La Promenade de Pogačar

Una giostra si affaccia sugli ultimi cento metri della Parigi-Nizza. Otto tappe, quasi millecento chilometri, alcuni dei migliori corridori del mondo, un paio di arrivi in salita e altrettante tappe molto mosse: il tutto per arrivare a un’attrazione per bambini. Non è l’unica giostra sulla Promenade des Anglais, ma sicuramente la più bella: ombreggiata da alcune palme e pini marittimi, piena di lucine e colori, sulla quale si può salire – sogno di un bambino dai lunghi capelli castani – col gelato in mano.

Due gemelle bionde, entrambe vestite con una minuscola giacchetta di jeans e le scarpine rosa, sono in sella a un cavallo bianco dalla sella celeste. La giostra si sviluppa su due piani: il primo a livello del terreno e un secondo, molto più piccolo e limitato, verso il tetto della giostra stessa, verniciato da scene frugali o nature morte. Si arriva al piano rialzato grazie a due scale di legno, che nella loro semplicità risaltano tra orpelli disposti ovunque. Non sono molti i bambini che si avventurano al piano rialzato: esso contiene molti meno animali e diverse sirene con la coda biforcuta, che spaventose si susseguono lungo tutto il perimetro della giostra. Solo un bambino siede da diversi minuti lassù e sembra divertirsi come un matto, da solo.

La Parigi-Nizza non è andata in modo diverso. Un solo corridore può abitare il piano rialzato di quella giostra che è il ciclismo: Tadej Pogačar ha di nuovo sbaragliato la concorrenza in una corsa a tappe di breve durata. L’ultimo insuccesso (per così dire, arrivò comunque sul podio finale) in questo tipo di corse risale al Giro dei Paesi Baschi nel 2021. Quest’anno ha preso parte a 15 giorni di corsa: sette vittorie, più due classifiche generali. Prima di Pogačar , l’ultimo corridore ad aver registrato nove vittorie prima di metà marzo fu Tom Boonen nel 2006.

Qualcuno lo chiama “il bimbo” per i lineamenti rotondi e il sorriso fanciullesco, ma il modo in cui ha distrutto la Parigi-Nizza non ha nulla di infantile o improvvisato. Disdetta la partecipazione alle Strade Bianche per cause logistiche, fa il diavolo a quattro già nelle prime due tappe, perlopiù piatte, dove riesce a prendere preziosi secondi di abbuono. Lavora ai margini perché sa che la Jumbo-Visma di Vingegaard è favorita nella crono-squadre: i calabroni vincono, ma senza dominare. Nel primo arrivo in salita della Corsa del Sole (è un soprannome meteorologico come La Primavera per la Milano-Sanremo: con essa torna la bella stagione) Pogačar scherza col resto del gruppo. È una salita da Pogačar , circa 7 chilometri al 7%, quelle che durano una ventina di minuti in cui lo sloveno sembra alieno.

È Vingegaard ad attaccare per primo. Se ne vanno in due, i soliti due. Il danese chiede il cambio, Pogačar non accetta, lo affianca per alcune decine di metri come a dire beh? Tutto qua? Poi si rimette a ruota, guarda la telecamera e sorride a bocca chiusa, quasi fosse a passeggio la domenica dopo pranzo. Vingegaard si spegne abbastanza presto e Pogačar batte Gaudu allo sprint.

Tre giorni dopo, sul Col de la Couillole, un momento significativo è ai –6. Vingegaard esce fortissimo da un tornante e rilancia l’andatura alzandosi sui pedali, ma appena si siede è Pogačar a fare la differenza. Nello stesso momento, in fondo a quel gruppetto, Aurélien Paret-Peintre cade: è una strana riproposizione, forse, dell’effetto farfalla nella teoria del caos. Il vento frontale consiglia a Pogačar di non insistere nell’azione, ma allo sprint di nuovo non ha rivali. È la messa in scena di un copione: glaciale nella programmazione, sovrabbondante e quasi eccessivo nell’esecuzione.

Riesce ad andare via davvero, invece, nell’ultima tappa, rapsodica altalena tra le colline attorno Nizza. Il Col d’Eze è divenuto, negli ultimi anni, l’ascesa finale tipica della Parigi-Nizza: a volte è stato addirittura sfruttato un altro versante per una cronoscalata. È una salita conosciutissima dai tanti professionisti che vivono in zona e ci si aspetta un attacco lì.

