Milan e "la mar"

Eravamo in apnea, abbiamo respirato forte, profondamente, siamo tornati in apnea e quel respiro, catturato e fatto proprio, nascosto nel torace, ci è bastato per vedere come andava a finire. Sono trascorsi quattro chilometri, tre uomini, fra i tanti, Filippo Ganna, Simone Consonni e Jonathan Milan: il resto è storia. La strada è vicina al mare e, solo qualche istante fa, tra le gallerie, le rocce, il blu e la vegetazione, la mente era tornata a Sanremo, alla Milano-Sanremo, regno di tutto ciò che ha a che vedere con la velocità e pure con la fantasia. Avremmo potuto essere ancora al primo giorno di primavera, il ciclismo è una macchina del tempo.

A Cosseria, in provincia di Savona, sul percorso, al Museo delle Biciclette, c'è l'eco di quella frase che un signore di nome Luciano Berruti diceva spesso, mentre sistemava la sua bicicletta, antica, rovinata, per cui aveva un'attenzione particolare ed il fatto che fosse "vecchia", del 1907 per la precisione, di più di cent'anni, accresceva solo la cura necessaria per starle vicino: «Non so, forse avrei dovuto nascere in un'altra epoca, in un altro tempo, invece sono nato in questo mondo e qui ho fatto le mie cose». Era un ragazzo vispo "il Berruti", raccontano che, ogni tanto, andava a scuola nascondendo una biscia in tasca oppure sotto il banco, catturata nella natura: i compagni lo vedevano, gridavano e la maestra lo rimproverava, magari lo spediva a casa, mentre sua madre non sapeva più cosa fare. Era, poi, un anziano signore con lunghi baffi, a fare da cornice ad una bocca che scandiva lentamente racconti che ti saresti fermato ad ascoltare solo per sapere come andava a finire. Perché il finale vogliamo saperlo.

Eravamo in attesa, a quattromila metri dall'arrivo, quando Filippo Ganna ha squarciato un cielo già pieno di domande e di fremiti, quelli che precedono il caos di qualunque volata: se ne è andato, in un'armonia perfetta con quello che aveva attorno. Perché Filippo Ganna in bicicletta sta bene, da qualunque prospettiva lo si guardi, dall'alto di un elicottero delle riprese, da una telecamera fissa, in un'inquadratura rubata, al volo, dietro una colonna di una galleria. Il Capo Mele è stata l'occasione per uno sforzo assoluto: altri hanno provato a seguirlo, qualche metro e sono "rimbalzati", accolti dalla stessa pancia del gruppo da cui cercavano di fuggire. Per dire di cosa sia un'azione del genere, per dire di quel che serve a stare da soli, al vento, pancia a terra, mentre dietro è tutto un rumore, una rincorsa senza tregua. Berruti si innamorò così delle biciclette; sentendo il loro suono, persino lo stridere dei freni, l'odore di bruciato che rilasciavano, su quelle vecchie bici: avrebbe capito. Sì, ma quando il gruppo insegue è tutta un'altra storia. Circa 3500 metri così. Poi la fine, a circa 500 metri dal traguardo. Non è strano il suo sguardo amaro, non è strano quel continuo guardarsi attorno, mentre parla: la delusione si manda via anche così dagli occhi, quasi potesse tornare indietro e scendere da qualche parte, in gola, nello stomaco e poi via. Invece no, deglutire non vale contro il rammarico. Respiro profondo, boccata d'ossigeno e ancora apnea.

I baffi sono quelli di Simone Consonni. Scherzerà: «Ad un certo punto, non sapevo più se tirare per Milan, oppure non tirare per Ganna. Mi hanno messo in mezzo». Si dice "lanciare la volata" e non sappiamo chi sia stato il primo a coniare questo termine, ma pare perfetto: quasi fosse un lancio nello spazio, in un'altra dimensione, su una navicella con cui bisogna avere una conoscenza totale. Jonathan Milan è l'astronauta, in questo caso. Lui che "maltratta" la bicicletta tanto la porta al limite massimo: dall'alto pare una danza nervosa, in cui tutto trema, a ritmo variabile, ma in un crescendo incessante. Fino all'arrivo, ai pugni che si stringono, ai muscoli che si gonfiano nel gesto della felicità, alla voce che si libera ed al petto che si espande. Dopo il secondo posto di ieri, la vittoria era accanto al mare di Andora. Ganna, Milan e Consonni: Tokyo, un velodromo, una pista, i Giochi Olimpici, l'estate che ballava nei campi e la gioia. La macchina del tempo è già tornata indietro, come ogni giorno, ad ogni Giro d'Italia.

