispensabili che rifuggiamo. «Alcune volte non servono guide, ci si può accompagnare da soli dove si vuole andare. Arrivare lì e dire: “Ce l’ho fatta! E ho fatto tutto da me”.»

Fra qualche tempo si aggiungerà una nuova sezione di itinerari e tra i punti di appoggio si inseriranno anche le cantine enogastronomiche. Ma Manuel, Mirko ed Enrico hanno in mente un progetto ben più grande. «Andiamo a parlare con i comuni, raccontiamo ciò che stiamo facendo e facciamo proposte. Tutti ascoltano interessati ma poi, complice la burocrazia e tutta una serie di situazioni di cui è inutile parlare qui, si fa sempre più fatica ad essere appoggiati in queste iniziative che favoriscono la ciclabilità. Forse perché non se ne comprende in pieno il valore. Forse perché non si è abituati a questa lettura della realtà. Oppure più probabilmente è la stessa burocrazia a rallentare tutto. La bicicletta non è solo un mezzo per spostarsi, è anche uno straordinario punto di vista per guardare il mondo, per conoscerlo, per scoprire territori e luoghi in cui si sta bene. Perché non pensare di passare sempre più tempo in sella? Perché non gustarsi sempre di più quel tempo? Basta immaginare e poi avere il coraggio di allacciare i pedali e partire».

 

Foto: Wamii


Vorrei essere come Alaphilippe: intervista a Santiago Umba

Santiago Umba è nato nel novembre del 2002. È esile, un colibrì, come nella miglior tradizione colombiana. Non ha paura. «Non ci ho dovuto pensare molto. Certo, lascio Arcabuco, la mia città, la mia famiglia ed i miei amici, ma so che loro sono orgogliosi di quello che sto facendo. Quando sono partito erano dispiaciuti, ma nei loro occhi si leggeva tanta dignità, tanta fierezza».

Accanto a lui c’è Gianni Savio, il team manager dell’Androni Giocattoli Sidermec. «Alla Vuelta al Táchira, in Venezuela, l’ho preso da parte e da padre gli ho detto: “Santiago, per molta gente tu sei un personaggio. Se farai bene, ti si avvicineranno in molti, si fingeranno amici, cercheranno di starti al fianco. Ricorda queste mie parole: non tutti saranno amici veri, sappi distinguere”. E Santiago mi ha guardato e con il suo solito sguardo colmo di educazione mi ha detto: “Lo so, Gianni. Ultimamente ci sono tante persone che mi cercano e che fino a qualche mese fa non mi guardavano neanche”. Non è solo forte in bicicletta, è anche di una maturità rara».

La stessa consapevolezza che traspare quando gli chiediamo di parlarci del suo carattere. «Mi piace la compagnia, mi piace ridere e scherzare, del resto a chi non piace? Ma nella vita bisogna saper distinguere. In certi momenti si può ridere, in altri serve serietà, testa bassa e lavorare».

Arcabuco è ormai distante e la sera che scende su Alassio è quanto di più distante da quella che vedeva dalle tende di casa sua, quando seguiva le imprese di Quintana in televisione. «Il calcio come il ciclismo ti permette di guadagnare molto e di migliorare la tua posizione economica. Io però non ho scelto la bicicletta per questo. Io l’ho scelta per realizzare un sogno».

Santiago Umba al suo primo allenamento in Italia con la maglia della Androni. (Foto: Luigi Sestili)

Matteo Malucelli si è sorpreso delle sue doti sui pedali proprio quando ha vinto la prima tappa della Vuelta al Táchira: i compagni che avrebbero dovuto far parte del suo treno sono caduti e Umba si è messo davanti a tirare per lui. Non solo. Dopo tre tappe complesse, Savio lo ha messo in guardia: «Non forzare la gamba, domani è una tappa difficile. Se non riesci a stare con i primi, lasciali andare». Santiago Umba, però, si mette in testa al gruppo. «All’arrivo gli ho fatto i complimenti – prosegue Savio – e gli ho chiesto come stesse. Sapete cosa mi ha risposto? “Come sto oggi? Ma oggi sto meglio di ieri!”. Incredibile».
«Ho il fisico da scalatore, ma ho anche spunto veloce e mi piacciono gli sterrati. Dovrò lavorare sulla velocità perché lo spunto non basta. Lo sprint è strategia pura: mi guardo intorno e cerco di imparare. Alla fine ho sempre fatto così. Anche ora che sono qui in Italia: voglio conoscere, voglio capire, sono curioso. Anche quando voi parlate italiano, io ascolto e provo a vedere quanto capisco». In Colombia lo paragonano a Julian Alaphilippe per caratteristiche e spirito. «Posso dirlo? Vorrei essere come Julian Alaphilippe. Vorrei vincere un mondiale e far vedere la mia maglia a tutto il mondo».

Umba appena tornato dal primo allenamento si è avvicinato a Giovanni Ellena: «Sai che sono appena caduto?». Ellena sorride come prima reazione. «Pensa che Bernal alla prima uscita con noi cadde dopo un paio di rotonde. Visti i precedenti, direi che promette bene, no?»

Ora noi possiamo immaginare gli occhi dei suoi genitori quando lo hanno salutato, li possiamo immaginare perché di sicuro somigliano molto agli occhi di Santiago mentre guarda Savio ed Ellena. «Mi trovo nel luogo in cui avrei sempre voluto trovarmi. Quando ho firmato il contratto avevo diciassette anni e mi hanno dovuto supportare i miei genitori, ma io dopo quella firma mi sentivo già qui. Capisci cosa intendo?». Lo capiamo noi e lo capisce anche Gianni Savio che gli mette una mano sulla spalla e inizia a parlare, a voce più bassa. «Questa è la tua intervista e sei arrivato qui da una manciata di ore. So che sei stanco e non vedi l’ora di andare in camera a riposare. Ricordati di questa intervista perché ne farai tante altre e racconterai tanto di te, tutto quello che vorrai. Ricorda questa intervista perché diventerai un grande. Ci proviamo? Scommettiamo? Ora vai a riposare. Domani ricomincerà tutto e tu sarai pronto».

Foto: Luigi Sestili


La storia di Natnael Tesfatsion

Il suo vero nome è Natnael Tesfatsion, ma in Androni Giocattoli Sidermec per tutti è “Natalino”. I massaggiatori ci raccontano che dopo vari tentativi e vari nomi sbagliati, glielo hanno chiesto: «Ti piace Natalino?», lui ha acconsentito e da allora il suo nome è quello.