Chi sta mangiando ostriche nel privé all’arrivo posa la conchiglia per indicare il maxi-schermo, chi passeggia per la Promenade des Anglais anziché sedersi sulle famose panchine azzurre corre alle transenne per prepararsi al passaggio della corsa. Un uomo regge l’Equipe e il suo titolone a tutta pagina sul rugby (la Francia ha rifilato 53 punti all’Inghilterra a Twickenham) con una mano e con l’altra guarda la corsa con lo smartphone. Si sono svuotati The service course e il Café du cycliste, due ciclo-bar che vanno per la maggiore per la pausa a metà pedalata. Questa parte di Nizza, che sembra un po’ il lungomare di Rimini e un po’ il rinnovato e finto quartiere Isola a Milano, ecco anche questa Nizza trattiene il fiato per Tadej Pogačar sul Col d’Eze. Attacca.

Simon Yates lo vede partire, proprio al suo fianco, senza nemmeno che si alzi sui pedali. Non pensa nemmeno di accelerare per provare a stargli dietro. Con Gaudu, Vingegaard e Jorgenson prova a dare cambi, a inseguire con quanto ne ha, ma nemmeno quattro contro uno riescono ad avvicinarsi, a riprenderlo. Pogačar scollina per primo e la picchiata verso Nizza è perfetta: la giostra, la folla e la bandiera a scacchi attendono solo lui.

Un azzeccato paragone tra corse ciclistiche e circo fu portato avanti da Vasco Pratolini inviato al Giro d’Italia 1947. Il grande mattatore delle giostre, un Gino Bartali rinominato Buffalo Bill, non era in gran forma e le batoste che subiva da un Coppi lanciatore di coltelli avvolsero la corsa di un manto triste, decadente. È una sensazione simile a quella che traspare dalle parole di Romain Bardet dopo il dominio di Pogačar alla Parigi-Nizza: «Non continuerò a correre a lungo se ciò comporta esclusivamente dover prendere mazzate come questa». Eppure, ancora per diverso tempo su queste giostre si parlerà sloveno. È un circo, il ciclismo moderno: una esibizione attira tutto l’applauso del pubblico e gli altri attori sbirciano da fuori il tendone.

Foto: Aurelien Vialatte


Di sloveni ubriachi, peli e sorrisi

IL SORRISO DI TADEJ

Pare che gli americani abbiano calcolato la grandezza di un asteroide passato nelle scorse ore vicino alla terra con la misura di sessantanove alligatori: chi siamo noi per non misurare la capacità di dominare una corsa in Pogačar?

Verrebbe da dire, anche: “questo ragazzo, Tadej Pogačar, è irreale”. Come definireste il suo impatto con il mondo del ciclismo? Da quando è cresciuto definitivamente in questo microcosmo sembra aver deciso di mettere per iscritto un regolamento tutto suo, ispirato a una civiltà in cui il cannibalismo era un rito, rappresentante quasi unico di un ciclismo dove si vince senza fare prigionieri e se possibile lo si fa con il sorriso stampato sul volto.

Prima era il ciuffo sbarazzino, poi la linguaccia sul traguardo de Il Lombardia rivolta a Mas o forse a se stesso e ai suoi tifosi, emblema di un modo di interpretare questo sport che di divertente sembrerebbe avere poco, in realtà, soprattutto nel momento in cui lo stai praticando; poi c'è stato quel momento durante la Parigi Nizza in cui, prima di stroncare Vingegaard e lasciarlo sul posto come un maleducato farebbe durante una passeggiata, in un sentiero, con una cartaccia, si volta verso la moto ripresa e sorride.

Ma più che irriverenza c’è consapevolezza; è l’affrontare la vita e il ciclismo così, come piace a noi, lui stacca o batte allo sprint - perché è notevole lo spunto veloce - gli avversari, e prova a farlo da febbraio a ottobre. Quest’anno non vuole mancare l’appuntamento caldo del Tour de France, con un successo finale, ma occhio anche a ciò che avverrà a breve perché dal 18 marzo al 23 aprile ci sono tre momenti segnati in grassetto, iniziando dalla Sanremo di domenica dove sarà costretto a gestire meglio, rispetto al 2022, la sua idea di fratricidio  - e siccome è una spugna lo farà - mettendo però giù corsa dura, forse pure durissima dalla Cipressa e gestendo gli attacchi, i suoi attacchi, sul Poggio. Magari non quattro, cinque di fila, ma uno ben assestato in uno dei punti focali sui quali si pone l'attenzione di tutti nella celebre salita prima della picchiata verso Sanremo.