Pare che, in spagnolo, il mare diventi "la mar", quando lo si ama, gli si vuole bene, si ricordano i favori che ha fatto e gli si perdona tutto il resto, i torti e qualche cattiveria, magari nascondendoli dietro una scusa: le bizze della luna che farebbe girare la testa a chiunque. Il vecchio de "Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway aveva questa teoria e stasera noi ci sentiamo d'accordo con lui. Per qualcuno sarà "la mar", per altri solo il mare, un rivale, un nemico. Qualcuno canterà una canzone, anche Luciano Berruti lo faceva, "ma dove vai, bellezza in bicicletta", così più o meno, altri tireranno le tende di una camera d'albergo, come le coperte su di un letto, tanto fuori resta solo la notte e domani è un altro giorno.

Foto: SprintCyclingAgency


Una tappa da ritornarci

Pioviggina nelle Langhe. Siamo appena usciti dalla serata più piacevole che si possa fare al Giro d’Italia: in un agriturismo in collina, uno di quelli con le camere grandi e rustiche, dove ti preparano cibo fatto in casa sul momento, e per un attimo smetti di pensare pure a Girmay e Merlier.

Il luogo preciso in cui abbiamo alloggiato si chiama Santo Stefano Belbo, neanche 4.000 abitanti in provincia di Cuneo. Non è famoso se non per i vini e per aver dato i natali a Cesare Pavese: comunque mica male. Sfruttando una tappa logisticamente complicata, con la squadra di Gironimo – il podcast di alvento dalle strade del Giro – abbiamo deciso di fare una sosta alla Fondazione Cesare Pavese. Qui abbiamo incontrato Silvia, che ci ha segnalato qualche riga ciclo-letteraria. Si possono leggere in “Feria d’agosto”, il racconto è “Il campo di granturco”, e ha un incipit meraviglioso.

«Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell'aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c'era il cielo vuoto. “Quest'è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo lontano».

Ogni tanto il Giro d’Italia ti fa sentire così. È talmente travolgente, la volata di Jonathan Milan è stata così potente, che porta tutto quanto con sé. Comprese le anime di chi lo segue. Oggi ho deciso di no, voglio tornare un po’ in me. Mentre Marta guida il furgone in direzione Andora, lungo una riviera assolata, guardo fuori dal finestrino e leggo pagine a caso di “La luna e i falò”.

Per una volta, mi forzo a non lavorare. Leggo senza cercare paragoni col Giro, senza pensare a possibili punti di contatto. Leggo e basta. Torneremo a parlare di ciclismo domani: oggi ero io che stavo lontano.

"Voleva fare il boss"

Sia dopo la Milano-Sanremo che al termine della tappa di Oropa, Tadej Pogačar ha usato sui social la canzone “Boss” di Tony Effe, trapper romano. È una cosa rara, di questi tempi, che un ciclista dimostri così tanta passione per una canzone diversa da “Sarà perché ti amo”: figuriamoci se il ciclista in questione è il più forte del mondo, figuriamoci se la canzone è questa. La base è identica a “In da club” di 50 Cent, una delle più famose del rapper newyorkese. Anche il testo della canzone di Tony è semplice: le rime vanno e vengono e i temi sono quelli classici della trap contemporanea italiana, come spendere soldi, donne, oggetti di lusso, la descrizione di varie azioni più o meno inutili.

Mi interessava capire perché Pogačar fosse così attratto da questa canzone, quindi gliel’ho chiesto. Un po’, lo ammetto, l’ho fatto per pararmi il sedere: a due domande più ciclistiche della mia, Tadej aveva già risposto «no comment» e «di questa ho già detto», per cui chiedendogli di parlare di musica ero certo del fatto che avrei generato maggiore interesse da parte sua. Insomma, gli ho chiesto di Tony Effe, e lui ha risposto: «Mi piace molto, mi piace ascoltare canzoni con un bel flow. Mi piacciono rap e hip-hop. Anche in italiano ci sono diverse canzoni che mi piacciono, questa ha un ottimo beat».

È evidente che, come suona la canzone, Pogačar ieri voleva fare il boss. Quando la Ineos Grenadiers si è messa davanti a tirare sulla salitella a circa 3,5 chilometri dal traguardo di Fossano, lui era lì nelle prime posizioni del gruppo che mordeva il freno. Gli serviva solo un allungo, di chiunque fosse, è stato Mikkel Honoré, per poter avere una scusa. È stato uno slancio d’animo, una pulsione interna che solo lui ha abbinata a quelle gambe, ad avergli permesso ciò che ha fatto. Se n’è andato, ma come nella prima tappa non è riuscito a cavarseli tutti di ruota.