Natnael è esattamente come potete immaginarvelo: tantissimi capelli ricci e un sorriso solare che si intravede anche dietro la mascherina. Ci racconta subito che non parla molto bene l’inglese ma, in compenso, conosce molte parole italiane. «Dopo la colonizzazione molti termini sono rimasti anche nel nostro linguaggio. Per esempio tutti quelli che riguardano la bicicletta: freno, manubrio, forcella, catena, rapporti. Non solo: anche scarpe e ciabatte. La prima volta che sono sceso a cenare in ciabatte i miei compagni ridevano e scherzavano, mi prendevano in giro. Li ho avvertiti: guardate che ho capito, so cosa sono le ciabatte». Racconta e sorride.

Poi ride di gusto pensando al suo arrivo in Italia. «Sono arrivato a marzo e nonostante qui si parli di primavera, io stavo congelando. Noi siamo abituati a venti gradi costanti, sono arrivato in maniche corte. La signora che mi ha ricevuto mi ha detto: «Ah ma allora sei già abituato alle nostre temperature, non le soffri». Non sapeva che ero praticamente ghiacciato». Natnael è nato ad Asmara, in Eritrea. «Qualunque cosa dicessi di Asmara, sarebbe una frase fatta. Sì, è la mia città natale ed è la mia terra. È il luogo dove vive la mia famiglia. Asmara è una vecchia città per bene. C’è aria di accoglienza, voglia di essere ospitali, di stare insieme. A noi piace la compagnia».

«Non sono il più bravo fra i ciclisti eritrei. Ce ne sono tanti meglio di me, ma purtroppo non hanno la possibilità di venire in Europa e correre qui. Sarebbero bravissimi, sarebbero l’orgoglio di tanti bambini che da grandi si immaginano vincitori del Tour de France, in maglia gialla. Anche io facevo quel sogno da piccolo. Lo faccio ancora oggi. Però è difficile, per loro è difficile anche solo pensare di intraprendere questa strada».

Vive a Lucca. «Mi piace molto la mia nuova città. Lì vicino c’è Pisa, con la sua Torre pendente e l’aeroporto. Per noi è un modo per sentirci vicino a casa, sappiamo che possiamo ripartire quando vogliamo. Ci dà sicurezza. Se ci fate caso tanti ciclisti eritrei vivono a Lucca o a Pisa». In Italia gli piace molto la pizza, di Asmara sente la mancanza di un piatto chiamato Injera. «Non saprei spiegare come è fatto, ma devi fidarti: è buonissimo. Se ci rivediamo te lo faccio assaggiare».

Natnael è molto religioso, per questo ha chiesto che il giorno di riposo possa essere la domenica, perché vuole andare a messa. Il suo credo pervade ogni campo, come un’essenza. «Sono uno scalatore, mi piacciono le montagne, mi piace scalare. Mi piace arrampicare. Tra l’altro, essendo scalatore, sento più vicino a me quel sogno: il Tour de France. Gli scalatori possono vincere il Tour. E a prescindere da questo, io sono certo che chiunque lavori duro, seriamente, possa fare grandi cose. Anche se sembrano impossibili. Se ti impegni, devi crederci, ci arriverai. Se non potessi realizzarle, non avresti neanche la possibilità di sognarle. Ne sono certo».

Foto: Luigi Sestili


I significati della fuga: intervista a Mattia Bais

Mattia Bais è cresciuto con l’insegnamento dei fatti. «Mio papà è imprenditore edile ed ogni mattina si alza prestissimo per andare a lavorare. Pochi fronzoli, solo la consapevolezza di dover fare il proprio dovere». Che poi il ragazzo trentino abbia una certa idea del ciclismo, forse, è solo la conseguenza. «Da grande vorrei essere come Thomas De Gendt, come Alessandro De Marchi. Puoi fare qualunque cosa nella vita ma non devi dare nulla per scontato, perché, di base, non ti è dovuto nulla. Io volevo diventare un ciclista professionista e ci sono riuscito, mi sentirei in grato se non ci mettessi tutto me stesso in ogni gara. De Gendt e De Marchi fanno questo. Andare in fuga è uno dei tanti modi per fare questo».

Bais gesticola, attorciglia le mani, come se stesse plasmando il pensiero proprio con quelle mani. «Non credo di aver mai avuto alcuna dote eccezionale. Sono sempre stato uno dei più minuti del gruppo: nelle categorie minori quando scattavo sorprendevo tutti, forse perché non se lo aspettavano. Quello che sono l’ho costruito. Se passi da un percorso simile al mio, certe cose fanno talmente parte di te da non riuscire più a rinunciarci. Fanno parte di te perché senza di loro, tu non saresti qui».

Mattia Bais parla della fuga, dell’essere fuggiaschi. «La libertà della fuga è un qualcosa di diverso dalla libertà del ciclismo. In fuga devi volerci andare. Si tratta di quella libertà che solo la fatica ti permette di conquistare. Non c’è libertà, senza fatica». Come quella volta al campionato italiano 2019, quando in fuga dal mattino si fermò a due giri dal traguardo e su un marciapiede parlò con Gianni Savio. «Savio ha capito subito tutto il senso che ha per me la fuga, l’essere davanti da solo a imporre il proprio ritmo. Ma, se ci pensi, lo capisce qualsiasi persona che sia sulla strada a guardarci. In certi tratti di di strada non può succedere praticamente nulla. Il massimo che ti può capitare è di vedere qualche coraggioso che va via da solo. La gente si entusiasma a vederti scattare in testa al gruppo, anche se mancano duecento chilometri e la domanda più logica da fare sarebbe: “Dove credi di andare?”. La gente non te lo chiede perché lo sa. Lo ha provato sulla propria pelle più volte di quante tu possa immaginare».

Bais racconta che quando scatta non si chiede quasi mai come andrà a finire. «Devi usare la testa in quel momento. Devi controllare i tuoi avversari, studiare il percorso e sapere cosa vuole il gruppo. Solo così puoi pensare di sorprenderlo. La fuga è un’avventura e come ogni avventura richiede istinto, coraggio, sfrontatezza ma anche pianificazione, progettazione».