Milano Sanremo 2022 - 113th Edition - Milano - Sanremo 293 km - 19/03/2022 - Tadej Pogacar (SLO - UAE Team Emirates) - Wout Van Aert (BEL - Team Jumbo - Visma) - photo POOL Fabio Ferrari/SprintCyclingAgency©2022

A qualcuno non piace il suo modo, oppure giudica insipido il suo rapporto con la stampa, un po’ freddo e banale, ma la gloria per Pogačar si raggiunge tagliando il traguardo per primo e basta: la vera novità per la nostra generazione di appassionati e osservatori è quella di trovarsi di fronte a un corridore che può vincere qualsiasi tipo di corsa, come accaduto poche volte in un passato ormai lontano.

Quello che importa non è quale storia abbia alle spalle, ma quale starà per scrivere: quando attaccherà e come; cosa si inventerà per vincere, in un momento storico nel quale la concorrenza è agguerrita su ogni percorso e varia, e dove lui è l'unica costante.

Pogačar non lascia nulla agli altri né al caso come nella penultima tappa di montagna alla Parigi-Nizza dove: «È stata dura, la prima vera giornata dura dell’anno ed è andata come previsto». Ovvero gol di Pogačar e palla al centro. Aveva bisogno di faticare e ha faticato e ha vinto. In quel modo leggero che conosce solo lui.

E siamo a quota 9 successi a marzo 2023 ovvero più della metà di tutto il 2021 (13) e di tutto il 2022 (16). Una crescita numerica inarrestabile.

ALTRO SULLA PARIGI-NIZZA

Paris Nice 2023 - 81st Edition - 7th stage Nice - Col de la Couillole 142,9 km - 11/03/2023 - Jonas Vingegaard (DEN - Jumbo - Visma) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

C’è Vingegaard che rimbalza, solo che ora fa più rumore perché ha acquisito un nuovo status: lui è quello che ha battuto lo sloveno al Tour, che fa il capitano della squadra più forte e temuta, lui è quello che appare proprio il contrario del suo rivale e per tanti aspetti ed è interessante che la faccenda vada così: che se la sbrighi ognuno a modo proprio.

Perché se Pogačar c’ha quel sorriso stampato in faccia che lo si ama o ti irrita, Vingegaard, invece, è quello che dopo il Tour, travolto dalla popolarità e dallo stress, deve staccare e scappare, fino a quasi scomparire. È quello che non si pone al momento altri grossi obbiettivi a parte la grande corsa a tappe francese, pur correndo molto, per carità non entriamo nel dibattito; è quello che in bici pare un elemento freddo e distaccato mentre a fine gara si scioglie e cerca conforto al telefono parlando con sua moglie non appena finisce una corsa. È quello che nella prima tappa di montagna di questa Parigi Nizza ci prova, attacca, getta la sfida, ma si riduce a dare lo spunto a un Pogačar che forse, se possibile, è ancora più forte dello scorso anno. Vingegaard è quello che in Spagna solo pochi giorni prima faceva il Pogačar (ecco l'unità di misura) ma poi si stacca in Francia. «Andavano troppo forte per me» dirà in riferimento all’ultimo arrivo in salita quando, facendo l’elastico dietro Pogačar e Gaudu, riuscirà a rientrare salvo poi staccarsi durante lo sprint finale. Per luglio c'è tempo, avete voglia...

Paris Nice 2023 - 81st Edition - 4th stage Saint-Amand-Montrond - La Loge des Gardes 164,7 km - 08/03/2023 - David Gaudu (FRA - Groupama - FDJ) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

E a proposito di luglio, status raggiunti e Tour de France: uno spettacolo vedere David Gaudu salito così tanto di livello da aver corso praticamente su quelli di Pogačar  Un bel vedere per il simpatico scalatore francese che ora, da qui all'estate dovrà cercare di superare il tritacarne mediatico d'oltralpe che rimarcherà un fatto: “potrà un francese vincere il Tour tot anni dopo Hinault?”.

Volate, in breve: bene Pedersen che sembra avere ancora con un po’ più di margine di miglioramento rispetto al 2023 e sarà tra gli outsider più credibili nei prossimi quattro week end di corse che vedranno la bellezza di quattro grandi classiche del ciclismo imperdibili (18 marzo, Milano-Sanremo, 26 marzo, Gent-Wevelgem, 2 aprile, Fiandre, 9 aprile, Paris-Roubaix); bene Merlier che si conferma il più forte velocista al mondo in questo momento dopo un anno così così; benissimo Kooij ormai una realtà tra gli sprinter puri; tanto da imparare invece per De Lie e per il suo treno, un corridore con abilità innate nello sgomitare al Nord ancora molto poco a suo agio (lui e il suo treno) nelle volate di gruppo soprattutto quando c'è ancora parecchia freschezza in giro.