Stantuffando, Geraint Thomas è tornato su Pogi. Come cantava Gué in “Pappone”, ha conosciuto – una volta di più – il boss mentre fuma un Cohiba. Il cagnaccio gallese poteva dargli un cambio ma ha preferito stare a ruota e farlo impazzire ai -300 metri. Mister G ha scritto dopo la tappa che i ragazzi, al giorno d’oggi, sono così: non si può mai stare tranquilli. I due hanno preso il via uno contro l’altro a 78 giorni di gara: per 73 volte Pogačar ha finito la corsa davanti. Compreso ieri, ma non come sperava lo sloveno. Vuole sempre vincere, sempre usare le barre più estreme sul beat che ha cucito attorno a questa corsa. Ah, non lo fa per finta, lo fa per davvero: «Fila sotto casa come se fosse normale / Completo Loro Piana quando vado in tribunale».

Nella lingua di Tony Effe/Pogačar, significa che ogni giorno è buono per provare a fare il boss. È un atteggiamento quasi da cattivo, e quant’è bello da vedere.


Non stare nella pelle

Nei giorni scorsi, i giornali locali scrivevano dell'arrivo delle mondine a Novara, negli anni cinquanta, per lavorare in risaia, mentre maggio volgeva al termine. Erano donne che partivano dall'Emilia, da Rio Saliceto, da Bibbiano o da San Polo d'Enza, si maritavano a Garbagna e in altri piccoli paesi della Bassa e lavoravano nei campi senza attrezzi agricoli, solo con le loro mani. Ne parlavano perché stamani, proprio da Novara, partiva la terza tappa del Giro d'Italia 2024 e quelle risaie, quelle del vercellese, sarebbero state per molti chilometri i vetri d'acqua in cui il gruppo allungato si rifletteva, in un labirinto di specchi a tratti riflettenti a tratti deformanti. Si arriva così ad una strada serpentesca e stretta che si arrampica, compressa tra muri, muretti, balconi, ringhiere e tettoie, sino a Lu, unico Gran Premio della Montagna di giornata. In quel frangente, dopo chilometri e chilometri di nulla, dal punto di vista agonistico si intende, provavano la fuga e la sorte Davide Ballerini e Liliane Calmejane e noi pensavamo che solo loro (e pochi altri) avrebbero potuto inventare qualcosa in una situazione così a mollo nella noia. Il primo con la sua stazza, la sua bellezza in bicicletta, quasi perfetto, il secondo "dinamitardo" di ogni situazione, corridore francese di carta d'identità e di spirito, d'anima. Del resto, Alfonso Gatto aveva ragione: a chiunque non sia capo di stato o di governo, generale o cardinale, non capiterà forse mai di ritrovarsi fra tanti uomini, donne e bambini a fare da ala ad un passaggio di pochi secondi, quasi un frammento di un film, quasi un inganno dal tanto è veloce. Non capita a nessuno, se non a chi non è temuto, ma solo invidiato perché così felice di correre dietro ad un sogno: i ciclisti. Verso Lu, quella gente, probabilmente anche per il vicolo che la ospitava, era davvero sempre più e spuntava in ogni dove, ovunque si volgesse lo sguardo. Anche Calmejane e Ballerini non se la sono sentita: hanno rallentato, fino a farsi riprendere.

Sì, pure chi vive la corsa come un cavallo pazzo ha giorni in cui non riesce a credere; talvolta per timore, altre solo perché, per quanto la si possa riempire di romanticismo, la fatica è inutile in certe circostanze. E la fatica di una giornata come oggi in fuga è davvero tanta: tra strade infinite e simili, solitudini e pensieri. Non solo fatica di gambe, anche di mente, di idee. Ma, in pomeriggi come questi, la follia diventa ordinaria e il sangue, da un momento all'altro, lascia la quiete stantia in cui circola ed inizia a zampillare, a saltare, a muoversi in mille peripezie. Dapprima l'improbabile, l'illogico: i velocisti che fuggono dal plotone in una giornata in cui proprio il gruppo è la casa, il fiume, con cui possono andare al traguardo e giocarsi la vittoria, in potenza e watt. Poi il gruppo che si sfalda, si sgrana, perde pezzi, sparso su lunghi viali, tra vento e qualche goccia di pioggia. Raschi sosteneva che il ciclismo fosse fatto per accettare solo coloro con lo stesso sangue: sì, altrimenti se ne esce pazzi, privi di comprensione in certi istanti. Tadej Pogačar ha lo stesso sangue del ciclismo, per questo si sente così a proprio agio su una bicicletta: è un genio, un altro cavallo pazzo, di razza, uno di quelli che «sentono l’ora del gran premio prima che arrivi, dalle vibrazioni del vento». Per questo fa la volata ad un traguardo volante, dietro a Ben Swift, davanti a Geraint Thomas. Il fatto che si continui a vederlo sulla testa del gruppo, pimpante, "allegro andante", potrebbe far presumere altri colpi di scena? Certo, soprattutto in una giornata in cui è già successo tutto ed il contrario di tutto. Risolviamo presto il dubbio con la constatazione che è buona regola correre davanti, per tutti e per la maglia rosa in particolare. Calmiamo in questo modo ogni pazza idea. Sbagliamo, ma dirlo ora è facile.
Avevamo parlato di un finale in cui si sarebbe potuto ballare, avevamo pensato ad un liscio, in quanto la strada, pur se in pendenza, non sarebbe stata un ostacolo per lo sviluppo della potenza di Jonathan Milan e degli altri velocisti.