La sua fuga più cara è quella dello scorso anno alla Milano-Sanremo. Quando è tornato a casa, si è messo davanti alla televisione e si è rivisto la corsa. «Quando sentivo il mio nome avevo la tentazione di tornare indietro e riascoltare da capo perché non ci credevo. Come appena passato professionista quando lo dicevo e nessuno ci credeva, ma in realtà ero io stesso a non crederci. Credo sia stata la Sanremo più lunga della storia, io ho fatto 275 chilometri in fuga, davanti a tutti, sono arrivato al traguardo, l’ho conclusa. E mi sono detto subito: “Qui voglio ritornarci e voglio rifare lo stesso”. Perché poi ti riprendono, poi non vinci, poi arrivi sfinito e mentre gli altri festeggiano ti accasci da qualche parte. Quello che provi in quei momenti vale tutto questo e non te lo può raccontare nessuno. Lo sai se lo hai provato».

In quei momenti non c’è quasi nessuno e chi c’è vale tutto. «Il direttore sportivo è la nostra guida e questo vale sempre. Il rapporto con lui lo costruisci quando sei a tutta, quando sei sfinito, quando puoi solo fare fatica. Quando sei solo in un tratto di strada in cui non c’è nulla e senza la sua voce ad incitarti, senza quella borraccia piena d’acqua o quel panino, non sapresti nemmeno più cosa pensare. Senza quella voce, in certi istanti, ti fermeresti a bordo strada ad aspettare il gruppo. Forse non ci pensiamo abbastanza ma siamo debitori a chi ci guida. Perché la strada la perdiamo tutti, prima o poi. La fuga è un’opportunità per ritrovarla».

Foto: Luigi Sestili


Storie di terre e di pedali: intervista a Giovanni Ellena

Giovanni Ellena era a pochi chilometri da Alassio, a Laigueglia per la precisione, quando nel 2006 entrò in sala per la prima riunione da direttore sportivo. «Entrai in questa sala e tutti si voltarono a guardarmi. Sono timido, introverso, puoi immaginare come mi sia sentito. Ero un direttore sportivo che non era mai stato professionista, solo dilettante. Alcuni colleghi mi avevano conosciuto durante un corso organizzato dalla federazione nel 2002 e avevano apprezzato questa mia timidezza, questo mio essere silenzioso. Ma io avevo paura, una paura incredibile. Però quando salivo in macchina mi passava, terminavo le corse quasi senza accorgermi».

Giovanni smette di correre perché deluso, da se stesso, dalla propria genetica, sa di non poter essere un campione ma vuole lavorare, fa il lavoro più distante da ciò che è: l’agente di commercio. Torna nel ciclismo per questioni affettive, perché quando accompagna dei ragazzi in allenamento, e poi alle gare, si rende conto che non vuole essere da nessun’altra parte se non lì. «L’unica volta in cui presi sette a scuola fu un tema di geografia: non perché fossi particolarmente bravo in geografia, ma perché conoscevo l’argomento, perché sapevo cosa dire. Io qui mi sento al mio posto ma allo stesso tempo mantengo l’idea di essere l’ultimo arrivato con una continua voglia di imparare. Non c’è nulla di filosofico, è quello che ti permette di restare in piedi».

Ellena parla dell’allenamento di ieri: offre un panino con il prosciutto a Natnael Tesfatsion, lui lo rifiuta. «Essendo ortodosso, a mio avviso poteva mangiare il prosciutto, così sono andato in camera da lui e ho cercato di capire. Ieri sera ho letto, mi sono documentato. Il maiale ha due unghie, per loro questo ricorda il diavolo. Vedi? Devi studiare e farti un esame ogni mattina. Altrimenti rischi di essere offensivo, di essere blasfemo».

Questo approccio volto alla comprensione è il grande credo di Ellena. Pochi giorni fa, Giovanni si è recato a prendere Andrii Ponomar, uno dei nuovi acquisti della Androni Giocattoli Sidermec, in aeroporto. «Non ha parlato per due, tre giorni. Non credo sia timido, è solo figlio della sua terra, forse un po’ freddo. Siamo stati a Torino a fare una visita cardiologica. Al ritorno l’ho guardato e gli ho detto: “Ma hai visto Zootropolis? Quel medico assomigliava da matti a Flash, il bradipo”. Gli si è accesa una lampadina ed è scoppiato a ridere: “Flash! Flash!”. Adesso, ogni volta che mi vede sorride e mi dice “Flash”. Per dire quanto basti poco. Ognuno ha una sua chiave per aprirsi».

In questi giorni Ellena ha aiutato anche Santiago Umba con le pratiche del volo, l’altra notte alle tre era sveglio per preparare tutte le carte, ma non solo. «In sostanza l’ho messo in sella in collegamento Skype. C’era suo papà che lo filmava sui rulli ed io gli spiegavo come fare. Secondo me può fare molto bene anche in volata, ha i numeri». Questi sono i ragazzi su cui Androni ha sempre scommesso. «Le cose sono cambiate radicalmente dai tempi di Rujano e di Serpa. Loro sono arrivati qui già adulti, sapevano già bene cosa fare. Con Sosa e Bernal è stato diverso: loro sono cresciuti con noi, erano ragazzini. Significa lasciare la propria terra e ritornarci, forse, due volte l’anno. Quanto è difficile? Sosa viveva in una cascina in mezzo ai campi, in una casupola. Ora vive con Egan Bernal e altri connazionali in un albergo-ristorante nel canavese. Il proprietario di questo ristorante ha delle galline: lui si sente a casa, la mattina scende e dà da mangiare alle galline».

Piera, la padrona di casa, racconta che Sosa la aiuta ad alzare le tapparelle del locale. «Il problema è che lui le alza anche al lunedì e noi al lunedì siamo chiusi». Così questi ragazzi vivono nel canavese ma si sentono in famiglia, cenando in cucina davanti a un camino, con le persone che gli vogliono bene. Poi c’è Wladimir, componente del fan club di Bernal, che ha un murales a casa con Egan in maglia gialla a Parigi. «Wladimir aveva detto a Egan che il giorno in cui avesse vinto il Giro d’Italia o il Tour de France, avrebbe dipinto la casa del colore della maglia. Bernal appena ha vinto lo ha chiamato ricordandogli la scommessa. Tu pensa che sapendo che avrei cercato di mediare, quella sera a cena non mi hanno nemmeno invitato. Che personaggio! Quando Bernal ha vinto al Tour de l’Avenir, Wladimir era sui tornanti: lo hanno sentito gridare da tre tornati più sotto. Ti rendi conto della passione?».

