The Dirty Job

Words: Filippo Cauz
Voice: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Sint-Jansvliet è una piazzetta al margine del centro di Anversa. Più che una piazza sembra un viale troncato, largo e corto, nel quale il traffico ha lasciato il posto alla socialità. In mezzo c’è un campetto da pallacanestro, circondato da un perimetro di alberi che separano l’area centrale della piazza, dedicata al mercato settimanale, ai negozi dei bassi palazzi che si affacciano. Piccoli ristoranti, un kebab, un altro specializzato in toast francesi, sull’angolo più esterno la grossa scritta Duvel richiama gli assetati verso un bar. Sint-Jansvliet è una piazza come ce ne sono a centinaia in tutte le città e i paesi delle Fiandre, del Belgio, della Francia… se non fosse che uno dei suoi lati sarebbe segnato dal grande viale che scorre parallelo alla Schelda, il fiume delle Fiandre. Ma da Sint-Jansvliet non si vedono né il fiume né la strada che lo costeggia, la visione è riempita da un grosso cubo color ocra, che ricorda una vecchia centralina elettrica, o forse una fermata della metropolitana d’epoca. E in effetti si tratta di un varco per scendere sotto terra, è l’ingresso del tunnel pedonale di Sant’Anna, o semplicemente De Voetgangerstunnel.

Fu nella seconda metà dell’800 che gli abitanti di Anversa cominciarono a interrogarsi su come connettere le due rive della Schelda, dopo che il rilancio della città voluto da Napoleone l’aveva portata ad espandersi anche sulla riva sinistra. Inizialmente si pensò a un ponte, ma ogni progetto finì per essere scartato: Anversa è una città che vive del traffico fluviale, un ponte avrebbe rappresentato un ostacolo eccessivo. Fu così che si arrivò allo scavo del tunnel di Sant’Anna, inaugurato nel 1933 e rimasto intatto come allora. Due caselli d’ingresso, 572 metri di piastrelle di ceramica bianca. E a congiungere le due bocche della galleria con la superficie, le scale mobili. Quattro rampe di listarelle di legno che si muovono incessantemente sin dagli anni ’30, sottolineando il battito cardiaco sottocutaneo della città di Anversa con il loro incessante tlac tlac. Le scale mobili furono una novità assoluta allora, e questo esemplare di Anversa è qualcosa di ancora unico al mondo, un slancio nel futuro del passato.

Ho ripensato a lungo alle scale mobili di Aversa lo scorso 12 dicembre, il giorno in cui la città delle Fiandre ha ospitato la sedicesima edizione dello Scheldecross, la gara di ciclocross cittadina. Era un appuntamento importante per questa stagione, perché segnava il rientro in corsa del fenomeno dei nostri tempi: Mathieu van der Poel. In una situazione normale, in un qualsiasi sabato delle Scheldecross, il tlac tlac di quelle scale mobili si sarebbe fatto assordante. Meccanismi vecchi di decenni sarebbe stati messi ancora una volta a dura prova dal trasferimento, andata e ritorno, di migliaia di spettatori. Tanti e tutti assieme all’andata, nel tarda mattinata in cui il sole d’inverno prova a scaldare e non ci riesce. Più alla spicciolata al ritorno, i primi alle cinque, gli ultimi alle otto di sera, stremati dal freddo ma esagitati dal tasso alcoolico. Lo scorso 12 dicembre però non è successo nulla di tutto ciò: le scale mobili sono rimaste deserte, nessuno ha dovuto percorrere il tunnel, risalire, e camminare le poche centinaia di metri che separano da Sint-Annastrand, la spiaggia di Sant’Anna, che a chiamarla spiaggia per noi ci vuole una certa fantasia, ma per la gente di Anversa questo è. Col parco circostante nei cui terreni si snoda il percorso dello Scheldecross, con le lingue si sabbia che immettono all’ultimo rettilineo costeggiando la Schelda.

Lo Scheldecross si è corso come ogni anno. Mathieu van der Poel ha vinto come ogni anno. Ma l’ordinarietà si conclude qui. Il resto sono scale mobili deserte, parchi deserti, spiagge deserte, e uno spettacolo sportivo che si svolge a sola misura delle telecamere, con il pubblico chiuso fuori, chiuso a casa dalla pandemia che ha reso questa stagione del ciclocross, così come qualsiasi altra cosa, un evento unico.

Quella di Anversa è una gara in città, una rarità del calendario, e forse proprio per quello risuona ancora più forte il silenzio, in un contesto già di suo affollato e rumoroso. Ma il pubblico alle corse di ciclocross non manca mai. E non sarebbe mai mancato nemmeno quest’anno. Non a Lokeren o a Gieten, dove la stagione si apre prima ancora dell’autunno. Non sulle pendenze del Koppenberg, dove le strade del ciclocross si incrociano con quelle del Giro delle Fiandre. Non a Niel, dove sin dall’autunno del ’63 i crossisti sono chiamati a celebrare la chiusura della fiera locale come se fosse una giostra medievale. Non a Namur, che i fiamminghi chiamano Namen, dove è necessario mettersi in fila come in montagna per risalire i pendii fangosi appigliandosi a corde fissate agli alberi. Non al Druivencross di Overijse, ritenuto la madre di tutti i cross, che ha segnato l’ultima corsa prima del mondiale. Non al Duinencross di Koksijde o a Zonhoven, unica corsa per la quale è necessario allestire due sound-system: uno al traguardo e uno in mezzo al Kuil, il pozzo di sabbia simbolo della corsa, dove il dj si attiene esclusivamente a musica tecno a tutto volume mentre dal palco vengono sparate lingue di fuoco nel cielo.

Koksijde e Zonhoven che sono due corse talmente amate e partecipate che quest’anno non sarebbe stato possibile organizzarle nemmeno a porte chiuse. Il 2020 nei loro albi d’oro sarà segnato da una riga vuota, seppellito sotto una manciata della sabbia che rappresenta l’elemento distintivo di entrambe le prove. Annullate proprio nella stagione culminata con il campionato del mondo più sabbioso dal 2012. Su una curva del circuito iridato uno sponsor ha finito persino per piazzare del pubblico finto. Sagome e tribune di cartone già viste durante alcune gare invernali; ai campionati nazionali belgi a Meulebeke c’erano persino dei boati registrati al passaggio dei corridori. Di certo le immagini sempre più raffinate di droni e telecamere mobili hanno colto tanti dettagli della corsa, regalato impressionanti scorci marittimi, ma non hanno potuto mostrare nessun pubblico. In sottofondo non ci sono stati applausi, boati o cori, e ancora una volta è stato un weekend senza musica.

*

Fino al 2020 sembrava impossibile scindere il ciclocross dalla musica, perché la musica è festa, ballo, rito orgiastico che si sposta un fine settimana dopo l’altro in ogni provincia delle Fiandre e non solo. “Baraonda, fracasso, musica popolare, festa, il mondo alla rovescia, disordine, talvolta tumulto”, così lo storico Fernand Braudel raccontava le fiere fiamminghe del medioevo. Così si sarebbe potuto definire ogni appuntamento ciclistico invernale, dove la gara scorreva fuori dal tendone del bar, circondandolo e abbracciandolo, e la festa si consumava lì in mezzo, a suon di birra e ballo. Sembrava inimmaginabile un ciclocross silenzioso, in cui scatti e inseguimenti non fossero accompagnati dai ritornelli di “Jodeljump”, “Boven op de berg”, “Manuela”, “Ik moet zuipen”… talvolta persino da “Dancing queen” o da “You’ll never walk alone”, sino ad arrivare all’apoteosi finale, all’ultimo giro scandito da “Viva de cyclocross”, dalla “Tom Boonen” di DJ Goldenboy, dal travolgente ballo di “Links Rechts”. Sembrava impossibile, e invece si poteva, è successo.

Anche nel 2020 si è corso ad Anversa, e il tendone del bar nemmeno c’era. Il giorno dopo si è corso a Namur, in un assordante silenzio. E si è corso a Niel, a Gavere, a Essen, a Zolder, a Baal, a Hamme. Si è corso in ogni provincia delle Fiandre, proprio come negli stessi mesi si è corso in Svizzera, in Francia, in Italia, in Repubblica Ceca, in Spagna. Sarà un caso, o forse no, che le due gare più spettacolari della stagione si siano disputate su due circuiti inediti, lontani dagli abituali pellegrinaggi dei tifosi: Herentals e Dendermonde.

Silenziosamente, ma si è corso. Sfidando persino gli stessi equilibri economici degli organizzatori, i cui guadagni vengono sì da sponsor e dirette televisive, ma soprattutto dal pubblico. Alle gare di ciclocross gli spettatori pagano un biglietto e svuotano i portafogli in cibo e birra. Gli stessi sponsor allestiscono tendoni riservati a VIP e invitati che ospitano oltre mille persone. Sembrerebbe quasi che mancassero tutte le ragioni per correre, ma non è così.

Si è corso come una processione religiosa, come per compiacere gli dei del ciclismo e nulla più. Immaginate se durante il confinamento si fossero celebrate le messe ugualmente, ma senza i fedeli. Ogni sacerdote a porte chiuse dentro la sua chiesa, da solo. Nel ciclocross è successo, sta succedendo. La religione della bicicletta ha avuto la forza di superare anche questo inverno a partire dalla regione dove il culto è celebrato con più sacralità, la terra dove i campioni diventano semidivinità.