Le immagini non mentono: è esattamente come sembrava. Non fosse che Mikkel Honoré accelera in testa al gruppo e a saltargli sulla ruota è lo sloveno, la maglia rosa: un lupo che ha affinato l'istinto e non può trattenersi. Non si accontenta di braccare il rivale, no, rilancia, in senso metaforico e anche fisico perché la forza dell'azione riprende vigore. All'ultimo chilometro, con qualche decina di metri sul treno dei velocisti, non c'è un giovane inesperto che non sa che il gruppo può divorare alla velocità in cui è lanciato, c'è Tadej Pogačar con alla ruota Geraint Thomas e la gente a bordo strada che impazzisce perché aspettava tutto, non questo, tra le vie di Fossano, dove i ragazzi vanno in bicicletta a scuola e qualche professore si prodiga affinché il numero delle biciclette cresca di anno in anno. Pogačar non sta nella pelle, questa è la realtà. Verrà ripreso e si alzerà sui pedali, accanto alla volata già innescata e vinta da Tim Merlier, su Jonathan Milan, per nemmeno molto. Merlier che tutti chiamano "il Mago", per la sua abilità, per la sua astuzia, per il suo talento. Non è magia, è ciclismo. Quella strana faccenda che risveglia la noia e la sconquassa, quando meno te lo aspetti.

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Sforzo d'immaginazione

Com’è andata l’abbiamo visto, lo avete letto negli altri due pezzi che aprono questa newsletter, ed è stato bellissimo. Immaginiamoci per un momento che Ben O’Connor sia riuscito nel suo disperato tentativo di seguire Pogačar: ci ha provato, ma come ha ammesso lui stesso a GCN dopo la tappa «quando navighi troppo vicino al sole, vieni punto» (questo modo di dire a metà tra il marinaresco e l’apistico sarà famoso in Australia, non saprei). Fatto sta che O’Connor si è definito «il corridore più scemo della corsa» per essere andato «molto oltre la mia capacità di lattato».

Ecco, facciamo finta che tutto questo non sia successo e che O’Connor sia riuscito a seguire Pogačar. Se il giorno prima abbiamo visto Jhonatan Narváez tenere la scia dello sloveno su un muretto nella collina torinese, non è impossibile immaginarselo là Ben O’Connor, con la sua andatura sgraziata ma efficace, quasi 190 centimetri di cristiano da Subiaco, cittadina dell’area metropolitana di Perth. Pesa solo 67 chili Ben O’Connor e anche per questo è un buon uomo da classifica generale: il suo miglior risultato è un quarto posto al Tour de France 2021, dieci minuti e due secondi dietro Tadej Pogačar.

A ogni accelerazione di Pogačar, O’Connor sembra potersi spezzare da un momento all’altro, ma – non si capisce come – l’australiano non molla. È tignoso, sta digrignando i denti storti, dà di spalle. Forse veramente da un momento all’altro cederà di schianto, e invece no. Mancano due chilometri e tiene duro. Pogačar si spazientisce: dammi un cambio che andiamo via entrambi, tu anche potresti guadagnarne, sembra dire con la mano. Si apre la maglia, sbuffa, è l’ombra di Pogačar. Quando lo sloveno si alza sui pedali anche Ben O’Connor lo fa, quando si siede anch’egli si siede. Forse a fine tappa, quando Pogi andrà in zona mista per le interviste, anche O’Connor andrà alle interviste. Gli chiederanno "O’Connor ma lei non ha mai vinto nulla?", lui risponderà che "magari è vero, ma oggi gli sono rimasto incollato come un francobollo".

Quando entrano negli ultimi 250 metri, col santuario di Oropa lì, O’Connor ha l’apice dei polmoni in fiamme. Le nuvole coprono il cupolone blu della basilica, l’ultima rampa sul ciottolato non è tale da impensierirlo. Vince la tappa e prende la maglia Pogačar, va bene, ma anche oggi non è riuscito a staccare nessuno. Anche oggi è sembrato umano.

No, occorre uno sforzo d’immaginazione troppo intenso per pensare a tutto questo.