IL LEAD OUT DI VAN DER POEL

Tirreno Adriatico 2023 - 58th Edition - 7th stage San Benedetto del Tronto - San Benedetto del Tronto 154km - 12/03/2023 - Jasper Philipsen (BEL - Alpecin - Deceuninck) - Mathieu Van Der Poel (NED - Alpecin - Deceuninck) - photo Tommaso Pelagalli/SprintCyclingAgency©2023

Parlare di volate di gruppo ci dà il giusto lancio per introdurre la Tirreno-Adriatico e prima di parlare di dominio sloveno anche qui, ecco un accenno a van der Poel che lancia perfettamente Jasper Philipsen nella tappa di Foligno dopo aver sbagliato tutto il giorno prima a Follonica facendo a pezzi chi gli stava a ruota e favorendo il lancio per Jakobsen.

Perfetto in terra umbra van der Poel: in un lead out che fa parlare perché arriva da uno dei corridori più amati dai tifosi e più forti del gruppo, perché lui sostanzialmente ha sempre fatto fatica in questo ruolo (e appunto il giorno prima…) ma come Pogačar, come tutti i fuoriclasse, ha un tratto distintivo che è la capacità di imparare subito dai propri errori e rimediare. E più o meno è simile ciò che accade nell’ultima tappa di San Benedetto del Tronto (a proposito, cari velocisti, massima stima per il vostro coraggio nell’affrontare arrivi di questo genere) anche qui pilota, con meno forza e meno precisione, ma è un bel vedere comunque, portando Philipsen e la sua squadra al successo numero due della stagione. Philipsen che batte Jakobsen per 2 a 1.

A proposito di Jakobsen: in questo inizio di stagione non sono mancate le vittorie, ma nemmeno i momenti in cui si vede che la paura prende il sopravvento. A San Benedetto del Tronto a un certo punto si rialza dalla ruota dei suoi compagni - invece loro perfetti nel portarsi davanti, ma appunto senza velocista al seguito. Normale dopo tutto quello che gli è successo, anzi per chi scrive resta come eccezione quello che è riuscito a fare negli anni dopo il grave incidente accorsogli al Giro di Polonia.

È stata una Tirreno Adriatico che ha vissuto sul vento contro e laterale che ha influenzato i finali di gara, soprattutto l’arrivo più importante, quello di Sassotetto; ha vissuto su un video che ha fatto il giro del mondo ciclistico e ci ha strappato un sorriso, soprattutto perché conseguenze non ce ne sono state, ma in realtà da ridere ci sarebbe poco nel vedere in diretta televisiva, mentre un corridore viene intervistato, un auto (dell’organizzazione?) che investe in pieno una bicicletta. Quel corridore, lo sapete tutti, è Ciccone, la bicicletta era la sua, e la reazione è un capolavoro di tempismo, tanto spontanea quanto empatica:c’è del genio nel salvataggio dello scattista abruzzese che riesce a censurare il finale di quella bestemmia entrando direttamente nella leggenda dei tormentoni di questo magnifico sport. Grazie Ciccone.

La Tirreno poi, ha vissuto momenti di dominio simili a quelli che avvenivano pochi chilometri più a nord ovest: uno sloveno su tutti anche qui, si tratta di Primož Roglič e anche qui di storie ce ne sarebbero da raccontare.

I PELI DI ROGLIČ

Tirreno Adriatico 2023 - 58th Edition - 3rd stage Follonica - Foligno 216 km - 08/03/2023 - Primoz Roglic (SLO - Jumbo - Visma) - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Non si può parlare sempre di contenuti tecnici, statistici, wattaggi, tattiche incomprensibili, corridori che dominano, giornalisti francesi che litigano su twitter, deve restare del tempo per Roglič che mostra fiero i peli delle gambe non depilati come ormai nemmeno più i ciclisti della domenica fanno (a parte chi scrive). Pare, si scoprirà dopo il primo dei tre successi di tappa consecutivi ottenuti nella corsa italiana, che lo sloveno della Jumbo Visma abbia fatto una scelta dettata dalla scaramanzia decidendo di non depilarsi fino al primo successo stagionale che è arrivato decisamente in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Roglič, infatti, sarebbe dovuto rientrare alla Volta Catalunya nei prossimi giorni, ma dopo essersi testato in allenamento aveva deciso di correre la Tirreno con i risultati che tutti abbiamo visto. Tre tappe, la classifica finale, quella a punti e quella dei GPM.