*

Il ciclismo vive di grandi eroi, di nomi unici, dell’impellenza quotidiana del passare alla storia. Quando vengono a mancare questi grandi eroi, nel ciclismo si apre una voragine. È una lacuna che ha rischiato di gravare sul ciclismo moderno in questo secolo, almeno nella sua accezione più popolare, il ciclismo su strada maschile. Forse per il dolore della scomparsa di Pantani, forse per la caoticità dell’affare Armstrong, forse per la polarizzazione da tifo che ha riguardato i vari Boonen, Gilbert, Cavendish, Valverde o Sagan… In un ciclismo pieno di campioni è mancato l’uomo solo al comando, l’eroe in grado di sollevare un popolo transnazionale, umano. Nel ciclocross tutto questo non è accaduto. 

Le corse nel fango sono state trascinate nella modernità a colpi di pedale da una creatura divina, o forse diabolica. Sven Nys da Baal, simpaticamente soprannominato cannibale, ha preso un ciclocross confinato in un angolo e lo ha traghettato nel mondo. Sven è stato l’idolo dei bambini in Belgio e nei Paesi Bassi, il modello per tutti i corridori, la figura più fascinosa nel resto del mondo. E quando si è chiusa l’era di Nys, quando si pensava che il ciclocross dovesse tornare nelle secche, ecco arrivare l’ancora di salvezza: una rivalità. Non una qualsiasi, un duello globale tra due campioni che promettono di segnare un’epoca, e che questo scontro lo vivono per tutte e quattro le stagioni dell’anno.

Eppure non è stato un passaggio facile. L’esplosione dei numeri e dell’interesse registrata nell’era Nys subì un momentaneo rallentamento al momento del passaggio di testimone: i costi non smettevano di lievitare, ma i guadagni avanzavano a rilento. Certo, in campo femminile si volava altissimo, inaugurando una piccola età dell’oro che è tutt’ora in corso. Tra le donne questo sport non ha mai vissuto un livello così alto. Tra gli uomini è stato necessario invece uno scatto in avanti, dopo quella prima flessione, e lo scatto è avvenuto nel momento in cui i due rivali hanno acquisito una dimensione globale.

Per quanto accomunati dallo stesso curriculum e da una crescita che ha condiviso i medesimi sentieri sin dalla più tenera età, è difficile non notare come Mathieu van der Poel e Wout van Aert siano due corridori diversissimi. Da una parte c’è un concentrato di talento assoluto quale è Van der Poel. Un talento rintracciabile già risalendo la scala del suo DNA, con papà Adrie, plurivincitore di classiche e tappe, che è forse il ciclista più simile all’attuale Mathieu, e nonno Raymond Poulidor, il secondo più forte interprete del Tour de France tra gli anni ’60 e ’70. Van der Poel che fonde grazia e potenza con l’armonia di un animale selvaggio: quando spinge a tutta pare un bisonte lanciato libero in una prateria, semplicemente inarrestabile. Dopo il mondiale dello scorso anno, il giornalista nederlandese Thijs Zonneveld descrisse la sua vittoria con la drasticità di un meteorologo: «Si poteva solo fermarsi a fissarlo, nello stesso modo in cui si guardano i temporali». Dall’altra parte c’è quel concentrato di tenacia che prende il nome di Wout van Aert, un monumento vivente alla resistenza. Più le corse si fanno dure, più il destino si accanisce contro di lui, più Van Aert eccelle. E’ come se doversi trovare a litigarsi ogni risultato contro il ciclista più talentuoso di quest’epoca abbia fatto di Van Aert un supereroe, una sorta di infrangibile Iron Man a pedali.

Guardarli battersi è una gioia per gli occhi, è il più grande spettacolo offerto dal ciclismo degli ultimi anni. E poco importa che la rivalità nel ciclocross sia ormai completamente sbilanciata, con Van der Poel che nelle ultime tre stagioni ha vinto 65 gare sulle 70 a cui ha partecipato. Nelle 35 volte in cui i due si sono scontrati nello stesso intervallo di tempo, van Aert è riuscito a precedere il rivale i sole cinque occasioni. Certo, si potrebbe rilanciare con le corse su strada. La stagione 2020 ha visto van Aert quasi superare il rivale, se non altro almeno affiancarlo dopo che il rapporto sembrava segnato anche cambiando il terreno di scontro. Ma l’immagine conclusiva è il photofinish del Giro delle Fiandre: i due sono pressoché affiancati, ma davanti c’è Van der Poel. A dividerli però c’è una manciata di centimetri, mezza spanna al massimo. Ma i numeri non bastano a descrivere una rivalità, non sono i risultati a tenerla in vita.

Ci riuscirebbero meglio i chilometri: sono solo 36 quelli che separano Herentals, paese natale e residenza della famiglia Van Aert, da casa Van der Poel, a Kapellen. Mezz’ora di automobile nelle campagne a nord-est di Anversa, puntando verso il confine con i Paesi Bassi, ma senza raggiungerlo, perché per quanto indossi la maglia oranje, anche Mathieu è nato e ha sempre vissuto nelle Fiandre. La rivalità più accesa e intrigante del ciclismo mondiale è un derby. Una sfida che ha respinto senza appello tutti i possibili terzi incomodi ed è ormai ampiamente travalicata nel ciclismo su strada. È quest’ultimo aspetto a rendere ancora più straordinaria la rivalità tra van Aert e van der Poel: li accomuna una concezione globale del ciclismo, che li porta a sfidarsi su ogni terreno e in ogni stagione, a partire dall’inverno fiammingo. Il pubblico del ciclismo non aspettava altro da anni, soprattutto dopo l’ultima stagione su strada che ha proiettato ulteriormente le loro due stelle nel firmamento, e forse ridotto un po’ le distanze tra i due. Già, perché i numeri nel ciclocross ormai parlavano chiaro, tutti tranne uno. Restava un solo elemento di parità tra i due, un solo campo in cui il derby non aveva ancora emesso una sentenza, ed era il conteggio più importante di tutti, quello dei titoli mondiali.

Per risolvere l’ultima disputa, Van Aert e Van der Poel hanno tirato il fiato a breve al termine della stagione su strada, nonostante fosse stata un’annata follemente spremuta in pochi mesi che aveva spremuto a fondo tutti i partecipanti. Eppure tra fine novembre e metà dicembre si sono ributtati nel fango. Per divertirsi, per fare il proprio lavoro, per lanciarsi verso il momento che più di ogni altro suonava come una resa dei conti. Non vi è motivo di dubitare del fatto che Van Aert e Van der Poel continueranno a fare ciclocross nei prossimi anni, ma è ormai evidente che la spinta delle loro squadre è verso le corse su strada, che portano più visibilità a livello mondiale, più interesse, più ricchezza. Non sarebbe la stessa cosa se si rimanesse nel raggio dei pochi chilometri da casa loro, dove la carriera dei campioni del fuoristrada è più remunerativa di chi corre nella stagione calda, ma benché i due siano divisi da 36 chilometri, la loro ambizione è il mondo. Per questo sono tornati, si sono battuti senza risparmiarsi e trovandosi a livelli vicinissimi come non capitava da tempo, e infine si sono preparati per salpare verso l’ultimo arrembaggio.

*

Ostenda è la città di mare delle Fiandre. E’ situata esattamente a metà dei soli 60 chilometri di costa del Belgio, al Mare del Nord deve le sue fortune e le sue sventure. Fondata nel nono secolo sull’isola palustre di Testerep, già nel giro di un paio di secoli l’innalzamento delle acque obbligò gli abitanti a spostare la città nell’entroterra. La lotta contro le inondazioni fu una presenza costante nella città, che fu costretta a costruire dighe e fortificazioni per difendersi dal suo mare, quello stesso mare che anche quando era quieto nascondeva rischi, perché era la via da cui giungevano assalti e razzie provenienti dai regni circostanti. Eppure il Mare del Nord era allo stesso modo una ricchezza: per tutto il medioevo Ostenda si affermò grazie ai commerci del suo porto e alla pescosità delle acque, sino a guadagnarsi il soprannome di Koningin der badsteden, la Regina delle città di mare. Alla fine del 1800 i reali belgi decisero di convertire il vecchio forte costruito dagli inglesi ad Ostenda in un complesso sportivo, che diventava un prolungamento ideale del colonnato delle Gallerie Reali affacciato sulla spiaggia. L’ippodromo mantenne il nome attribuito al forte, Wellington, e diventò uno dei principali impianti d’Europa, tanto da ospitare anche le prove di ippica alle Olimpiadi del 1920. Il suo declino arrivò in epoca moderna, quando si trovò più spesso destinato ad altri scopi più consoni alla nuova vocazione turistica della città: concerti, tornei di golf, gare di sci di fondo. E nel 2021, il campionato del mondo di ciclocross, la sfida più attesa, quella che in Belgio è stata definita “l’ora più bella di tutto l’inverno”.

Limitare un mondiale di ciclocross, per quanto ridotto nel programma come in questa occasione, soltanto all’ora conclusiva suona un po’ estremo. In questo caso forse anche ingiusto nei confronti di chi come Lucinda Brand, Fem van Empel e Pim Ronhaar a Ostenda ha conquistato una maglia iridata, spesso al termine di corse dure e spettacolari. Ma il mondiale del 2021 ruotava tutto intorno al duello, al derby, a quello che in tanti hanno identificato come il campionato del mondo più atteso di sempre. Benché ad attenderlo, sulla ventosa spiaggia di Ostenda, non ci fosse quasi nessuno.