Quando si parla di amore...

Marco Pantani conosceva la storia di Lucillo Lievore, gliela aveva raccontata Sergio Zavoli, mentre, durante un'intervista, il "Pirata" si accarezzava il pizzetto e, con la mano, si copriva la bocca, quasi per una lieve forma di imbarazzo. Lievore, "un corridorino di altri tempi", quel giorno del 1966, si cimentò in una fuga solitaria di 187 chilometri, sotto il sole, "solo lui e la sua ombra", sapendo che, in ogni caso, non sarebbe riuscito a vincere: davanti alla sua bicicletta, c'era, infatti, un altro atleta, ormai irraggiungibile. A Zavoli che, durante quella tappa gli aveva posto diverse domande, per poi fargli forza con un "È quasi finita. Coraggio, Lievore!", ora non restava che chiedere un'ultima cosa: perché? Lucillo Lievore non aveva avuto molti dubbi: «Perchè, per quello che valgo, il secondo posto è come il primo e, poi, perché nella vita si arriva anche terzi, decimi, ventesimi, novantesimi e persino fuori tempo massimo». Marco Pantani, continuando a sfiorare il pizzetto e le labbra, aveva accennato solamente un amaro "sì": l'annuire di chi, in qualche modo, si riconosce nelle parole. Parafrasando Raymond Carver ed il suo capolavoro "Di cosa parliamo quando parliamo di amore", a noi verrebbe da dire che, in fondo, parliamo anche di questo, quando parliamo di amore. Nei confini di quella parola, oggi potremmo narrare di Gino Bartali, che non c'è più da ventiquattro anni, e di quel "L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare" che, alla fine, è una forma di affetto per la realtà, volerla cambiare, migliorare, cercare di farlo, perlomeno. In quel lemma sta la fuga "disperata" di Andrea Piccolo verso il santuario di Oropa, dapprima con un drappello di atleti, successivamente da solo: qualche tempo fa, ci ha confessato che, potendo tornare indietro, non cambierebbe nulla del proprio percorso, per il timore di allontanarsi dal luogo dov'è ora, nel gruppo dei professionisti, dove avrebbe voluto arrivasse presto il fratello maggiore, anch'egli ciclista. La sua fuga, con i dovuti paragoni, ha qualcosa in comune con quella di Lievore, come la fuga di chiunque nei giorni in cui tutti aspettano solo l'ineluttabile e l'ineluttabile di questo cinque maggio è Tadej Pogačar.

Laddove, poco prima, in realtà, venticinque anni fa, il 30 maggio 1999, c'era un salto di catena, accanto ad un cassonetto della spazzatura, oggi c'è una foratura, a poco più di undici chilometri dal traguardo, una caduta in curva e l'ammiraglia che frena a ridosso di quella bicicletta. Laddove c'era la pelata del ragazzo di Cesenatico e la maglia rosa, c'è il ciuffo, anzi i ciuffi, dal casco di Tadej Pogačar e la sua maglia bianca. Non si vedono gli occhi dello sloveno, quelli di Pantani li ricordiamo tutti, lambiti da un velo di qualcosa ben più profondo. Entrambi hanno dovuto recuperare: Pantani ne riprese e superò quarantanove, per Pogačar è andata diversamente, ma resta il fatto che all'inizio dell'ascesa non era più in gruppo, doveva prendere la rincorsa e ritornare sulle ruote. La sensazione che si prova quando un ciclista, in salita, "scatta nei denti" ai rivali, invece, si somiglia sempre: ha a che vedere con tutto quello che vorremmo ma non possiamo fare, avere, ha a che vedere con la felicità ed anche con la malinconia, con la tristezza, ha a che vedere con l'impossibilità di stare fermi, con un'ansietà piacevole che prende nel corpo e nella mente. Pogačar scatena questa percezione ai 4500 metri dal traguardo, nel tratto più duro della salita. Qualcosa che detona, che esplode e modifica la realtà, un big bang. Ci è tornato in mente quel che aveva scritto ieri: «Ora che il ghiaccio è rotto, si inizia a giocare davvero». Intendeva questo: voltarsi e vedere che O'Connor e Geraint Thomas non possono resistere. Forse qui c'è un piccolo residuo della giornata di ieri, quando non è riuscito a togliersi Narváez dalla ruota, nonostante gli attacchi.