Tirreno Adriatico 2023 - 58th Edition - 5th stage Morro d'Oro - Sarnano - Sassotetto 168 km - 10/03/2023 - Primoz Roglic (SLO - Jumbo - Visma) - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Un Roglič che si dimostra ancora una volta pressocché imbattibile su certi arrivi - certo, la concorrenza sin troppo sorniona ne ha favorito l'esito - soprattutto quando c’è da sprintare in un gruppetto dopo una salita: siamo convinti che così non basterà per vincere il Giro, ma potrebbe avere ancora margine per migliorare. Ancora Rogla, poi, protagonista nel dietro le quinte come si può vedere da questo siparietto e dall'occhio lucido.

Se quest’anno la corsa non ha lanciato troppi spunti dal punto di vista tecnico, ha lasciato i veri fuochi d’artificio per altri momenti, il contorno, tra bestemmie, peli e sloveni ubriachi dopo le premiazioni, ha raggiunto picchi incredibili.

E IN CHIAVE SANREMO?

Qualcuno si è nascosto o per meglio dire ha fatto dei lavori che torneranno utili più avanti: le sgasate di van der Poel in versione pesce pilota, le tirate di van Aert ad Osimo che hanno fatto arrabbiare pure Alaphilippe e ancora Ganna in alcuni finali di tappa, vanno in questo senso, mentre qualche dubbio resta sulla condizione di Bini Girmay, corridore che in Via Roma potrebbe arrivare a braccia alzate, ma che alla Tirreno non ha convinto fino in fondo - seppure un 3° e un 4° posto sono buoni risultati, ci mancherebbe. Probabilmente anche lui ha preferito nascondersi soprattutto negli arrivi più tortuosi, per poi farsi vedere solo nel momento giusto. Spesso nella Classicissima è quello che conta, a meno che non ti chiami Mohorič e vai in giro per il gruppo a canticchiare e a dire che in discesa stacchi tutti. Ma lo abbiamo detto: il ciclismo è pieno di gente forte, sì, ma anche meravigliosamente folle e geniale.

Foto in evidenza: ASO/Aurelien Vialatte


Il Fauniera al contrario

«Meno cose hai, più emozioni vivi»: è questa la prima frase che ci dice Davide Rivero parlando di bicicletta e di viaggi. Sarà perché le emozioni che ha vissuto il 12 settembre del 2020 sono nate proprio da una situazione di privazione: sì, la pandemia da Covid19 aveva reso impossibile disputare la Gran Fondo Fausto Coppi, a cui Davide partecipava dal 2016, migliorando ogni anno il proprio risultato. La sera dell'ufficialità, leggendo la mail che lo comunicava, Davide l'aveva detto ad un'amica: «Sai cosa faccio? Il Fauniera, quest'anno, lo pedalo al contrario». Vi togliamo subito ogni dubbio, non era un modo di dire: Rivero intendeva proprio pedalare all'indietro tutta la salita del Colle Fauniera.

«Era un modo per comunicare la necessità di cambiare prospettiva, rispetto alla pedalata, ma più in generale rispetto a molte cose che la quotidianità ci presenta. Talvolta, l'unica via per sopportarle è leggerle diversamente da ciò che la società indica come lettura predefinita». Davide Rivero abita a Valgrana e il Fauniera è la salita di casa, quella che ha percorso decine e decine di volte, quella che, anche quella sera, è certo di conoscere in ogni metro: nel verde vivo della vegetazione e negli squarci ad ogni cambio di direzione. Prova a pedalare al contrario nel cortile di casa, come faceva da bambino, dalla nonna, e vede che ne è ancora capace, che dovrà allenarsi, ma si può fare. Ne parla con gli amici e l'entusiasmo viene declinato in varie forme: nella curiosità, nell'interesse, nella sorpresa e anche nell'incredulità.