E poteva andare peggio, poteva rimanere completamente deserta la spiaggia, se il campionato del mondo non fosse stato salvato per due volte nell’arco di pochi mesi. La decima rassegna iridata ospitata dal Belgio aveva rischiato a lungo di non potersi disputare per ragioni economiche. Al loro secondo mondiale, gli organizzatori si sono trovati da dover passare dai 60mila spettatori che parteciparono ad Hooglede-Gits sino agli zero del 2021. 60mila biglietti di ingresso in meno, se non di più considerata l’attesa per l’edizione di quest’anno, e un numero ancora più grande di litri di birra venduti in meno. Sono dovuti intervenire il governo delle Fiandre e la municipalità locale per coprire i costi della rassegna, ma persino il loro sforzo sembrava inutile davanti alla nuova impennata di contagi, che ha rischiato di lasciare la stagione senza l’appuntamento più atteso, facendo tremare gli appassionati sino a una settimana prima della gara. Eppure, ancora una volta, si è corso.

2’900 metri di circuito, diviso tra i 600 metri di sabbia del lungomare, i 1300 metri di erba, i 400 metri dell’enorme ponte d’acciaio con pendenze al 21%, i 400 metri della pista in cenere dell’ippodromo e i 200 metri asfaltati del rettilineo finale. Un conteggio da cui mancano i passaggi in cui i corridori si sono spinti a pedalare direttamente sull’acqua, chi per cercare un fondo più stabile, chi per ripulire la bici appesantita dal fango, chi come Van der Poel semplicemente per rinfrescarsi le gambe surriscaldate. Un passaggio quasi biblico nel mare gelato, che ha ricordato in maniera plastica quanto nel ciclocross sia importante saper galleggiare, indovinare traiettorie che si possono soltanto immaginare e scegliere così la via più azzardata per mantenere il proprio mezzo in equilibrio e lanciato in velocità. Nove anni fa, Van Aert e Van der Poel incrociarono per la prima volta le proprie ruote in un mondiale sulla sabbia, era la corsa juniores di Koksijde e fu la prima maglia iridata di Van der Poel. Riguardare le immagini di quella corsa oggi è uno strano cortocircuito temporale. I due appaiono effettivamente come i ragazzini che erano: Van der Poel più sviluppato aveva già lineamenti simili a quelli odierni, mentre il volto di Van Aert aveva ancora le linee arrotondate dell’infanzia. Nove anni più tardi, con volti da adulti, un filo di barba e contratti milionari in tasca, la sfida si è rinnovata sulla stessa sabbia, 25 chilometri più a nord.

Si sentiva un suono strano al via dello scontro finale. Laddove abitualmente sarebbe stata una bolgia di tifo e musica, questa volta ci si aspettava un sacro silenzio, caricato dalla spinta dell’impetuoso vento del nord. Invece il sottofondo sonoro era il più naturale possibile, era il garrire di centinaia di gabbiani famelici, che volteggiavano come avvoltoi sulle teste del gruppo e sulla gigantesca maglia iridata gonfiabile che l’organizzazione aveva collocato all’imbocco del rettilineo di partenza. Un suono naturale, ma anche un grido di battaglia. L’urlo di chi sa che la sua presenza davanti alle onde che si infrangono ha un solo scopo: mettere a fuoco l’obiettivo e lanciarsi in picchiata per predarlo. E nel ciclocross del 2021, questo è l’urlo di due uomini soltanto, a cui basta un passaggio soltanto sulla sabbia per far capire che non ce ne sarà per nessuno, che la maglia iridata sarà di Wout o sarà di Mathieu.

Da quel primo mondiale sulla sabbia, Van Aert e Van der Poel sono cresciuti facendosi ombra a vicenda, ma gli anni hanno messo in chiaro le caratteristiche che li differenziano, e se Van der Poel ha quasi sempre avuto dalla sua le gambe e il colpo d’occhio, Van Aert aveva saputo ribaltare destini già segnati grazie alla testa. Sulla spiaggia di Ostenda però il vento non si è limitato a sollevare in turbinii gli schizzi delle onde, ma ha spazzato via anche qualche certezza. Partito a tutta, Wout van Aert sembrava in una di quelle giornate in cui riesce a piegare il destino che abitualmente flirta col rivale, addirittura aveva spinto Van der Poel a un raro errore di traiettoria e alla conseguente caduta. Ma quando il vantaggio del belga stava incrementando ecco che il soffio del vento da sottofondo tonante è diventato il fischio sottile dell’aria che fuoriesce da una foratura, arrivata giusto dopo il passaggio dall’area tecnica. Troppo tardi per cambiare ma ancora in tempo per ricominciare a prendere il fato a cazzotti. Perché quando Van Aert riesce finalmente a sostituire la propria bici, il rivale è davanti ma è ancora a vista, la preda da azzannare attende solo la furia del cacciatore. Ma le onde si rompono e il vento soffia.

Dopo soli 57 minuti e 58 secondi di gara, Mathieu van der Poel si laurea per la quarta volta campione del mondo di ciclocross. Non è una cifra da record, ma è il numero che lo affianca a Roland Liboton, una delle leggende della disciplina, categoria nella quale ormai Van der Poel può albergare senza timore. Ma le statistiche interessano solo alcuni commentatori, i due protagonisti non paiono troppo propensi a considerarle. Il loro interesse è mettere la ruota davanti al rivale, non davanti alla storia, eppure è proprio questa continua sfida che alza sempre di più l’asticella spingendoli a raggiungere e talvolta superare i risultati ottenuti dai più grandi ciclocrossisti di sempre. Michel Wuyts, telecronista del ciclismo sul canale sportivo fiammingo Sporza, ha osservato come questa nuova generazione di corridori non si occupi nemmeno più dei record: «A loro interessa divertirsi e vincere, solo questo conta. Ai numeri penseranno forse più avanti, quando il record dei sette mondiali di Eric De Vlaeminck sarà a portata di mano, ma ora no».

*

La luce sta già affievolendosi dietro a un cielo che non ha mai cambiato più di tanto le sue tinte di grigio quando i due rivali, accompagnati dal terzo classificato Toon Aerts, salgono sul palco per le premiazioni. Davanti a loro non c’è praticamente nessuno. Qualche giornalista, qualche meccanico, i volontari, i fotografi, ma soprattutto i gabbiani. Lo spettacolo finale ha per testimoni il Mare del Nord e la lunga spiaggia, che si fa più estesa col progressivo abbassarsi della marea pomeridiana. Sul podio non si vedono ne’ il sorriso di Van der Poel ne’ la smorfia di disappunto di Van Aert, coperte entrambe da mascherine a tinte iridate, sembrano dei corpi estranei rispetto al mondo circostante. Nove anni dopo la loro prima sfida iridata, Mathieu e Wout si trovano nelle medesime posizioni. 

Van der Poel sarebbe dovuto crollare dopo la caduta, invece ha trovato le energie per migliorare giro dopo giro e agguantare la vittoria con una concentrazione da campione. Anche nove anni fa, quando era soltanto un diciassettenne predestinato, era partito soffrendo e si era ripreso nel corso della gara. E’ un po’ stranito dall’assenza di pubblico, il mondiale gli è sembrato una gara come tutte le altre e confessa che avrebbe preferito festeggiarlo con amici e parenti. Ma con la stessa leggerezza che accompagna ogni sua dichiarazione, ammette anche di averlo apprezzato: c’era meno stress, sembrava DAVVERO una gara come tutte le altre. 

Van Aert avrebbe dovuto esaltarsi nell’inseguimento e invece ha trovato si è scoperto vuoto e vulnerabile, per una volta si è reso conto già durante la corsa che Van der Poel non era più raggiungibile. Ha perso quella che il suo commissario tecnico Sven Vanthourenhout ha chiamato “la preponderanza mentale”. Ma non sarebbe cambiato nulla con il pubblico intorno, riconosce Van Aert, perché i tifosi avrebbero semplicemente spinto entrambi. A Van Aert sono mancati due volti, li ha cercati tra tutte le persone che lo hanno circondato dopo l’arrivo, ben sapendo che si trovavano chiusi in un appartamento a poche centinaia di metri di distanza. Erano la moglie Sarah e il figlio Georges, nato meno di un mese prima, a cui Wout ha dedicato ogni sua attenzione mentre tutti si dedicavano all’attesa per la grande sfida. «Campione del mondo o no, gioia o delusione, qualunque emozione vuoi provarla con le persone che ami» ha detto Van Aert nelle intervista post-gara. Dopo un crollo mentale, dopo una sconfitta netta. Una corsa senza vita intorno che è riuscita ancora una volta a parlare di umanità.

*

La stagione del ciclocross si allunga di qualche settimana dopo il Campionato del Mondo. Ci sono ancora alcune classifiche da definire e alcune corse da assegnare, ma per tanti la stagione finisce qui. La sabbia di Ostenda è stato il teatro delle ultime esibizioni per Van der Poel, Van Aert e Pidcock; dal giorno successivo tutti hanno cominciato a guardare alle sfide successive, alle corse su strada di una primavera ormai vicina. Come per il ciclocross, anche il ciclismo su strada si prepara a correre comunque, indipendentemente dalla presenza o meno del suo pubblico naturale, distaccato da un mondo stravolta da una mutazione improvvisa e troppo veloce. Gli dei del ciclismo chiedono che le processioni continuino, tanto che il grande derby, la resa dei conti, il duello finale di Ostenda di finale non ha quasi nulla. Nel giro di qualche settimana si ricomincerà a parlare di Wout e Mathieu, di Wout CONTRO Mathieu, e quella di Ostenda diventerà una di tante battaglie, non l’esito di una guerra. 