La "curva Pantani" è a circa due chilometri e mezzo dal traguardo: la stessa esse impastata di romagnolo di Pantani, ragazzi che vengono dalla sua terra e che torneranno lì, perché all'alba sarà lunedì, sarà una settimana come tutte le altre. Se parliamo di amore, non possiamo scordare questa istantanea. Piadine, profumo di piadine e bandiere con il simbolo del pirata al vento. Vento nel vento, durante una rincorsa accanto a Tadej Pogačar, sui pedali, nuovamente seduto, sempre a spingere, con leggerezza e un sorriso a tratti accennato, il manifesto del suo ciclismo. Il Santuario di Oropa lo vede là, in fondo, in alto, dopo l'ultima curva, sulle pietre, al centro della strada. Marco Pantani non sapeva di essere il primo, lui sì, leva le mani al cielo. Batte il cuore, scalpita. Carver scriveva: «Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia». Ci è successo qualcosa di simile anni fa, ci è successo qualcosa di simile oggi. Perché si parla anche di tutto questo, quando si parla di amore.

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Perché tutto questo?

La mattina, la prima ammiraglia è un indizio attesissimo, il primo corridore in sella una conferma: la corsa comincia da qui. Per un po’ l’andirivieni delle squadre dal foglio firma, la presunzione di serietà degli addetti ai lavori, le urla dei delegati alla sicurezza, gli occhiali a goccia dei procuratori e mille altre cose, beh, possono sembrare incomprensibili a chi le vive per la prima volta. Perché tutto questo?

Verso mezzogiorno, poi, le cose peggiorano. Il plotone di corridori prende il via e la gente accorsa alla partenza non sa più bene che fare. Da Venaria Reale qualcuno si è mosso disordinatamente verso Torino, altri hanno preferito decretare fi-ni-ta la propria esperienza col Giro. Se ne riparlerà quando torneranno da queste parti, forse. Alcune coppie di fidanzatini, magari, tanto che c’erano, hanno pure deciso di visitarla, sta Reggia di Venaria. Perché tutto questo?

Nel pomeriggio non ne parliamo. Decine di incroci chiusi, limitazioni e disagi, il regolare svolgersi della vita bruscamente interrotto. Padri si portano dietro figlie oppure figlie costringono i padri ad accompagnarle su una salita del Giro d’Italia, dove per ore si attende sotto il sole il passaggio di saltimbanchi in bicicletta. Con le loro povere bici salgono come possono, i professionisti sì che vanno forte. Non c’è dubbio, ma scegliere volontariamente di soffrire quasi quanto loro, di avvicinarsi a loro nel più logorante modo di passare il tempo, cioè l'ansimare di fatica, a me, chi lo fa fare? Di nuovo: perché tutto questo?

Sono più o meno 18 ore filate di Giro d’Italia che mi sono sparato in vena, quindi non sono nelle condizioni ideali per dare una risposta lucida. L’ho visto però – e come me tanti altri, tutti l’abbiamo visto – cos’è successo ieri a Torino. Una corsa magnifica, un vincitore annunciato che perde; una resistenza commovente di Narváez e Schachmann sull’ultimo dentello, una spavalderia bambinesca e splendente di Pellizzari; qualche possibile sorpresa che evapora (Arensman, Valentin Paret-Peintre) e qualche altra che prende forma (Uijtdebroeks, Baudin); un Nicola Conci che chi se lo sarebbe aspettato di ritrovarselo lì. Eppure che bello sarebbe, se vincesse.

E poi abbiamo visto le persone a bordo strada, radunate a migliaia in pochissimi metri quadrati. Tutte lì per avere le prove che anche questa volta un essere umano fuori dal comune sarebbe riuscito a piegare la realtà al proprio volere. Non c’è riuscito, ma il fatto che ci abbia provato fino all’ultimo, il fatto che abbia corso contro tutti e portandosi – almeno per una salitella da Liegi – il gruppo sulle spalle, ha descritto le fatiche di Ercole a migliaia di persone. Chi c’era si è sentito riempito, rinnovato nell’amore e nello stupore, un po’ più giovane e scemo forse. Un’ultima domanda, ora: avete mai visto gente più felice?


La Avioneta

Marcovaldo, racconta Italo Calvino, attraversava la città sotto la pioggia a dirotto, curvo sul manubrio della sua bicicletta, avvolto in un impermeabile, «infagottato ed ingobbito»: sul portapacchi, una pianta che, presa a schiaffi dall'acqua, ogni volta in cui si voltava, pareva sempre «più alta e più fronzuta». Trafitte dalla pioggia di Torino, negli scorsi giorni, e chissà da quale cielo a fare da soffitto nelle prossime settimane, «le genti di tutta Italia, contadini, operai, lupi di mare, mamme, vecchi cadenti, paralitici, preti, mendicanti, ladri, schierati lungo quattromila chilometri, non erano - e non saranno - più gli stessi del giorno prima», per questo Dino Buzzati citava l'ultima città della fantasia, parlando del Giro d'Italia e di tutte le sue biciclette, assediata dalle forze del progresso. Accadrà per tre settimane e sarà un buon motivo per dimenticarsi di qualche dolore, di qualche preoccupazione: un sogno, ovvero «l'elusiva dote che ci fa ricchi per un'ora». Basta una maglia, verso Superga, per "fare più ricchi", una maglia granata, con il numero dieci, a ricordo di quel volo del 1949 e del fato solo che vinse il Grande Torino, basta una maglia e la scritta Mazzola per mantenere vivo il sogno di un bambino: non durerà solo un'ora, molto di più, come senza fine sembravano i pomeriggi della prima infanzia al Giro d'Italia, in città anch'esse spropositatamente grandi per le nostre mani, le nostre gambe e le nostre prime biciclette. È il 4 maggio, da Venaria Reale scatta l'edizione numero 107 del Giro d'Italia, mentre la città ricorda quei calciatori con la maglia granata.