Dopo la notizia dell’esclusione dal Giro d’Italia, Giovanni Ellena non ha parlato per tre giorni. In ritiro, dopo diversi mesi a casa, ha ripensato a tutta la sua carriera, l’ha rivista al rallentatore, gli venivano in mente solo domande, tante domande. Si è ricordato degli inizi, di quel 2006, di quella signora della federazione che gli disse: «Ti auguro di durare molto, ma questo non è il tuo ambiente». Ripensa alla struttura di preparatori che Androni aveva messo in piedi negli anni, ai tecnici e ai preparatori che ora sono affermati professionisti. A tutto ciò che era possibile. Ripensa a quando, appena quarantenne, sbagliava approccio e cercava l’amicizia dei corridori: oggi sa che non va bene e non lo fa più. «C’è un bel rapporto con loro, ma non sono loro amico: se devo rimproverare un ragazzo lo faccio, se devo escluderlo per il bene della squadra lo faccio. Si tratta del mio lavoro e l’amicizia farebbe male».

Fra le tante domande, una lo assilla particolarmente: «Giovanni, sei sicuro che questo sia il tuo lavoro?». Una domanda che fa paura, una domanda che non mostra ai ragazzi, invitandoli a credere che un giorno saranno come Sosa, come Bernal, una domanda a cui poi deve darsi risposta. Ed Ellena quella risposta se l’è data qualche sera fa. «Ho una bella famiglia, una moglie, due figlie e un cane che adoro. Quando accadono queste cose pensi a loro. Ti dici che forse potresti anche fregartene e vivere più tranquillo. Quante cose si dicono? Quante? Sono bugie. Io sono venuto qui e non ho saputo fare nulla di diverso da quanto facevo prima. Sono fatto così e questo lavoro so farlo solo in questo modo. Non so se sia giusto. So che diversamente non saprei lavorare».

Foto: Luigi Sestili


The Dirty Job

Words: Filippo Cauz
Voice: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Sint-Jansvliet è una piazzetta al margine del centro di Anversa. Più che una piazza sembra un viale troncato, largo e corto, nel quale il traffico ha lasciato il posto alla socialità. In mezzo c’è un campetto da pallacanestro, circondato da un perimetro di alberi che separano l’area centrale della piazza, dedicata al mercato settimanale, ai negozi dei bassi palazzi che si affacciano. Piccoli ristoranti, un kebab, un altro specializzato in toast francesi, sull’angolo più esterno la grossa scritta Duvel richiama gli assetati verso un bar. Sint-Jansvliet è una piazza come ce ne sono a centinaia in tutte le città e i paesi delle Fiandre, del Belgio, della Francia… se non fosse che uno dei suoi lati sarebbe segnato dal grande viale che scorre parallelo alla Schelda, il fiume delle Fiandre. Ma da Sint-Jansvliet non si vedono né il fiume né la strada che lo costeggia, la visione è riempita da un grosso cubo color ocra, che ricorda una vecchia centralina elettrica, o forse una fermata della metropolitana d’epoca. E in effetti si tratta di un varco per scendere sotto terra, è l’ingresso del tunnel pedonale di Sant’Anna, o semplicemente De Voetgangerstunnel.

Fu nella seconda metà dell’800 che gli abitanti di Anversa cominciarono a interrogarsi su come connettere le due rive della Schelda, dopo che il rilancio della città voluto da Napoleone l’aveva portata ad espandersi anche sulla riva sinistra. Inizialmente si pensò a un ponte, ma ogni progetto finì per essere scartato: Anversa è una città che vive del traffico fluviale, un ponte avrebbe rappresentato un ostacolo eccessivo. Fu così che si arrivò allo scavo del tunnel di Sant’Anna, inaugurato nel 1933 e rimasto intatto come allora. Due caselli d’ingresso, 572 metri di piastrelle di ceramica bianca. E a congiungere le due bocche della galleria con la superficie, le scale mobili. Quattro rampe di listarelle di legno che si muovono incessantemente sin dagli anni ’30, sottolineando il battito cardiaco sottocutaneo della città di Anversa con il loro incessante tlac tlac. Le scale mobili furono una novità assoluta allora, e questo esemplare di Anversa è qualcosa di ancora unico al mondo, un slancio nel futuro del passato.

Ho ripensato a lungo alle scale mobili di Aversa lo scorso 12 dicembre, il giorno in cui la città delle Fiandre ha ospitato la sedicesima edizione dello Scheldecross, la gara di ciclocross cittadina. Era un appuntamento importante per questa stagione, perché segnava il rientro in corsa del fenomeno dei nostri tempi: Mathieu van der Poel. In una situazione normale, in un qualsiasi sabato delle Scheldecross, il tlac tlac di quelle scale mobili si sarebbe fatto assordante. Meccanismi vecchi di decenni sarebbe stati messi ancora una volta a dura prova dal trasferimento, andata e ritorno, di migliaia di spettatori. Tanti e tutti assieme all’andata, nel tarda mattinata in cui il sole d’inverno prova a scaldare e non ci riesce. Più alla spicciolata al ritorno, i primi alle cinque, gli ultimi alle otto di sera, stremati dal freddo ma esagitati dal tasso alcoolico. Lo scorso 12 dicembre però non è successo nulla di tutto ciò: le scale mobili sono rimaste deserte, nessuno ha dovuto percorrere il tunnel, risalire, e camminare le poche centinaia di metri che separano da Sint-Annastrand, la spiaggia di Sant’Anna, che a chiamarla spiaggia per noi ci vuole una certa fantasia, ma per la gente di Anversa questo è. Col parco circostante nei cui terreni si snoda il percorso dello Scheldecross, con le lingue si sabbia che immettono all’ultimo rettilineo costeggiando la Schelda.

Lo Scheldecross si è corso come ogni anno. Mathieu van der Poel ha vinto come ogni anno. Ma l’ordinarietà si conclude qui. Il resto sono scale mobili deserte, parchi deserti, spiagge deserte, e uno spettacolo sportivo che si svolge a sola misura delle telecamere, con il pubblico chiuso fuori, chiuso a casa dalla pandemia che ha reso questa stagione del ciclocross, così come qualsiasi altra cosa, un evento unico.