La costernazione dello sconfitto diventa quasi una speranza, mentre il sole tramonta sul Mare del Nord Van Aert ammette che è il bello del ciclismo: «C’è sempre un’altra corsa. Ora lavorerò ai prossimi obiettivi. L’anno venturo ci sarà di nuovo il ciclocross, e io ci proverò di nuovo». Come lui ci riproverà Mathieu Van der Poel, ma entrambi sperano di non riprovarci da soli, che la prossima corsa, la prossima sfida, torni ad avvolgersi in un tessuto multicolore di volti e grida. Che si torni a ballare a Overijse, ad arrampicarsi a Namur, a brindare a Niel, a pedalare a Koksijde o a Zonhoven. E che il tlic tlac delle scale mobili di Anversa torni a farsi un ruggito sotto il peso dei tifosi dell’uno o dell’altro, che in fondo sono tutti tifosi di entrambi, perché un duello si fa in due, e una festa si fa in tanti.


L'Eroica di Lorenzo

Quando, a fine luglio, Lorenzo Mariotti ha ricevuto la conferma dell’annullamento dell’edizione 2020 dell’Eroica si è sentito come abbandonato, come se la fidanzata lo avesse lasciato senza una spiegazione, come se quella stagione fosse destinata a non finire. «L’Eroica per me è un ultimo giorno di scuola, un’ultima volta, di quelle belle, prima dello stacco. Ad aprile speravo che la situazione legata alla pandemia si sarebbe risolta, a fine luglio sapevo che non sarebbe stato possibile ma in un certo senso mi rifiutavo di crederci. Non volevo accettare che l’Eroica ci avrebbe abbandonato per quest’anno».

Lorenzo racconta che non trascorre molto tempo a pensarci: ci sono Andrea e Roberto, suoi amici d’infanzia, a cui telefonare per raccontare un’idea. «A me mancava come l’aria la condivisione della fatica, della strada, del pane, in questa gara dal gusto antico. Ma per tornare a condividere non avevo bisogno di molto, a chi potevo chiedere se non ai miei amici?». Andrea ogni tanto esce in bicicletta, Roberto no ed in più sua moglie non sembra essere molto contenta: «Il suo timore era di “rubare” un’esperienza alla compagna. Io glielo ho detto: “A Gaiole in Chianti non ci vai, se non per un motivo come questo. Non togli nulla a nessuno. Forse ti regali qualcosa”».

Già, Lorenzo li vuole proprio portare a Gaiole, ad un’Eroica speciale, la sua. «L’idea di guardarmi indietro fra qualche anno e pensare di aver perso un’occasione mi faceva paura. L’Eroica me la sono inventata io. Stesso percorso, stesso orario di partenza dalla piazza di Gaiole, addirittura stessi sacchetti con il rifornimento. Ho costruito i pettorali con borse di Juta e mi sono inventato delle targhette di legno compensato per il numero. Quattro cifre, come l’Eroica vera, ma i numeri li abbiamo inventati noi». La bicicletta d’epoca gliel’ha data papà, che è geloso di tutto ciò che è suo ma questa volta non ha potuto evitare di lasciarsi andare, di lasciarla andare. Lorenzo racconta ad Andrea e Roberto di Fiorenzo Magni a Bologna mentre stringe con i denti la camera d’aria per attutire il dolore del braccio rotto, racconta di Alfredo Binda e di quel giorno di Marco Pantani ad Oropa. Racconta per dare un senso a ciò che fra poco faranno.

Nella piazza di Gaiole, i tre ragazzi, si incontrano all’alba. c’è solo un fotografo ad attenderli. «Era deluso, aspettava tanti altri corridori. Probabilmente provava ciò che avevo provato io ed era lì per inventarsi anche lui una sua gara. Ci ha fatto qualche scatto e siamo partiti. Erano le 05:03». Mentre salgono verso il Castello di Brolio, Lorenzo spiega che gli anni scorsi, lì, c’erano delle fiaccole a illuminare. Ora è buio e ad indicare la strada ci sono solo le luci delle loro biciclette disposte in fila indiana. «Erano notti di luna piena e quella sfera bianca illuminava il sentiero. Verso le sette è arrivata la luce e, sullo sfondo, abbiamo iniziato a vedere le colline toscane ed i cipressi».

Le salite sono aspre, dure, rigide e serve un meccanismo per ingannare la mente e percorrerle. «Ci siamo inventati una sorta di “maglia a pois dell’Eroica” e ad ogni salita scattavamo per aggiudicarci dei punti immaginari. Ne ho vinte undici, avevo i polpacci di ghiaccio. Mi facevano male. In alcuni tratti è davvero disumano». Ci si aspetta, si condivide e si ripensa a tante cose. Per esempio al primo ricordo dell’Eroica che, per Lorenzo, è un vecchio filmato di Luciano Berruti su una bici anni ’30 della Peugeot.

Si pranza a Montalcino, non il solito pranzo fra i banchetti dell’Eroica, abbuffandosi di tutto ciò che capita a portata di mano, ma oggi bisogna fare così. Quando i tre ragazzi arrivano ad Asciano è già tardi e Lorenzo pensando all’anno prima, dice ai suoi amici che è contento, che per lui ci si può anche fermare, che si può tornare indietro. «Non hanno voluto. Io li ho portati sino a lì, loro mi hanno portato fino all’arrivo. Sono stati loro a voler concludere, a voler arrivare».

A Radda in Chianti inizia a diluviare, è la pioggia di ottobre, quella fredda, umida, quella da raffreddore. Si va avanti. Ad ogni stazione una firma, un timbro sul libro gara, per dire che si è passati anche da lì, nonostante tutto.
A Gaiole si arriva alle undici di sera, dalle cinque del mattino. «Abbiamo pedalato per più di quattro ore al buio e con la pioggia. Non sai quanti cinghiali, da soli o con i cuccioli, ci hanno attraversato la strada. In alcuni momenti abbiamo avuto paura. Dopo il pranzo, avevamo mangiato solo cioccolato e caramelle. Quando abbiamo trovato un locale aperto, ci siamo seduti al tavolo e abbiamo ordinato hamburger di chianina, eravamo i più felici al mondo». A quel tavolo, non c’è solo la soddisfazione per una bella giornata, a quel tavolo c’è soprattutto Roberto che lo dice ad alta voce: «A Gaiole porterò la mia famiglia in vacanza, giurateci».

Perché l’Eroica è tutto ciò che vi abbiamo detto e in particolare ciò che ci dice Lorenzo quando il racconto sembra finito ma è appena iniziato: «L’Eroica è un modo per sentirmi vicino a un tempo che non c’è più ma batte ancora. L’Eroica sono mio papà e mio nonno, i loro insegnamenti, le loro abitudini, ciò che mi hanno sempre raccontato e che me li fa ricordare. L’Eroica è l’approvazione della gente quando arrivi a Radda in Chianti e, vedendo tutti i timbri, quasi ti spingono all’arrivo dopo averti sorriso. Ma è anche un paesino incantevole come Lucignano d’Asso, a cui non fa caso quasi nessuno nonostante sia bellissimo. Magari ti fermi giusto per prendere l’acqua. L’Eroica è l’attenzione per la mia bici, perché è lì che impari a trattare gli oggetti con cura perché se la meritano, la cura. Come le persone».

Foto: Lorenzo Mariotti


Di super tuck e modifiche UCI

In questi giorni l’UCI ha apportato delle modifiche sostanziali rivolte, tout court, alla sicurezza dei corridori in gara. Modifiche attuate nei limiti del possibile e con tutte le difficoltà del caso che ci saranno per chi organizza le corse, ma che cercano di venire incontro ai corridori che esigono, a ragione, che il loro posto di lavoro sia sempre sicuro, ogni giorno di più. Anche se, come vedremo, non tutti hanno accolto favorevolmente i cambiamenti.

Alcune modifiche saranno graduali e per il momento si partirà dal World Tour: si passa dal transennamento dei finali di gara alla segnaletica dei pericoli, dalla protezione di ostacoli lungo il percorso di gara al rifornimento e alla raccolta dei rifiuti, ma non solo (qui, per chi fosse interessato a entrare nel dettaglio, potete trovare tutte le modifiche https://www.uci.org/docs/default-source/rules-and-regulations-right-column/part-ii-road/2-roa-20210401-e-amendments-on-01.04.2021—updated-08.02.21.pdf mentre qui il comunicato ufficiale dell’UCI: https://www.uci.org/inside-uci/press-releases/the-uci-reinforces-rider-safety-and-its-commitment-to-sustainable-development).

Ma quello che sta facendo discutere di più è il divieto delle posizioni in bici definite “super tuck” e, per comodità, “da crono”. La “super tuck”, posizione usata in discesa, con il corpo quasi disteso sul tubo, già adottata da diversi corridori tra gli anni ’80 e gli anni ’90 e tornata in voga nelle ultime stagioni, era già discussa tempo fa e formalmente sembrava essere già vietata, anche se tollerata: “Il ciclista deve normalmente assumere una posizione seduta sulla bicicletta. Questa posizione richiede che gli unici punti di appoggio siano i seguenti: i piedi sui pedali, le mani sul manubrio e il sedere sulla sella” così riportava la regola 1.3.008 . Molti già si stanno chiedendo allora se è vietato scattare in piedi.