Fino al giorno in cui ad ascoltare questo progetto è il suo preparatore, un giorno che avrebbe dovuto essere come tanti, invece, è stato il più difficile e, allo stesso tempo, il più facile di tutti gli altri: «Mi ha messo davanti al fatto che non sarebbe stato come lo immaginavo, ha smorzato quell'entusiasmo e, per un momento, sono stato davvero vicino all'idea di lasciare perdere. Era tardi, ero nervoso, non potevo fare altro, così sono uscito in bicicletta, pedalando al contrario a Montemale, più per sfizio che per quel progetto che, ormai, sembrava allontanarsi».
Lo vedono molti automobilisti che stanno percorrendo la stessa strada, ancora oggi si chiede cosa abbiano pensato, però ci confessa che quasi nessuno gli ha suonato il clacson o si è lamentato. Lo guardano negli occhi, cercano di capire: «Credo sia il contatto visivo a impedire la lamentela. È più difficile suonare a una persona che hai visto negli occhi: quando siamo di spalle, possiamo essere chiunque, diventiamo anonimi, il volto restituisce identità e, nel momento in cui conosci l'altra persona, anche per una frazione di secondo, sei portato a fare più attenzione. Basta un sorriso per disinnescare». Questa scena si ripeterà per molto tempo, perché, proprio in quella pedalata, Davide troverà il motivo per percorrere davvero il "Fauniera al Contrario".

Si tratta di Luca Cucchietti che, quel giorno, incontrandolo, gli dice solo: «Ma che fai? Sei folle?». I due già si conoscevano: Luca pedala in handbike, dipinge, ha molte passioni e un'idea: «Davide, vengo io con te sul Fauniera: ci copriamo le spalle reciprocamente». Il fine sarà solidale: raccogliere fondi per diffondere lo sport tra ragazzi diversamente abili.

Sì, il cambio di prospettiva è anche qui: la visuale dell'uno, completa la visuale dell'altro. «L'unico modo che avevo per riuscire a salire era fidarmi delle indicazioni di Luca, dei suoi occhi, perché ai miei era bastato vedere il Fauniera capovolto, per non riconoscerlo quasi più». Ancora oggi, pensandoci, gli sembra assurdo: quel luogo che era convinto di conoscere perfettamente, in realtà, gli era totalmente estraneo, percorso di spalle. Si torna all'attenzione, a quello su cui la mente umana si focalizza, a quello che memorizza e restituisce. Si torna al fatto che, quando si toglie qualcosa, in realtà, si aggiunge sempre.
«Se il rapporto con Luca è ancora forte, è proprio perché, in quei momenti, essendo affaticati, stanchi, abbiamo dovuto essere più veri che mai. Quando togli le sovrastrutture, resta quello che veramente sei, stai raccontando la tua verità e la verità, può piacere o meno, ma resta». Fra le verità c'è l'attesa, la preparazione, che è la parte più forte, quella in cui si inizia a vivere la festa, intesa come condivisione. Perché, già da prima di quel 12 settembre, in città se ne parla, le persone chiedono e ognuno vede qualcosa di diverso in quell'idea: «Credo sia giusto così, sia bello così. Per me festa significa proprio condivisione. È festa quando tante persone, che non si conoscono, sono accomunate da qualcosa, e per questo si incontrano, si parlano, pranzano assieme o condividono un tratto di prato del Fauniera per aspettare. Forse non si sarebbero mai incontrate, non si sarebbero mai guardate negli occhi, invece hanno un motivo per farlo, per sentirsi unite».

Il venerdì sera, 11 settembre, piove forte, diluvia, ma il sabato non c'è una nuvola, è la classica giornata di fine estate, mentre Davide e Luca, al mattino, iniziano la loro sfida. Davide pedala su una Cinelli del 1987, la più vecchia che ha, perché non ammortizzando è più stabile. Luca è lì, a coprirgli le spalle, a raccontargli ciò che sempre aveva visto. Un viaggio che durerà più di 30 chilometri, circa 1900 metri di dislivello, due ore e quaranta minuti: il tutto in mezzo a tanti ad aspettarli, a pedalare con loro.

«In vetta eravamo stanchi, felici, ma anche dispiaciuti, svuotati. Era finita, l'avevamo fatto, restava un ricordo. Succede sempre così: l'emozione più intensa è nell'immaginare ciò che sarà, quando, invece, quel che aspetti è passato non sai più a cosa pensare, qualunque cosa non ti basta. Ad oggi, penso sia stata una delle più belle giornate della mia vita. Credo sia l'altro volto che ho dato alla bicicletta, che per me era molto legata ai numeri e alle prestazioni. C'è un prima e un dopo nel mio rapporto con il ciclismo: il "Fauniera al Contrario" è lo spartiacque».