Quella di Anversa è una gara in città, una rarità del calendario, e forse proprio per quello risuona ancora più forte il silenzio, in un contesto già di suo affollato e rumoroso. Ma il pubblico alle corse di ciclocross non manca mai. E non sarebbe mai mancato nemmeno quest’anno. Non a Lokeren o a Gieten, dove la stagione si apre prima ancora dell’autunno. Non sulle pendenze del Koppenberg, dove le strade del ciclocross si incrociano con quelle del Giro delle Fiandre. Non a Niel, dove sin dall’autunno del ’63 i crossisti sono chiamati a celebrare la chiusura della fiera locale come se fosse una giostra medievale. Non a Namur, che i fiamminghi chiamano Namen, dove è necessario mettersi in fila come in montagna per risalire i pendii fangosi appigliandosi a corde fissate agli alberi. Non al Druivencross di Overijse, ritenuto la madre di tutti i cross, che ha segnato l’ultima corsa prima del mondiale. Non al Duinencross di Koksijde o a Zonhoven, unica corsa per la quale è necessario allestire due sound-system: uno al traguardo e uno in mezzo al Kuil, il pozzo di sabbia simbolo della corsa, dove il dj si attiene esclusivamente a musica tecno a tutto volume mentre dal palco vengono sparate lingue di fuoco nel cielo.

Koksijde e Zonhoven che sono due corse talmente amate e partecipate che quest’anno non sarebbe stato possibile organizzarle nemmeno a porte chiuse. Il 2020 nei loro albi d’oro sarà segnato da una riga vuota, seppellito sotto una manciata della sabbia che rappresenta l’elemento distintivo di entrambe le prove. Annullate proprio nella stagione culminata con il campionato del mondo più sabbioso dal 2012. Su una curva del circuito iridato uno sponsor ha finito persino per piazzare del pubblico finto. Sagome e tribune di cartone già viste durante alcune gare invernali; ai campionati nazionali belgi a Meulebeke c’erano persino dei boati registrati al passaggio dei corridori. Di certo le immagini sempre più raffinate di droni e telecamere mobili hanno colto tanti dettagli della corsa, regalato impressionanti scorci marittimi, ma non hanno potuto mostrare nessun pubblico. In sottofondo non ci sono stati applausi, boati o cori, e ancora una volta è stato un weekend senza musica.

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Fino al 2020 sembrava impossibile scindere il ciclocross dalla musica, perché la musica è festa, ballo, rito orgiastico che si sposta un fine settimana dopo l’altro in ogni provincia delle Fiandre e non solo. “Baraonda, fracasso, musica popolare, festa, il mondo alla rovescia, disordine, talvolta tumulto”, così lo storico Fernand Braudel raccontava le fiere fiamminghe del medioevo. Così si sarebbe potuto definire ogni appuntamento ciclistico invernale, dove la gara scorreva fuori dal tendone del bar, circondandolo e abbracciandolo, e la festa si consumava lì in mezzo, a suon di birra e ballo. Sembrava inimmaginabile un ciclocross silenzioso, in cui scatti e inseguimenti non fossero accompagnati dai ritornelli di “Jodeljump”, “Boven op de berg”, “Manuela”, “Ik moet zuipen”… talvolta persino da “Dancing queen” o da “You’ll never walk alone”, sino ad arrivare all’apoteosi finale, all’ultimo giro scandito da “Viva de cyclocross”, dalla “Tom Boonen” di DJ Goldenboy, dal travolgente ballo di “Links Rechts”. Sembrava impossibile, e invece si poteva, è successo.

Anche nel 2020 si è corso ad Anversa, e il tendone del bar nemmeno c’era. Il giorno dopo si è corso a Namur, in un assordante silenzio. E si è corso a Niel, a Gavere, a Essen, a Zolder, a Baal, a Hamme. Si è corso in ogni provincia delle Fiandre, proprio come negli stessi mesi si è corso in Svizzera, in Francia, in Italia, in Repubblica Ceca, in Spagna. Sarà un caso, o forse no, che le due gare più spettacolari della stagione si siano disputate su due circuiti inediti, lontani dagli abituali pellegrinaggi dei tifosi: Herentals e Dendermonde.

Silenziosamente, ma si è corso. Sfidando persino gli stessi equilibri economici degli organizzatori, i cui guadagni vengono sì da sponsor e dirette televisive, ma soprattutto dal pubblico. Alle gare di ciclocross gli spettatori pagano un biglietto e svuotano i portafogli in cibo e birra. Gli stessi sponsor allestiscono tendoni riservati a VIP e invitati che ospitano oltre mille persone. Sembrerebbe quasi che mancassero tutte le ragioni per correre, ma non è così.

Si è corso come una processione religiosa, come per compiacere gli dei del ciclismo e nulla più. Immaginate se durante il confinamento si fossero celebrate le messe ugualmente, ma senza i fedeli. Ogni sacerdote a porte chiuse dentro la sua chiesa, da solo. Nel ciclocross è successo, sta succedendo. La religione della bicicletta ha avuto la forza di superare anche questo inverno a partire dalla regione dove il culto è celebrato con più sacralità, la terra dove i campioni diventano semidivinità.

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Il ciclismo vive di grandi eroi, di nomi unici, dell’impellenza quotidiana del passare alla storia. Quando vengono a mancare questi grandi eroi, nel ciclismo si apre una voragine. È una lacuna che ha rischiato di gravare sul ciclismo moderno in questo secolo, almeno nella sua accezione più popolare, il ciclismo su strada maschile. Forse per il dolore della scomparsa di Pantani, forse per la caoticità dell’affare Armstrong, forse per la polarizzazione da tifo che ha riguardato i vari Boonen, Gilbert, Cavendish, Valverde o Sagan… In un ciclismo pieno di campioni è mancato l’uomo solo al comando, l’eroe in grado di sollevare un popolo transnazionale, umano. Nel ciclocross tutto questo non è accaduto. 

Le corse nel fango sono state trascinate nella modernità a colpi di pedale da una creatura divina, o forse diabolica. Sven Nys da Baal, simpaticamente soprannominato cannibale, ha preso un ciclocross confinato in un angolo e lo ha traghettato nel mondo. Sven è stato l’idolo dei bambini in Belgio e nei Paesi Bassi, il modello per tutti i corridori, la figura più fascinosa nel resto del mondo. E quando si è chiusa l’era di Nys, quando si pensava che il ciclocross dovesse tornare nelle secche, ecco arrivare l’ancora di salvezza: una rivalità. Non una qualsiasi, un duello globale tra due campioni che promettono di segnare un’epoca, e che questo scontro lo vivono per tutte e quattro le stagioni dell’anno.