Mentre con le modifiche apportate l’8 febbraio si entra più nello specifico: “I corridori devono rispettare la posizione standard definita dall’articolo 1.3.008. Inoltre è vietato stare seduti sul tubo orizzontale e utilizzare gli avambracci appoggiandosi sul manubrio, tranne nelle prove a cronometro”. Dal 1° aprile entrerà in vigore il nuovo regolamento: da un’ammenda fino alla squalifica dalla corsa per chi adotterà questa posizione.

Giro d’Italia 2020, posizione “da crono”. 16° Tappa, Udine-San Daniele. Jan Tratnik (SLO), Emanuele Boaro (ITA). Foto: Gabriele Facciotti | Pentaphoto

Dunque niente più “super tuck” che, diciamolo francamente, mette i brividi a vederla, emoziona certo, ti dà una scarica di adrenalina, ma è quell’emozione che fa paura. In più uno studio fatto qualche stagione fa dall’Università di Eindhoven che metteva a confronto diverse posizioni in discesa, sosteneva come la posizione, oltre che pericolosa, non fosse di certo la più redditizia: https://www.linkedin.com/pulse/which-cyclist-hill-descent-position-really-superior-froome-blocken/.

Diverso il discorso se dovessimo esprimerci sul divieto della posizione “da crono”, adottata per essere più aerodinamici, nelle gare in linea: quella con gli avambracci distesi sul manubrio per intenderci. Utilizzata soprattutto quando si è in fuga oppure davanti al gruppo a tirare. Qui magari verrebbe forse da sorridere, anche se alla fine chi rischia la pelle sono loro, i corridori, e quindi il nostro giudizio lascia un po’ il tempo che trova. Oltretutto per alcuni è una posizione pericolosa se trovi una buca in strada, una folata di vento che ti sposta all’improvviso o se magari la stai mantenendo pedalando in gruppo.

Tuttavia si presume che alcune di queste modifiche – almeno sulla carta – siano state portate al tavolo delle discussioni proprio dai rappresentanti dei corridori, ma sappiamo come in gruppo vi sia una spaccatura e la nascita di un nuovo sindacato e questo potrebbe avere un peso anche sulle dichiarazioni di queste ore. E difatti per qualcuno il problema è diventato non tanto il cambiamento della regola, ma il fatto che in realtà i corridori non sarebbero stati interpellati.

Difatti Alex Cataford, corridore della Israel Start-Up Nation, sostiene: «Per essere chiari: come membro del CPA non sono mai stato informato di discussioni su possibili divieti su posizioni aerodinamiche. La prima volta che ne ho sentito parlare è stato sui media dopo che le regole sono state ufficializzate».

Mentre secondo Gianni Bugno, presidente del CPA, la responsabilità dei corridori è quella di essere esempi per chi li vede e li emula: «I corridori sono liberi di tenere le diverse posizioni in bici quando si allenano da soli ma non nelle gare quando sono in televisione. Hanno una responsabilità come esempi da seguire per tutti gli altri. Sanno come guidare ad alta velocità nelle gare e sono meno a rischio perché corrono su strade chiuse: le posizioni potrebbero non essere un pericolo per i corridori professionisti, ma lo sono per i giovani corridori e per i corridori occasionali che cercano di emularli».

Guarnieri, corridore sempre attento e pronto a esprimersi quando si parla di sicurezza, scrive sul suo profilo Twitter: «Le modifiche sulle posizioni in bicicletta sono buone» anche se per la verità, al momento, pare uno dei pochi tra quelli che si sono espressi, su questa linea.

Di diverso avviso invece Iljo Keisse, ma anche altri suoi colleghi (De Gendt, Vervaeke, Jungels, tra gli altri, andate a cercarvi i loro messaggi su Twitter e i vari botta e risposta in rete). «Siamo professionisti e pedaliamo ogni giorno. È ridicolo che qualcun altro decida come dobbiamo stare in bici» il parere del belga della Deceuninck-Quick Step. Keisse aggiunge anche che «nessun corridore metterebbe le mani sul manubrio in posizioni pericolose su una strada non adatta». Sempre secondo Keisse: «È assurdo. ognuno dovrebbe decidere da solo cosa è sicuro e cosa no, non servono regole imposte da chi non ha mai corso in bici o che lo ha fatto vent’anni fa».

Nemmeno sulla sicurezza un fronte comune. Le spaccature all’interno del gruppo proseguono e le polemiche non sono destinate a fermarsi nelle prossime ore.

Foto in evidenza: Kei Tsuji/BettiniPhoto©2020


Della sabbia e del fango: intervista a Nicolas Samparisi

La prima parola che ci viene in mente per parlare di Nicolas Samparisi non può che essere schiettezza. Parlando con lui, classe 1992, lombardo di Tirano, si nota subito una spiccata lucidità, soprattutto nella valutazione del proprio lavoro, una sincerità spietata. Il mondiale di Ostenda non è andato come avrebbe voluto e nasconderlo non serve a niente: «Non è partito bene ed è proseguito peggio, purtroppo. Venerdì, in ricognizione, ero a ruota di Gioele Bertolini: lui è caduto ed io non sono riuscito a evitarlo. Mi sono ferito ad un dito, mi hanno dato immediatamente alcuni punti di sutura e dell’anestetico ma ormai il danno era fatto. La domenica sono già partito con questa problematica ed a lungo andare ha influito sulla prestazione».

Per preparare la gara di Ostenda, Nicolas era stato diversi giorni in Olanda, aveva gareggiato lì e si era allenato. «Credo sia utile seguire un percorso di questo tipo: quando torni da Olanda, Belgio o Repubblica Ceca senti immediatamente di avere una gamba diversa. Noi diciamo che “ti cambia la gamba” per intendere questo miglioramento repentino. Attenzione però perché è un’arma a doppio taglio. In questi paesi trovi moltissimi tracciati duri, ideali per crescere. In molti casi si rischia l’overtraining: arrivi in gara già stanco e ti pregiudichi il risultato». Quest’ultima problematica Nicolas la avverte particolarmente, anche a causa del suo carattere. «Sono molto preciso. Se in tabella sono indicate quattro ore di allenamento, anche se dopo tre e mezza sono stanco, non mi fermo. Se sono quattro, devo farne quattro. Forse, qualche volta, essere un poco più indulgenti con se stessi farebbe bene. Sono fatto così, posso farci poco».

Nicolas si definisce un passista-scalatore. «Dico sempre che la diversità caratteriale tra me e mio fratello Lorenzo passa anche per le nostre diversità tecnico-tattiche. Lui è uno scalatore puro, più istintivo, tanto nel cross quanto nella vita. Io, da buon passista, sono riflessivo. Però Lorenzo è una delle poche persone di cui mi fido ciecamente. Se mi dice che la pressione delle gomme in una determinata gara deve essere di 1.2 bar, non ci penso un attimo a regolarmi in tal senso». Tempo fa, Lorenzo è stato operato per il restringimento di un’arteria, Nicolas non ha avuto dubbi su cosa dirgli: «Gli ho solo detto di avere pazienza che sarebbe riuscito a tornare ai suoi livelli. Soprattutto gli ho ricordato che la vita non si ferma al ciclismo e che non bisogna mai dimenticarlo. Anzi, bisogna conservare la capacità di godersela, altrimenti si fa un errore madornale». Parlare di carattere è in realtà anche parlare dei vari percorsi che il ciclocross propone e delle caratteristiche che servono per affrontarli. Già, perché parte del tuo rendimento è direttamente influenzato da questo. «Il percorso del mondiale di Ostenda è indubbiamente stato uno dei percorsi più completi degli ultimi anni. L’introduzione della sabbia è molto significativa e bisogna parlarne. Nella sabbia si pedala in modo diverso rispetto al fango. Le ruote affondano ed è indispensabile una potenza non indifferente per uscirne. Devi prendere la canalina, riuscire a stare in equilibrio e gestire le sbandate. Il tutto con i battiti alti della gara».

A Samparisi piacciono percorsi di questo tipo ed è convinto che in Italia ci si stia muovendo nella giusta direzione, cercando di disegnare percorsi più duri dopo che per molto tempo si era puntato tutto sulla tecnica. Nicolas pensa che la presenza di van der Poel e van Aert sia un bene per tutto il movimento: «Con loro in corsa il ritmo gara aumenta di molto: solo così possiamo migliorarci. A livello personale credo che van Aert sia più forte mentre van der Poel più tecnico. Se guardiamo i dati delle gare questo emerge nettamente». Anche ora che, a casa, vuole solo dedicarsi alla propria famiglia ciò che prova in corsa lo emoziona: «Quest’anno è stato particolare e non fa molto testo. In Belgio le persone pagano per venire a vederci. Quanto devono tenerci? Quanto dobbiamo interessargli? L’anno scorso avevo fatto stampare mille cartoline da regalare ai tifosi: le ho finite e ho dovuto farle ristampare. Qualunque momento è buono per chiederti un ricordo o un pensiero. Rende l’idea della grandezza del cross?». Quando le cose non vanno, Nicolas Samparisi riesce a staccare mentalmente e ripartire, col tempo ha imparato ed oggi è questa caratteristica a salvarlo. «Non ero molto felice al ritorno da Ostenda ma pensarci non avrebbe comunque cambiato la situazione. Al campionato italiano c’è in palio una maglia tricolore a cui tengo molto, ora penso a quella. In più quest’anno ho capito di poter entrare tra i primi venti nelle gare di Coppa del Mondo, è un passo importante per cui lavorare giorno per giorno. Non c’è tempo per guardarsi indietro. Non vi pare?».