Jhonatan Narváez ha poco a che vedere con Marcovaldo, ma l'acqua ed il freddo li porta dentro, e l'unico soffitto che può permettersi il plotone multiforme, il cielo, lo conosce bene: lui, "la avioneta", il piccolo aereo, come lo chiamano, è cresciuto ad alta quota e, nel 2020, quando vinse a Cesenatico, al Giro d'Italia, lo fece davvero in un giorno di acqua e autunno. Oggi, invece, a Torino, sullo strappo di San Vito c'è il sole e così tanta gente da scordare quale rumore faccia il silenzio. C'è il sole e Nicola Conci all'apice dello sforzo, più vicino alla sua prima vittoria in carriera. Allunga al massimo ogni fibra di muscolo, storce la bocca, percuote i polmoni, "tira" la bicicletta per portarla solo qualche metro più avanti. Lui non può vederlo, forse riesce ad intuirlo dall'andamento delle grida, delle urla, dell'entusiasmo che si espande, ma dietro, in testa al gruppo ormai sfilacciato, sta accadendo quello che non serviva una sfera di cristallo per presumere, per aspettare: Tadej Pogačar ha attaccato. L'assalto al Giro parte qui. Si potrebbe cedere allo sconforto di fronte alla sua superiorità di cui molto si è parlato in questi giorni di avvicinamento: si potrebbe se non si avesse l'indole di un ciclista o, anche, la giovinezza di Giulio Pellizzari, che ci ha provato, ha fatto bene, e ci riproverà perché è solo la prima delle ventuno tappe. Ha detto qualcosa di simile e sono parole che scuotono, a prescindere da come andrà. Romain Bardet e Thymen Arensman faticano: il primo pagherà quasi un minuto, il secondo più di due. È dura, il primo giorno, poi, ancora di più: solo loro sanno quel che veramente pensavano e sentivano stamani, forse qualche timore lo avevano, ma restano venti tappe e, ora che il timore è certezza, tornare in albergo è più difficile.

Tadej Pogačar continua l'assalto, gli resiste Narváez. Gli resiste e non sa nemmeno lui come: nei lunghi sospiri dopo il traguardo, ci sarà anche quello sforzo, la volontà di riprendersi il fiato che se ne era andato. Veloce, come ha imparato ad essere, riuscirà a superare in una volata a tre Schachmann e Pogačar, questo sì più difficile da immaginare. La prima maglia rosa sarà vestita sopra una maglia con i colori della sua terra, l'Ecuador, quella di campione nazionale, di cui ha più volte descritto l'energia. Non solo: ha anche scritto dei sogni, di tutte le illusioni con cui, per colpa loro, spesso ci si sveglia al mattino. Sostiene che non sia importante, perché i passi sbagliati sono solo le impronte che qualcun altro potrà seguire per farcela, nella propria vita. Fa piacere rileggerlo oggi, con la prima maglia rosa indossata, nel giorno in cui Imerio Massignan è andato via, un altro ciclista pieno di idee, di talento, di voglia, che ha ceduto spesso solo alla malasorte. Fa piacere leggerlo oggi, nel giorno che precede l'arrivo di Oropa dove, venticinque anni fa, un altro uomo ripartì dopo un salto di catena, riprese tutti coloro che gli erano davanti, li staccò e vinse. Era Marco Pantani. L'unico modo per tenere assieme tutte queste sensazioni, probabilmente, è la bicicletta, è il Giro d'Italia. Che adesso, mentre stiamo per mettere l'ultimo punto di questo pezzo, è davvero iniziato.