Eppure non è stato un passaggio facile. L’esplosione dei numeri e dell’interesse registrata nell’era Nys subì un momentaneo rallentamento al momento del passaggio di testimone: i costi non smettevano di lievitare, ma i guadagni avanzavano a rilento. Certo, in campo femminile si volava altissimo, inaugurando una piccola età dell’oro che è tutt’ora in corso. Tra le donne questo sport non ha mai vissuto un livello così alto. Tra gli uomini è stato necessario invece uno scatto in avanti, dopo quella prima flessione, e lo scatto è avvenuto nel momento in cui i due rivali hanno acquisito una dimensione globale.

Per quanto accomunati dallo stesso curriculum e da una crescita che ha condiviso i medesimi sentieri sin dalla più tenera età, è difficile non notare come Mathieu van der Poel e Wout van Aert siano due corridori diversissimi. Da una parte c’è un concentrato di talento assoluto quale è Van der Poel. Un talento rintracciabile già risalendo la scala del suo DNA, con papà Adrie, plurivincitore di classiche e tappe, che è forse il ciclista più simile all’attuale Mathieu, e nonno Raymond Poulidor, il secondo più forte interprete del Tour de France tra gli anni ’60 e ’70. Van der Poel che fonde grazia e potenza con l’armonia di un animale selvaggio: quando spinge a tutta pare un bisonte lanciato libero in una prateria, semplicemente inarrestabile. Dopo il mondiale dello scorso anno, il giornalista nederlandese Thijs Zonneveld descrisse la sua vittoria con la drasticità di un meteorologo: «Si poteva solo fermarsi a fissarlo, nello stesso modo in cui si guardano i temporali». Dall’altra parte c’è quel concentrato di tenacia che prende il nome di Wout van Aert, un monumento vivente alla resistenza. Più le corse si fanno dure, più il destino si accanisce contro di lui, più Van Aert eccelle. E’ come se doversi trovare a litigarsi ogni risultato contro il ciclista più talentuoso di quest’epoca abbia fatto di Van Aert un supereroe, una sorta di infrangibile Iron Man a pedali.

Guardarli battersi è una gioia per gli occhi, è il più grande spettacolo offerto dal ciclismo degli ultimi anni. E poco importa che la rivalità nel ciclocross sia ormai completamente sbilanciata, con Van der Poel che nelle ultime tre stagioni ha vinto 65 gare sulle 70 a cui ha partecipato. Nelle 35 volte in cui i due si sono scontrati nello stesso intervallo di tempo, van Aert è riuscito a precedere il rivale i sole cinque occasioni. Certo, si potrebbe rilanciare con le corse su strada. La stagione 2020 ha visto van Aert quasi superare il rivale, se non altro almeno affiancarlo dopo che il rapporto sembrava segnato anche cambiando il terreno di scontro. Ma l’immagine conclusiva è il photofinish del Giro delle Fiandre: i due sono pressoché affiancati, ma davanti c’è Van der Poel. A dividerli però c’è una manciata di centimetri, mezza spanna al massimo. Ma i numeri non bastano a descrivere una rivalità, non sono i risultati a tenerla in vita.

Ci riuscirebbero meglio i chilometri: sono solo 36 quelli che separano Herentals, paese natale e residenza della famiglia Van Aert, da casa Van der Poel, a Kapellen. Mezz’ora di automobile nelle campagne a nord-est di Anversa, puntando verso il confine con i Paesi Bassi, ma senza raggiungerlo, perché per quanto indossi la maglia oranje, anche Mathieu è nato e ha sempre vissuto nelle Fiandre. La rivalità più accesa e intrigante del ciclismo mondiale è un derby. Una sfida che ha respinto senza appello tutti i possibili terzi incomodi ed è ormai ampiamente travalicata nel ciclismo su strada. È quest’ultimo aspetto a rendere ancora più straordinaria la rivalità tra van Aert e van der Poel: li accomuna una concezione globale del ciclismo, che li porta a sfidarsi su ogni terreno e in ogni stagione, a partire dall’inverno fiammingo. Il pubblico del ciclismo non aspettava altro da anni, soprattutto dopo l’ultima stagione su strada che ha proiettato ulteriormente le loro due stelle nel firmamento, e forse ridotto un po’ le distanze tra i due. Già, perché i numeri nel ciclocross ormai parlavano chiaro, tutti tranne uno. Restava un solo elemento di parità tra i due, un solo campo in cui il derby non aveva ancora emesso una sentenza, ed era il conteggio più importante di tutti, quello dei titoli mondiali.

Per risolvere l’ultima disputa, Van Aert e Van der Poel hanno tirato il fiato a breve al termine della stagione su strada, nonostante fosse stata un’annata follemente spremuta in pochi mesi che aveva spremuto a fondo tutti i partecipanti. Eppure tra fine novembre e metà dicembre si sono ributtati nel fango. Per divertirsi, per fare il proprio lavoro, per lanciarsi verso il momento che più di ogni altro suonava come una resa dei conti. Non vi è motivo di dubitare del fatto che Van Aert e Van der Poel continueranno a fare ciclocross nei prossimi anni, ma è ormai evidente che la spinta delle loro squadre è verso le corse su strada, che portano più visibilità a livello mondiale, più interesse, più ricchezza. Non sarebbe la stessa cosa se si rimanesse nel raggio dei pochi chilometri da casa loro, dove la carriera dei campioni del fuoristrada è più remunerativa di chi corre nella stagione calda, ma benché i due siano divisi da 36 chilometri, la loro ambizione è il mondo. Per questo sono tornati, si sono battuti senza risparmiarsi e trovandosi a livelli vicinissimi come non capitava da tempo, e infine si sono preparati per salpare verso l’ultimo arrembaggio.