Foto: Previsdomini/Per gentile concessione di Nicolas Samparisi


Il mondo dall'alto di Federica Zavischi

La storia di Federica Zavischi è una storia di sguardi dall'alto. Dalle parole di mamma che nei momenti no le diceva «stai investendo su di te, sul tuo futuro, ed il futuro è troppo bello per lasciarlo alla casualità», alle notti in maneggio, quando era la prima ad arrivare e l'ultima ad andarsene. La storia di Federica è la storia di chi ha voluto cambiare prospettiva e ha deciso che «dall'alto si vede tutto diversamente, non so se è meglio, ma di sicuro mi piace di più perché puoi guardare gli altri ed imparare». Federica è cresciuta fra quei cavalli anche quando passava ore sui libri o faceva l'assistente di volo, anche quando l'agonismo era diventato troppo invadente per essere sopportato, provava qualcosa di troppo forte per lasciar perdere. Il momento di lasciar perdere arriva solo quando ti accorgi che le cose non sono più come prima e che non c'è più possibilità di ritorno, non è la fatica a causarlo, è la delusione.

Federica Zavischi lo ammette: l'idea di tornare a casa e non avere più una passione di quelle vere, di quelle non sai manco tu come sono arrivate a te, ma sono lì e le senti forte, la spaventava. «L'ultima volta che ho cavalcato, sulla strada parallela alla nostra c'era una gara ciclistica. Ho pensato che forse avrei potuto ripartire dalla bicicletta». C'è voglia di intensità, quella voglia sparita da tempo: Federica compra una bici, è agosto. In due mesi la usa talmente tanto da distruggerla. «L'ho torturata quella bicicletta, ma dovevo conoscerla. Dovevo fare ciò che mi veniva in mente. Anche se sembrava impossibile, anche se non ero capace e finivo col farmi male».

Quando le viene l'idea di partecipare alla Tre Valli Varesine, si rende conto di dover cambiare bicicletta. Manca poco più di una settimana ma lei vuole esserci. «Ero folle. Non ero per nulla preparata, me lo hanno sconsigliato in molti, non li ho ascoltati. Ho fatto una fatica assurda ma al traguardo sono arrivata. Non ho mai messo il piede a terra». E questo concetto di fatica, Federica lo conosce molto bene: «Mia madre non mi ha mai obbligato a fare nulla. Avevo iniziato a sciare grazie a lei ma non mi piaceva. Ho smesso ed era contenta quanto me. Lei ha amato l'equitazione alla follia ed era orgogliosa di ciò che stavo facendo, quando ho smesso e ho lasciato la mia cavalla ad un'amica ne ha capito le ragioni e sapevo che era dalla mia parte. Mamma mi ha sempre fatto capire che abbiamo tutta la libertà di scegliere e dobbiamo usufruirne a piene mani perché è nostra. Poi, però, dobbiamo essere coraggiosi e andare avanti. Non esiste libertà di scegliere senza coraggio di decidere». Le prime pedalate di Federica sono un inno all'avventura e l'avventura è anche correre il rischio di essere impreparati.

Quando si corre la Bourgogne Cyclo diluvia, lei non é preparata, non ha l'abbigliamento ideale e non sa nemmeno cosa la aspetti. Il suo allenatore la invita a non partire. Lei non vuole sentire ragioni: «Quando cavalcavo avevo l'assillo del risultato, adesso no. Adesso pedalo perché voglio riprovare la sensazione di un gruppo che si muove, che viaggia, che condivide. Se avessi dovuto pensare al risultato, non sarei partita. In quel momento pensavo a me».

Da quel giorno Federica inizia a viaggiare. «Quando cavalchi ci sono mille possibilità, puoi essere preparatissimo e sbagliare tutto. Si tratta di una sintonia. In bicicletta la responsabilità è tua, dove arrivi o dove ti fermi sei tu a deciderlo». In bicicletta, torna la condivisione di un punto di vista diverso: «Ho scalato lo Stelvio con una compagnia variegata: da Como, alla Svezia, al Sudamerica. Vuoi la verità? Non conoscevo quasi nessuno. Molti dicono “ho fatto lo Stelvio”, per me puoi dire di aver fatto lo Stelvio solo se lo hai fatto in bici. Solo se, verso gli ultimi tornanti, ti sei affacciato e vedendo quanta strada mancava hai pensato fosse meglio non guardare. Se poi ci hai ripensato e hai sorriso. Perché hai capito quanto è valsa quella fatica, cosa ti sei costruito anche mentre non ce la facevi più. In bicicletta si parte quasi sempre da sconosciuti e si arriva che, pur non conoscendosi, ci si sente legati. Così fai la foto di gruppo davanti al cartello che indica la località, perché devi raccontare che ce l'hai fatta. Che ti sei portata lì».

La bicicletta per Federica non è solo questo, è soprattutto un luogo ed un cambio di vita. «Sono stata in vacanza all'Hotel del bosco'' sulle Dolomiti. Cosa vuoi che sia una vacanza? Vai in un luogo, lo vedi, ti piace, ti diverti poi torni a casa. Io da lì non sono stata più capace di tornare davvero a casa. Ci sono tornata solo apparentemente». Così Federica cambia ancora prospettiva e decide di trasferirsi a vivere in Trentino Alto Adige, dalla Lombardia. La prima cosa che chiede quando arriva e se ci sia una squadra di ciclismo. Sono in tre, ma non conta. «Quando ho detto che mi sarei trasferita in molti mi hanno detto che ero pazza. No, non sono pazza. Sono solo giovane e voglio provare. Sbaglio? Si può tornare indietro, non è un destino scritto, non è irreparabile. Succede come quando cadi dalla bicicletta e torni subito in sella. Se non avessi provato non saresti caduto, certo. Ma se non avessi provato non saresti neppure in sella». E da lì, dal Trentino, Federica Zavischi vuole poche cose: «Voglio godermela questa bicicletta e riprendermi tutto quello che la velocità e l'agonismo mi avevano tolto. Per guardare bene devi rallentare. Se vai troppo veloce non puoi. Io voglio prendermi la libertà di pedalare al mio passo, di andare dove voglio e magari di provare quella nostalgia di quando sei arrivato e puoi rilassarti ma in realtà vorresti tornare indietro per ripartire. Voglio godermi il viaggio, come una buona cena, un buon vino e tutta la compagnia che desideri».


Storie di scelte: intervista a Enrico Battaglin

C’è stato un momento in cui i pedali di Enrico Battaglin sembravano non girare più. Era il 2019 e nella testa di Enrico cominciavano a tornare le domande. «Quando vedi che le cose non vanno e non ne capisci il motivo, non sai più cosa raccontarti. La spiegazione è essenziale, almeno per accettare la situazione. Qualche giorno me lo sono anche detto: “Chissà forse non vado più. Magari è arrivato il momento di smettere”».

Non era quello il caso, per Enrico, infatti, tutto cambia dopo un’operazione al naso. Quel periodo, però, gli lascia molta consapevolezza. «Di persone pronte ad aiutarti, nella vita non solo nel ciclismo, ce ne sono poche. In compenso molte aspettano di sostituirti, di prendere il tuo posto. Non è il mio caso ma spesso succede così. Alla fine capisci che i problemi devi provare a risolverli da solo, ad uscire da solo dal fango in cui sei rimasto bloccato, altrimenti non c’è via. Ma forse è anche giusto così, non possiamo chiedere ad altri di semplificarci la vita. Si tratta di una nostra responsabilità».

Il ritiro diventa così per Enrico Battaglin l’occasione per conoscere al meglio i compagni e soprattutto per farlo in tranquillità: l’adrenalina delle gare spesso non lo permette ma la conoscenza non è un aspetto trascurabile per stare in gruppo.

Frequentare i luoghi e le persone, per conoscerle e migliorarsi. «So di un ragazzo che ha un preparatore che non ha mai incontrato personalmente. A me sembra impossibile. Vero è che questa realtà tecnologica tende ad annullare le distanze, ma la fiducia è anche questione di conoscenza diretta. Se c’è una cosa che cerco di portare ai giovani in Bardiani è la mia esperienza. Anche Giovanni Visconti fa lo stesso, ma abbiamo caratteri diversi. Lui è più estroverso, io più discreto, più timido. Non mi piace stare al centro dell’attenzione. Come provo ad aiutare i più giovani? Raccontando ciò che è capitato a me. Io credo che gli esempi restino più in mente. Per portare esempi, però, devi esserci, devi essere presente anche fisicamente, farti vedere, metterti in gioco. Come fai da uno schermo?».

Le esperienze estere di Battaglin, prima del ritorno in Bardiani, gli hanno reso evidente il valore della comunicazione. «Quando ho scelto la Jumbo-Visma, ci ho visto lungo. Non era la squadra di adesso. Poi ho avuto fretta e per non restare nell’incertezza sono passato subito in Katusha. Lì credo di avere sbagliato. C’è una costante: avrei dovuto conoscere meglio le lingue, l’inglese almeno. All’estero considerano molto questo aspetto, puoi avere tanti numeri ma, se si accorgono che non riesci a comunicare, iniziano a nutrire dubbi. So che nella nostra squadra è difficile perché siamo tutti italiani, ma credo serva lavorarci. Impari molto e stai certo che ti servirà».