Non è finita qui, anche se così parrebbe. Davide Rivero, oggi, corre a piedi, la bicicletta è rimasta e non potrebbe mai lasciarla, forse anche per quel giorno di settembre, ma la sua attività sportiva ha cambiato focus. Mutare prospettiva, unire due sguardi diversi, gli è servito proprio a questo: «Spesso, quando qualcosa finisce, lo copriamo con la malinconia o la dimenticanza, invece dovremmo portarlo con noi, salvandolo da tutto il resto, proprio per l'importanza che ha avuto, per quanto ci ha fatto felici. Pedalare al contrario ha salvato la mia bicicletta».


Il questionario cicloproustiano di Marta Cavalli

Lo chiamano questionario proustiano, ma in realtà Marcel Proust non scrisse le domande: divennero famose le sue risposte poi trovate in un cassetto e pubblicate su una rivista letteraria. Quel manoscritto, come racconta Rivista Studio, è stato battuto all'asta qualche anno fa per centoduemila dollari. È diventato una sorta di "genere giornalistico" e noi lo chiameremo cicloproustiano, perché alcune domande verteranno più sul nostro sport preferito e inizieremo da Marta Cavalli, di mestiere corridore.

Il tratto principale del tuo carattere?
Umiltà

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Serietà

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Sincerità

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Lealtà

Il tuo peggior difetto?
Essere troppo testarda

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare

Cosa sogni per la tua felicità?
Di non lasciarsi ostacolare dalle difficoltà

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Che l'inverno durasse per sempre

Cosa vorresti essere?
La miglior versione di me stessa

In che paese/nazione vorresti vivere?
Austria

Il tuo colore preferito?
Blu

Il tuo animale preferito?
Aquila

Il tuo scrittore preferito?
Non ho uno scrittore preferito

Il tuo film preferito?
Avatar

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sfera Ebbasta

Il tuo corridore preferito?
Mark Cavendish

Un eroe nella tua vita reale?
Il mio coach Flavien

Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma

Il tuo nome preferito?
Andrea

Cosa detesti?
Non vedere riconosciuti i meriti

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Erode

L’impresa storica che ammiri di più?
L'allunaggio di Neil Armstrong

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
La fuga solitaria in Yorkshire (Campionati del Mondo) di Annemiek van Vleuten

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia

Un dono che vorresti avere?
Teletrasporto

Come ti senti attualmente?
Ottimista

Lascia scritto il tuo motto della vita
Crederci sempre, arrendersi mai


Top&Flop - alvento weekly #2

TOP

Jonas Gregaard

Il ragazzo danese cerca di rilanciarsi, ha lasciato l'Astana due anni fa sposando il progetto UNO-X Pro Cycling. Il ragazzo danese va in fuga quasi tutti i giorni alla Parigi-Nizza. Il ragazzo danese ha tre meriti:

1) Conquista la maglia a pois della celebre corsa a tappe di marzo rendendo orgogliosa la sua squadra che a luglio tornerà sulle strade francesi per il primo Tour della propria giovane storia.

2) "Costringe" un capitano consumato come Alexander Kristoff ad aiutarlo in fuga a conquistare punti decisivi alla conquista del primato.

3) Evita che Tadej Pogačar vada a casa con tutte, ma davvero tutte, le maglia di leader della Corsa verso il Sole.

Lorena Wiebes

Se ci fermassimo ai numeri, basterebbe dire che, per Lorena Wiebes, la vittoria alla Miron Ronde van Drenthe è la terza da inizio stagione, l’ultima solo una decina di giorni prima. Magari aggiungendo che è anche la terza consecutiva nell’albo d’oro della gara e solo Marianne Vos aveva fatto qualcosa di simile. Ma c’è di più, molto di più, in realtà.
Lorena Wiebes è fra i top di questa settimana per il modo di sprintare, per la netta sensazione di superiorità che ha, fino ad ora, offerto, per il tempismo che con cui parte e la capacità di levarsi quasi di ruota le avversarie. Tutto questo a soli 23 anni, con la maglia di campionessa europea addosso.

Giulio Ciccone

Del salvataggio geniale in diretta RAI ne abbiamo già parlato, ma il corridore abruzzese in queste prime settimane di corsa non è solo quello. È un corridore attivo che cerca il successo, battaglia con i migliori, si è già sbloccato e punta forte a qualche tappa al Giro. Con questa forma vogliamo vederlo anche sulle Ardenne perché può farci divertire.