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Ostenda è la città di mare delle Fiandre. E’ situata esattamente a metà dei soli 60 chilometri di costa del Belgio, al Mare del Nord deve le sue fortune e le sue sventure. Fondata nel nono secolo sull’isola palustre di Testerep, già nel giro di un paio di secoli l’innalzamento delle acque obbligò gli abitanti a spostare la città nell’entroterra. La lotta contro le inondazioni fu una presenza costante nella città, che fu costretta a costruire dighe e fortificazioni per difendersi dal suo mare, quello stesso mare che anche quando era quieto nascondeva rischi, perché era la via da cui giungevano assalti e razzie provenienti dai regni circostanti. Eppure il Mare del Nord era allo stesso modo una ricchezza: per tutto il medioevo Ostenda si affermò grazie ai commerci del suo porto e alla pescosità delle acque, sino a guadagnarsi il soprannome di Koningin der badsteden, la Regina delle città di mare. Alla fine del 1800 i reali belgi decisero di convertire il vecchio forte costruito dagli inglesi ad Ostenda in un complesso sportivo, che diventava un prolungamento ideale del colonnato delle Gallerie Reali affacciato sulla spiaggia. L’ippodromo mantenne il nome attribuito al forte, Wellington, e diventò uno dei principali impianti d’Europa, tanto da ospitare anche le prove di ippica alle Olimpiadi del 1920. Il suo declino arrivò in epoca moderna, quando si trovò più spesso destinato ad altri scopi più consoni alla nuova vocazione turistica della città: concerti, tornei di golf, gare di sci di fondo. E nel 2021, il campionato del mondo di ciclocross, la sfida più attesa, quella che in Belgio è stata definita “l’ora più bella di tutto l’inverno”.

Limitare un mondiale di ciclocross, per quanto ridotto nel programma come in questa occasione, soltanto all’ora conclusiva suona un po’ estremo. In questo caso forse anche ingiusto nei confronti di chi come Lucinda Brand, Fem van Empel e Pim Ronhaar a Ostenda ha conquistato una maglia iridata, spesso al termine di corse dure e spettacolari. Ma il mondiale del 2021 ruotava tutto intorno al duello, al derby, a quello che in tanti hanno identificato come il campionato del mondo più atteso di sempre. Benché ad attenderlo, sulla ventosa spiaggia di Ostenda, non ci fosse quasi nessuno.

E poteva andare peggio, poteva rimanere completamente deserta la spiaggia, se il campionato del mondo non fosse stato salvato per due volte nell’arco di pochi mesi. La decima rassegna iridata ospitata dal Belgio aveva rischiato a lungo di non potersi disputare per ragioni economiche. Al loro secondo mondiale, gli organizzatori si sono trovati da dover passare dai 60mila spettatori che parteciparono ad Hooglede-Gits sino agli zero del 2021. 60mila biglietti di ingresso in meno, se non di più considerata l’attesa per l’edizione di quest’anno, e un numero ancora più grande di litri di birra venduti in meno. Sono dovuti intervenire il governo delle Fiandre e la municipalità locale per coprire i costi della rassegna, ma persino il loro sforzo sembrava inutile davanti alla nuova impennata di contagi, che ha rischiato di lasciare la stagione senza l’appuntamento più atteso, facendo tremare gli appassionati sino a una settimana prima della gara. Eppure, ancora una volta, si è corso.

2’900 metri di circuito, diviso tra i 600 metri di sabbia del lungomare, i 1300 metri di erba, i 400 metri dell’enorme ponte d’acciaio con pendenze al 21%, i 400 metri della pista in cenere dell’ippodromo e i 200 metri asfaltati del rettilineo finale. Un conteggio da cui mancano i passaggi in cui i corridori si sono spinti a pedalare direttamente sull’acqua, chi per cercare un fondo più stabile, chi per ripulire la bici appesantita dal fango, chi come Van der Poel semplicemente per rinfrescarsi le gambe surriscaldate. Un passaggio quasi biblico nel mare gelato, che ha ricordato in maniera plastica quanto nel ciclocross sia importante saper galleggiare, indovinare traiettorie che si possono soltanto immaginare e scegliere così la via più azzardata per mantenere il proprio mezzo in equilibrio e lanciato in velocità. Nove anni fa, Van Aert e Van der Poel incrociarono per la prima volta le proprie ruote in un mondiale sulla sabbia, era la corsa juniores di Koksijde e fu la prima maglia iridata di Van der Poel. Riguardare le immagini di quella corsa oggi è uno strano cortocircuito temporale. I due appaiono effettivamente come i ragazzini che erano: Van der Poel più sviluppato aveva già lineamenti simili a quelli odierni, mentre il volto di Van Aert aveva ancora le linee arrotondate dell’infanzia. Nove anni più tardi, con volti da adulti, un filo di barba e contratti milionari in tasca, la sfida si è rinnovata sulla stessa sabbia, 25 chilometri più a nord.

Si sentiva un suono strano al via dello scontro finale. Laddove abitualmente sarebbe stata una bolgia di tifo e musica, questa volta ci si aspettava un sacro silenzio, caricato dalla spinta dell’impetuoso vento del nord. Invece il sottofondo sonoro era il più naturale possibile, era il garrire di centinaia di gabbiani famelici, che volteggiavano come avvoltoi sulle teste del gruppo e sulla gigantesca maglia iridata gonfiabile che l’organizzazione aveva collocato all’imbocco del rettilineo di partenza. Un suono naturale, ma anche un grido di battaglia. L’urlo di chi sa che la sua presenza davanti alle onde che si infrangono ha un solo scopo: mettere a fuoco l’obiettivo e lanciarsi in picchiata per predarlo. E nel ciclocross del 2021, questo è l’urlo di due uomini soltanto, a cui basta un passaggio soltanto sulla sabbia per far capire che non ce ne sarà per nessuno, che la maglia iridata sarà di Wout o sarà di Mathieu.

Da quel primo mondiale sulla sabbia, Van Aert e Van der Poel sono cresciuti facendosi ombra a vicenda, ma gli anni hanno messo in chiaro le caratteristiche che li differenziano, e se Van der Poel ha quasi sempre avuto dalla sua le gambe e il colpo d’occhio, Van Aert aveva saputo ribaltare destini già segnati grazie alla testa. Sulla spiaggia di Ostenda però il vento non si è limitato a sollevare in turbinii gli schizzi delle onde, ma ha spazzato via anche qualche certezza. Partito a tutta, Wout van Aert sembrava in una di quelle giornate in cui riesce a piegare il destino che abitualmente flirta col rivale, addirittura aveva spinto Van der Poel a un raro errore di traiettoria e alla conseguente caduta. Ma quando il vantaggio del belga stava incrementando ecco che il soffio del vento da sottofondo tonante è diventato il fischio sottile dell’aria che fuoriesce da una foratura, arrivata giusto dopo il passaggio dall’area tecnica. Troppo tardi per cambiare ma ancora in tempo per ricominciare a prendere il fato a cazzotti. Perché quando Van Aert riesce finalmente a sostituire la propria bici, il rivale è davanti ma è ancora a vista, la preda da azzannare attende solo la furia del cacciatore. Ma le onde si rompono e il vento soffia.