Comunicazione che può e talvolta deve essere schietta, anche molto schietta. «Prendi Roberto e Bruno Reverberi: il primo è più diplomatico, il secondo più schietto. Alcuni dicono che il modo di Bruno è da vecchio ciclismo, io non credo. Ognuno ha la sua sensibilità ma personalmente se hai qualcosa da dirmi, voglio che tu lo faccia nel modo più diretto possibile. Senza troppi giri di parole. Dritto al punto». Sui Reverberi, Enrico è chiaro: «Bardiani è cresciuta, migliorata da quando io sono andato via. La Bardiani di adesso ha il livello di alcune World-Tour. I Reverberi mi hanno lasciato andare via e mi hanno lasciato tornare. Sono tanti anni che fanno questo lavoro, potrebbero anche stancarsi no? Può accadere a tutti. Invece con la loro parsimonia, vanno sempre avanti. E ogni anno qualcosa di buono lo fanno».

Al ciclismo Enrico Battaglin è arrivato quasi per caso. Praticava anche sci di fondo e gli piaceva, crede che le due discipline siano complementari. Ogni tanto si sofferma a guardare il Biathlon, in televisione. «Il punto è che con questi sport sei in mezzo alla natura, usi tutto il tuo corpo, lo conosci, ti conosci e in questo modo ti senti libero». Battaglin ha anche scelto il ciclismo, all’inizio come negli anni a venire. Dice che del ciclismo ha imparato ad accettare la distanza che, se all’inizio può essere avventura e scoperta, con gli anni, e con una famiglia al proprio fianco, può diventare faticosa da accettare. Poi riprende il filo del discorso e, lentamente, precisa: «La testa è fondamentale. Non devi tralasciare nulla, devi dare tutto ciò che hai ed anche di più. Non sono frasi fatte, lo capisci anno dopo anno. Così diventi consapevole e hai meno paure. Ti alleni meglio e sai esattamente cosa puoi fare. Arriva il giorno in cui puoi anche non gareggiare ma sei tranquillo, sai come hai lavorato e sai quanto puoi fare. Credo sia il momento migliore. Si cresce continuamente: bisogna saperlo per continuare a fare quello che si fa e per continuare a crederci».

Foto: Paolo Penni Martelli


Fem van Empel e la filosofia olandese

Un calcio al pallone non si rifiuta mai, figuriamoci in Olanda, terra dove il calcio assume da un secolo significati persino filosofici. È vero che, come afferma il giornalista inglese David Winner, si iniziò a scrivere di Totaalvoetbal nel 1974, ma le basi furono gettate diversi decenni prima grazie a Jack Reynolds, allenatore inglese che guidò l’Ajax, a fasi alterne, dal 1915 al 1947.
A lui pare si debba una certa impostazione del gioco palla a terra, una struttura di scuola calcio basata sull’insegnamento dello stesso metodo di allenamento e di gioco a ragazzi appartenenti proprio al settore giovanile dei lancieri. Non ultimo, a Jack Reynolds si attribuisce il celebre aforisma calcistico “l’attacco è la miglior difesa”.
Se poi il grande Ajax negli anni ’60 e ’70 perfezionò il metodo e lo strutturò in una vera e propria armonica filosofia di gioco, beh sappiamo tutti chi sono stati alcuni tra i grandi artefici: Rinus Michels e Ștefan Kovács, o come non citare poi Johan Cruijff. La loro idea è arrivata fino ai giorni nostri, fino a Pep Guardiola, il suo più importante (e vincente) rappresentante contemporaneo, catalano di nascita, ma olandese dal punto di vista della filosofia calcistica.

Tuttavia questa è una digressione, concetti semplificati allo stremo – d’altra parte si parla di ciclismo. Un volo pindarico per introdurre la veloce e recente ascesa di Fem van Empel, diciottenne di Sint-Michielsgestel, Brabante olandese, Brabante del Nord, che domenica scorsa ha conquistato il titolo iridato nella prova Under 23 femminile del ciclocross a Ostenda, in Belgio.

Fem van Empel inizia a muovere i primi passi – davvero in questo caso – proprio giocando a calcio, nonostante una famiglia che nel ciclismo si distingue non solo per passione, ma anche per lavoro. Suo zio Ad van Empel è un noto costruttore di bici – le Empella, mezzi sui quali negli anni sono stati vinti diversi titoli mondiali proprio nel ciclocross – ma a Fem, figlia della tradizione descritta sopra, inizialmente piaceva di più giocare a pallone – anche se siamo pronti a giurare che a lei della filosofia del calcio totale e della sua architettura, poteva interessare il giusto. Fino a 13 anni, Fem si misura con i ragazzi, poi, a causa della differenza fisica che si faceva via via più marcata, si adatta a giocare con le sue coetanee.

Leggiadra e talentuosa col pallone tra i piedi e come più tardi lo si scoprì vedendola in sella a una bici, van Empel sfruttava le sue qualità come ala destra del club di Neunen, squadra della piccola cittadina dove Vincent van Vogh visse una brevissima parte della sua breve vita e vi trovò ispirazione per dipingere una delle sue opere più conosciute: “De Aardappeleters”, “I mangiatori di patate”. Neunen, città dove è nato e vissuto anche Steven Kruijswijk.

Van Empel, però, a suo dire si divertiva molto più con le due ruote che col pallone. E difatti la scelta non tarda ad arrivare: a un certo punto doveva decidere se diventare calciatrice, da piccolina sognava di vestire la maglia del Bayern Monaco, oppure iniziare a praticare uno sport che vede l’Olanda come una delle nazionali sportive più forti e dominanti in assoluto. Dopo buoni risultati in mountain bike, nel 2019 si indirizza verso il ciclocross entrando a far parte di quel mondo che oggi vede gente come Alvarado, Betsema, Brand, Worst, Kastelijn, senza dimenticare l’eterna Vos o le altre rampanti emergenti come van Anrooij, Pieterse, van Alphen, Bakker, governare in modo assoluto. Aggiungendoci proprio il nome di van Empel farebbero undici, proprio come una squadra di calcio. Aggiungendoci, poi, quello che fa van der Poel, o il titolo conquistato sempre a Ostenda da Ronhaar davanti a Kamp – altri due olandesi – tra gli Under 23, e la tripletta tra le donne nella prova élite, fanno otto medaglie su dodici totali nel recente mondiale: se questo non è dominio totale figlio di una filosofia vincente, ditecelo voi cos’altro può essere.

Domenica scorsa, mentre tutti aspettavano il duello van Aert contro van der Poel, un dualismo che ha fatto parlare anche il Wall Street Journal e che è stato seguitissimo in televisione sia in Olanda – a dispetto di alcuni match di Eredivisie in contemporanea – che in Belgio, Fem van Empel era una delle favorite nelle gara delle Under 23, ma alla fine poteva essere un nome tra i tanti da pescare in mezzo al mazzo delle pretendenti in arancione. A un certo punto della gara cade con la faccia in mezzo alla sabbia. Si rialza e invece che difendersi, attacca, inizia a macinare, raggiunge e supera le avversarie sulla spiaggia prima di mantenere il distacco necessario a vincere, nel tratto in erba. Quando sta per tagliare il traguardo un sorriso appare finalmente sulla faccia tonda da adolescente, quasi incredula, così acerba da vedere persino spuntare ancora qualche brufolo.

«Il fatto principale» dicono di lei i suoi tecnici «è che avendo cominciato a correre da pochissimo, nessuno conosce i suoi limiti». Un altro nome da appuntarci non solo per il prossimo inverno di ciclocross, ma prima o poi anche su strada. In Olanda la filosofia recente più che al bel gioco sembra virare spedito verso il concetto di vittoria. Almeno sulle due ruote.

Foto: Dion Kerckhoffs/PN/BettiniPhoto©2021


La nuova vita di Sevilla

Chissà se anche a Medellín sarà lo stesso. Se quell’eco arriva fino a lì. I nomi dei ciclisti sono evocativi. Riportano indietro di anni e si collegano quasi automaticamente ad altri nomi, come nella ricostruzione di un puzzle. Succede per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Chi non ricorda a memoria la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982? Alcune volte quei nomi sono persino associati alla particolare cadenza nella loro pronuncia da parte di un cronista. Quasi sempre a ricordi o pomeriggi estivi davanti al televisore. Magari nell’infanzia o nell’adolescenza. Per questo se vi nominiamo Óscar Sevilla, è come se vi nominassimo anche Santiago Botero, Juan Manuel Garate, Beat Zberg, José Maria Jiménez, Santiago Blanco, Igor Gonzàlez de Galdeano e molti altri. Solo alcuni fra gli atleti che hanno fatto parte del gruppo a cavallo fra gli anni novanta e il duemila.

Magari eravate ragazzini e seguivate il Tour de France durante le vacanze estive, oppure eravate già adulti e per sapere qualcosa dell’andamento della Grande Boucle aspettavate di infilarvi in macchina e di accendere la radio. Sevilla ebbe il suo anno migliore proprio in quel 2001 ed il racconto apparterrebbe agli annali, non fosse che il ”ragazzino” nato ad Albacete, in Castiglia-La Mancia, il 29 settembre 1976, è ancora sulla breccia e a quasi quarantacinque anni, qualche settimana fa, si è imposto nella prova a cronometro della Vuelta al Tàchira, in Venezuela, chiudendo poi secondo in classifica generale.

Óscar Sevilla arriva in gruppo nel 1998. Esile, non molto alto, ha il classico fisico da scalatore ed il sorriso tipico degli spagnoli. Corre per la Kelme marchio di abbigliamento divenuto noto in Italia per quella maglia a strisce verdi e bianche. Squadra di scalatori e fuggiaschi: Roberto Heras e Fernando Escartìn i più celebri, Alejandro Valverde tra i volti noti lanciati nel professionismo. Al Tour del 2001 chiude settimo, Sevilla. Ha quasi venti minuti da Lance Armstrong, non tiene il passo dell’americano ma è sempre nel gruppo dei migliori e prova anche a giocarsela. A Parigi vestirà la maglia bianca di miglior giovane e solo poche settimane dopo rischierà di vincere la Vuelta, superato dal connazionale Ángel Casero. Sarà la sua migliore annata, negli anni successivi stenterà a riconfermarsi a quel livello. Ma la batosta non è questa, la batosta deve ancora arrivare ed inizia a serpeggiare a fine giugno del 2006 fra le pagine dei giornali e il villaggio di partenza del Tour de France a Dunkerque. È l’Operación Puerto.