Livigno, Tiberi e sci ai piedi: intervista a Sonny Colbrelli

Inverno totale a Livigno. Scendiamo dalla cabinovia del Mottolino e lo scenario non è proprio da fine stagione: -10°, temperatura inusuale anche per aprile inoltrato in alta montagna; quasi un metro di neve sulle piste caduta nelle ultime 48 ore. Sonny Colbrelli ha rimesso gli sci ai piedi quest’anno e il vincitore della Roubaix 2020, passaggio dopo passaggio, pista dopo pista, si trova comunque a proprio agio sulla neve. Meno goffo, appare Sonny, dopo le prime curve di giornata. Siamo qui per la conferenza stampa della tappa del Giro d'Italia che arriverà proprio al Mottolino di Livigno, a quota 2400 metri, il 19 maggio. Sarà la tappa numero 15.

Certo che se i corridori troveranno queste condizioni meteo…

«Così sarà difficile, non sarà così freddo. Con il meteo avverso la tappa sarebbe ancora più dura. Sicuramente attaccheranno il finale di gara con la neve ai lati, lo spettacolo è assicurato. Sarà una lotta dall’inizio alla fine».

L’arrivo in quota è duro, ma quale sarà il punto decisivo dove fare la differenza?

«La tappa è tutta insidiosa. Parte dal bresciano, Manerba del Garda, passa da casa mia. Poi una salita impegnativa subito, Colle San Zeno, quindi il trasferimento fino alla Valtellina dove poi si scalerà il mostro sacro del Mortirolo. Arrivati a Bormio poi anche il Foscagno se fatto forte può far male. Il finale ovviamente sarà il trampolino di lancio per chi primeggerà. Ne vedremo delle belle…».

Pronostico per la vittoria finale?

«Scontato, Tadej Pogačar senza se e senza ma. E’ l’unico che può perderlo, ha dimostrato nelle classiche di essere imbattibile. Poi, tornando alla tappa livignasca, lo sloveno si esalta anche con condizioni meteo complicate».

La tua Bahrain su chi punta?

«Antonio Tiberi parte da capitano. E’ giovane e alle prime gare questa stagione si è mosso bene. Ci aspettiamo tanto da lui, puntiamo al podio. Può giocarselo sicuramente. Damiano Caruso invece sarà la seconda scelta e ha dichiarato di essere a disposizione di Tiberi e soprattutto di puntare ad imporsi in una tappa».

Ma non rischia di essere una scelta azzardata puntare su Tiberi come capitano?

«Dici che non ha esperienza? Certo, è alle prime battute della sua carriera, ma è cresciuto molto tatticamente e di mentalità, Antonio. E’ reduce da un podio al Tour of The Alps e anche alla Liegi Bastogne Liegi ha chiuso 22° dimostrando di avere le gambe quando la corsa si faceva sempre più dura. Io dico di tenerlo d'occhio».

Cosa ti lega così a Livigno?

«Da corridore mi sono sempre trovato bene perché oltre alla quota e alle salite, consente anche di fare pianura a 1800 metri che è davvero allenante. Poi mi ha stupito questa entusiasmo e la volontà di spendersi tanto nel ciclismo e nella sua promozione. Un posto che vive di sport invernali e punta tanto davvero sui Giochi olimpici 2026 ma trova comunque le energie e le risorse per veicolare anche il nostro sport e tutto il movimento. Un esempio per quello che fa per il mondo della bici».

Quanto ti manca l’agonismo?

«Parecchio. Mi manca quel mondo, ho investito la mia vita sulla bicicletta. Certe gioie che mi ha dato correre difficilmente potrò riassaporarle, e non parlo solo della vittoria magica della Parigi-Roubaix, che rimarrà la cosa più bella che ho fatto. Ma adesso ho voltato pagina, faccio il direttore sportivo in Bahrain e ho altri impegni con aziende e sponsor».

Ma ti vedremo in ammiraglia al Giro d’Italia?

«No, mi vedrete ma in un’altra veste. Farò il Giro-E».

 


Il questionario cicloproustiano di Davide Piganzoli

Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Altruismo.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Capacità di far stare bene.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Simpatia e capacità di aiutarti nei momenti più difficili.

Il tuo peggior difetto?
Testardo.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Ascoltare musica, camminare.

Cosa sogni per la tua felicità?
Essere felice tutta la vita.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere la mia famiglia.

In che paese/nazione vorresti vivere?
America.

Il tuo colore preferito?
Verde.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Primo Levi.

Il tuo film preferito?
Mamma ho perso l'aereo.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Vasco Rossi.

Il tuo corridore preferito?
Tadej Pogačar

Un eroe ed una eroina nella vita reale?
Non ne ho uno in particolare.

Il tuo nome preferito?
Luca.

Cosa detesti?
Le persone false.

L’impresa storica che ammiri di più?
Scoperta dell'America.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Pantani a Oropa.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.

Un dono che vorresti avere?
Immortalità.

Come ti senti attualmente?
Felice e spensierato.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
Non preoccuparti di fallire. Preoccupati di non averci provato.