Dopo soli 57 minuti e 58 secondi di gara, Mathieu van der Poel si laurea per la quarta volta campione del mondo di ciclocross. Non è una cifra da record, ma è il numero che lo affianca a Roland Liboton, una delle leggende della disciplina, categoria nella quale ormai Van der Poel può albergare senza timore. Ma le statistiche interessano solo alcuni commentatori, i due protagonisti non paiono troppo propensi a considerarle. Il loro interesse è mettere la ruota davanti al rivale, non davanti alla storia, eppure è proprio questa continua sfida che alza sempre di più l’asticella spingendoli a raggiungere e talvolta superare i risultati ottenuti dai più grandi ciclocrossisti di sempre. Michel Wuyts, telecronista del ciclismo sul canale sportivo fiammingo Sporza, ha osservato come questa nuova generazione di corridori non si occupi nemmeno più dei record: «A loro interessa divertirsi e vincere, solo questo conta. Ai numeri penseranno forse più avanti, quando il record dei sette mondiali di Eric De Vlaeminck sarà a portata di mano, ma ora no».

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La luce sta già affievolendosi dietro a un cielo che non ha mai cambiato più di tanto le sue tinte di grigio quando i due rivali, accompagnati dal terzo classificato Toon Aerts, salgono sul palco per le premiazioni. Davanti a loro non c’è praticamente nessuno. Qualche giornalista, qualche meccanico, i volontari, i fotografi, ma soprattutto i gabbiani. Lo spettacolo finale ha per testimoni il Mare del Nord e la lunga spiaggia, che si fa più estesa col progressivo abbassarsi della marea pomeridiana. Sul podio non si vedono ne’ il sorriso di Van der Poel ne’ la smorfia di disappunto di Van Aert, coperte entrambe da mascherine a tinte iridate, sembrano dei corpi estranei rispetto al mondo circostante. Nove anni dopo la loro prima sfida iridata, Mathieu e Wout si trovano nelle medesime posizioni. 

Van der Poel sarebbe dovuto crollare dopo la caduta, invece ha trovato le energie per migliorare giro dopo giro e agguantare la vittoria con una concentrazione da campione. Anche nove anni fa, quando era soltanto un diciassettenne predestinato, era partito soffrendo e si era ripreso nel corso della gara. E’ un po’ stranito dall’assenza di pubblico, il mondiale gli è sembrato una gara come tutte le altre e confessa che avrebbe preferito festeggiarlo con amici e parenti. Ma con la stessa leggerezza che accompagna ogni sua dichiarazione, ammette anche di averlo apprezzato: c’era meno stress, sembrava DAVVERO una gara come tutte le altre. 

Van Aert avrebbe dovuto esaltarsi nell’inseguimento e invece ha trovato si è scoperto vuoto e vulnerabile, per una volta si è reso conto già durante la corsa che Van der Poel non era più raggiungibile. Ha perso quella che il suo commissario tecnico Sven Vanthourenhout ha chiamato “la preponderanza mentale”. Ma non sarebbe cambiato nulla con il pubblico intorno, riconosce Van Aert, perché i tifosi avrebbero semplicemente spinto entrambi. A Van Aert sono mancati due volti, li ha cercati tra tutte le persone che lo hanno circondato dopo l’arrivo, ben sapendo che si trovavano chiusi in un appartamento a poche centinaia di metri di distanza. Erano la moglie Sarah e il figlio Georges, nato meno di un mese prima, a cui Wout ha dedicato ogni sua attenzione mentre tutti si dedicavano all’attesa per la grande sfida. «Campione del mondo o no, gioia o delusione, qualunque emozione vuoi provarla con le persone che ami» ha detto Van Aert nelle intervista post-gara. Dopo un crollo mentale, dopo una sconfitta netta. Una corsa senza vita intorno che è riuscita ancora una volta a parlare di umanità.

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La stagione del ciclocross si allunga di qualche settimana dopo il Campionato del Mondo. Ci sono ancora alcune classifiche da definire e alcune corse da assegnare, ma per tanti la stagione finisce qui. La sabbia di Ostenda è stato il teatro delle ultime esibizioni per Van der Poel, Van Aert e Pidcock; dal giorno successivo tutti hanno cominciato a guardare alle sfide successive, alle corse su strada di una primavera ormai vicina. Come per il ciclocross, anche il ciclismo su strada si prepara a correre comunque, indipendentemente dalla presenza o meno del suo pubblico naturale, distaccato da un mondo stravolta da una mutazione improvvisa e troppo veloce. Gli dei del ciclismo chiedono che le processioni continuino, tanto che il grande derby, la resa dei conti, il duello finale di Ostenda di finale non ha quasi nulla. Nel giro di qualche settimana si ricomincerà a parlare di Wout e Mathieu, di Wout CONTRO Mathieu, e quella di Ostenda diventerà una di tante battaglie, non l’esito di una guerra. 

La costernazione dello sconfitto diventa quasi una speranza, mentre il sole tramonta sul Mare del Nord Van Aert ammette che è il bello del ciclismo: «C’è sempre un’altra corsa. Ora lavorerò ai prossimi obiettivi. L’anno venturo ci sarà di nuovo il ciclocross, e io ci proverò di nuovo». Come lui ci riproverà Mathieu Van der Poel, ma entrambi sperano di non riprovarci da soli, che la prossima corsa, la prossima sfida, torni ad avvolgersi in un tessuto multicolore di volti e grida. Che si torni a ballare a Overijse, ad arrampicarsi a Namur, a brindare a Niel, a pedalare a Koksijde o a Zonhoven. E che il tlic tlac delle scale mobili di Anversa torni a farsi un ruggito sotto il peso dei tifosi dell’uno o dell’altro, che in fondo sono tutti tifosi di entrambi, perché un duello si fa in due, e una festa si fa in tanti.