Sevilla non è coinvolto personalmente, ma come compagno di squadra di Jan Ullrich alla T-Mobile. «Ho sofferto molto- racconta a Cyclingnews- non potevo fare nulla. Non potevo neanche difendermi perché non ero accusato personalmente. La federazione ci ha lasciato in un limbo: non potevamo tornare e non avevamo nemmeno una giusta pena da scontare». Il ricordo più doloroso per Sevilla è legato alla sofferenza che respirava in casa, la paura di aver deluso. Se vuole andare avanti, deve cambiare qualcosa. Una delle possibilità, è cambiare terra. «Non fosse stato per l’Operaciòn Puerto correrei ancora in Europa. Avrei guadagnato più soldi e sarei anche stato più famoso. Ma non sarei mai stato felice come lo sono ora». Sevilla parte, va in Colombia.

Lì trova la vita vera: «La verità è che sono contento di aver superato quelle difficoltà e di essere qui. Nonostante tutto sto ancora facendo ciò che ho sempre voluto fare. Ho trovato un’altra vita, me la sono costruita. Perché? Perché ho trovato un’altra nazione, dove la vita è considerata per ciò che è e per quanto vale. Spesso in Europa non apprezziamo quello che abbiamo e abbiamo tantissimo. In Colombia hanno molto ma molto meno però danno un valore enorme ad ogni cosa. Si godono la vita e si godono ogni giorno. Non sono arrivato qui in un periodo facile, ma sono riusciti a farmi sentire a casa, a farmi sentire felice».

Così, a chi si chiede perché Óscar Sevilla corra ancora, a chi si meraviglia e non capisce come faccia ad essere così competitivo e a sfidare ragazzi che potrebbero essere suoi figli, lui risponde spontaneamente, quasi non percependo la profondità di ciò che va a dire. Sempre quel suo sorriso, a metà tra lo spavaldo ed il timido e quella cadenza impastata di spagnolo. «Alcune volte la vita ti toglie delle cose. Alcune volte molte cose, ma sappi che te ne restituirà altre. Cose che nemmeno ti immagini. Se ho avuto l’opportunità di ricominciare da capo, dovevo sfruttarla fino in fondo. Con tutto il bene e con tutto il male».

Foto: BettiniPhoto©2020


La scalata di Omar Di Felice all'Everest

Quando squilla il telefono, Omar Di Felice sta sistemando i bagagli per la partenza ed è proprio di questa idea legata al viaggio che inizia a parlarci quasi confidenzialmente. «Ogni volta che si parte o si riparte si rivive la stessa storia. C’è entusiasmo per la carica di avventura che ti aspetta ma hai paura perché, alla fine, cosa realmente ti aspetta lo sai quando lo vivi». Del resto Di Felice non sta partendo per un viaggio qualunque: in circa tre settimane, senza supporto, raggiungerà il Campo Base dell’Everest a quota 5364 metri. Il 6 febbraio, dopo essersi sottoposto a un tampone molecolare per il Covid, Omar volerà verso il Nepal, verso Kathmandu. Da lì, il 15 febbraio, dopo un periodo di quarantena e un altro tampone, aggancerà i pedali e ripartirà, questa volta in sella. «Devo dire la verità, con il periodo che stiamo vivendo mi riesce sempre più difficile essere certo di ciò che farò. Anche in questo caso, credo che la certezza vera e propria non l’avrò fino alla prima pedalata».

L’idea viene da lontano, dall’autunno. «L’ultracycling è qualcosa di solo apparentemente individuale, in realtà dietro devi avere delle persone competenti, che credano in te, che credano alla tua idea e che ti aiutino a realizzarla. Certe cose sono possibili solo grazie a loro, anche se poi a pedalare sono io. Alcune idee mi vengono durante le sgambate invernali, poi c’è la realizzazione. Sono queste persone che ti aiutano ad attrezzare tutte le vie di fuga possibili, le uscite di sicurezza, tutto ciò che ti rende più sicuro e rende più tranquille anche loro che magari ti vogliono bene e ti sanno su qualche passo himalayano nel mezzo della notte. Non è facile».

Da Kathmandu, Omar pedalerà verso nord-ovest sino alla suggestiva regione del Mustang. Di Felice spiega che i primi trecento, quattrocento chilometri per quanto difficili saranno su strade percorribili. Il problema arriverà quando si inizierà a salire verso Kora La Pass, 4660 metri, Annapurna e Thorung La, 5416 metri. Da qui, infatti, si giungerà al Campo Base del Tilicho Lake, 4919 metri, e successivamente al Campo Base dell’Everest.

«In molti tratti dovrò per forza procedere a piedi, con la bicicletta in spalla. Per esempio sull’Annapurna, un passo che in inverno non percorre nessuno. Io mi aiuterò con ramponi e scarponi per oltrepassarlo. Sarò l’unico lì in quei giorni. Nello zaino avrò l’essenziale, gomme chiodate, attrezzatura da bikepacking e vestiti adatti, il più compattabili possibile. Non potrò portare molte riserve di cibo o di acqua. Mi affiderò all’ospitalità dei villaggi locali. Le popolazioni asiatiche sono molto accoglienti, lo sappiamo. Chiederò aiuto a loro». Il problema sarà il freddo. «La possibilità di congelamenti non è data tanto dalle temperature di meno venti, meno trenta gradi, è la quota a fare la differenza. Sarò per molti giorni a 4000, 5000 metri, col rischio di rimanere bloccato e di passare lì la notte, magari in mezzo a una bufera di neve».

In questi casi Omar monterà la sua tenda ed utilizzerà il sacco a pelo, il resto delle notti, invece, lo passerà nei villaggi. «In Mongolia mi trovavo in un deserto, qui no. Credo che gli abitanti del Nepal non siano abituati a vedere ciclisti, però si relazionano con alpinisti ed escursionisti. Chissà. Di sicuro stare con loro mi aiuterà a recuperare. Dovrò avere molta pazienza per l’acclimatamento ed in alcuni casi dovrò anche tornare indietro per aiutare il mio fisico». Di Felice si è confrontato con un medico che gli ha sottoposto un protocollo per il freddo. «L’altitudine è imprevedibile. Noi europei non siamo abituati a confrontarci con queste altitudini. Si può andare incontro a edemi polmonari, a edemi cerebrali. Ho dei medicinali che potranno aiutarmi. Spero di non averne bisogno».

Se Di Felice dovesse trovare una chiave di lettura per questo percorso di circa 1300 chilometri e 40000 metri di dislivello, parlerebbe di visione: «Se chiedi a cento persone se sia il caso di affrontare un viaggio come questo, almeno novanta ti daranno del pazzo. Io mi fido dell’appoggio di chi ho accanto e mi scordo il consenso delle persone. Questo ha voluto essere sin dall’inizio un viaggio “verticale”, un’ascesa al tetto del mondo. Quante possibilità c’erano di realizzarlo? Poche, abbiamo visto tutti cosa è successo con questa pandemia. Credo, però, che le possibilità dobbiamo anche essere bravi a crearcele da soli. Essere visionari, in questo senso. Ed io sono visionario».

Omar chiude la cerniera di uno zaino e torna a parlare. «L’istinto è solo la prima fase. Ti immagini un qualcosa e decidi che vuoi provare. In realtà, quando inizi a camminare dentro ciò che hai immaginato, capisci che l’istinto non basta più. Servono persone che non frustrino le tue idee e che ti aiutino a ritrovare i migliori pensieri anche quando non ne hai più. Soprattutto serve la paura. Non sono un uomo invincibile, non sono un supereroe. Posso sbagliare, posso farmi male. Può accadere di tutto anche a me. Per questo una buona dose di paura la avverto sempre. Non è qualcosa di cui vergognarsi. La paura mi ha sempre salvato, la paura mi ha fatto capire quando dire basta, quando fermarmi, quando tornare indietro. Alla paura devo un grazie».

Foto: @6Stili/Luigi Sestili


Ekar by Campagnolo

Questo è il primo live talk di Parole Alvento!
Un format diverso rispetto allo storytelling, con ospiti intervistati.
Di tanto in tanto riproporremo questa formula, fateci sapere se vi piace!

Siamo andati nella sede di Campagnolo, a Vicenza, per scoprire tutto di Ekar, il nuovo gruppo 1×13 dedicato al gravel che oltre ad essere il più leggero nel settore, è anche estremamente innovativo. Abbiamo registrato un live talk con il product manager di Ekar, Giacomo Sartore e con il responsabile marketing Nicolò Ildos.
Nella chiacchierata viene approfondito ogni dettaglio della ricerca e sviluppo e delle caratteristiche tecniche di Ekar, ma saltano fuori anche dettagli da ‘insider’ di cosa vuol dire vivere e lavorare in un’azienda storica per il ciclismo come Campagnolo.
Il tutto nello stile easy e amichevole di Alvento.

Intervista: Claudio Ruatti
Ospiti: Nicolò Ildos, Giacomo Sartore
Montaggio/editing: Brand & Soda