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FLOP

Arnaud De Lie

Oneri e onori dell' essere considerato una sorta di ragazzo prodigio del ciclismo mondiale. La facilità con cui ha raggiunto diversi successi nei primi quindici mesi tra i professionisti si scontra con la dura realtà di una Parigi-Nizza nella quale si è perso in mezzo alle sgomitate degli altri sprinter (puri) e dei treni più collaudati. Attenzione però: Arnaud De Lie in testa e nelle gambe ha ben altro che le volate di gruppo e lo vuole dimostrare già da questa primavera.

Mikel Landa

Ma quello zigzag in salita alla Tirreno per le vie di Osimo, tra paletti e marciapiede, era proprio necessario caro Mikel? Hai fatto dei rifili che ci hanno fatto spaventare, ma a parte questo: ti rendi conto che continui a giocare con il nostro cuore quando scatti e poi non affondi? Ti prego Landa, vinci qualcosa! altrimenti non riusciamo a trovare pace.

La Ineos di Classifica

Può una squadra che presenta tra Parigi-Nizza e Tirreno-Adriatico, Dani Martinez, Pavel Sivakov, Thymen Arensman, Tom Pidcock e Tao Geogheghan Hart (quest'ultimo ha iniziato bene, lui non è un flop della settimana, anzi!) chiudere come miglior risultato con il 3° posto di THG in Italia e col 9° di Sivakov in Francia? Evidentemente sì, ma evidentemente non basta. Ci rivediamo al Catalunya, signori.

Foto: ASO/Aurelien Vialatte


Vittoria Bussi: quando sull'Etna si fa sera

Appena sull'Etna si fa sera, Vittoria Bussi, dopo una giornata di lavoro in bicicletta per preparare il record dell'ora, telefona a sua madre, poi a Rocco, il suo compagno, e la prima domanda è sempre quella: «Quanti problemi hai risolto oggi?». Se lo chiedono reciprocamente, da due settimane a questa parte, da quando lei è lassù, in altura. Bussi spiega che ogni giorno incontra un problema in ciascun ambito: l'allenamento, l'equipaggio, il meteo, i contatti da tenere, le preoccupazioni di casa, talvolta il fisico messo a dura prova. A questo si aggiungono gli imprevisti: la neve, la volpe sul vialetto d'ingresso dei locali in cui soggiorna, il vento, la corrente che salta e lo scantinato in cui si cerca di ripristinarla per continuare a rispondere alle mail, a programmare viaggi e a prenotare voli. Il tutto da sola, nel silenzio, non vedendo nessuno per ore ed ore: «Starò qui ventuno giorni, perché so che mi fa bene, che serve per il traguardo che voglio raggiungere, ma l'altura, almeno durante la prima settimana, mi causa un vero e proprio malessere fisico. Confesso che, quando torno a casa, passo il primo giorno a piangere, a liberarmi della corazza che devo portarmi addosso: di donna forte, sicura, come si chiede ad una atleta».

Qui mancano i rumori di Roma, quel caos che diventa parte di chi ci vive, un suono da ricercare ovunque, ma anche Torino, dove Bussi abita, pare difficile da immaginare. Vittoria, in realtà, ha dovuto abituarsi a Torino, che sembrava una "città silenziata" rispetto a Roma: «Ho scoperto che mi piace guardare l'arco alpino. Che passo minuti a osservarlo e, se la quotidianità non incombesse, resterei ore così. Quei monti sono un punto fermo». Un punto da cui, col passare del tempo, è sempre più difficile staccarsi, andare via perché, a trentacinque anni, si è già viaggiato molto, si sono già visti molti luoghi e si sente necessità di fermarsi da qualche parte, di un ambiente familiare.

«Me ne sono andata lontana già da ragazza, per il dottorato, in Inghilterra: era necessario, ma comunque difficile. E oggi, dopo molti anni, anche quando non sono in altura, devo ancora andare altrove per trovare un velodromo in cui allenarmi: in Svizzera, in Norvegia o chissà dove. Forse per questo sento così tanto bisogno di casa. Per questo, dal giorno in cui sono arrivata, conto i giorni che mancano per tornare». Qualche settimana fa, alla dogana con la Francia, l'hanno fermata delle motostaffette della polizia francese: le hanno fatto smontare tutto, mostrare la bicicletta e i materiali che aveva. Minuti e minuti: «Non credevano che fossi una ciclista perché sostenevano che i ciclisti hanno una squadra e non fanno tutto da soli. Non credevano neppure che fossi lì per allenarmi: "Perché non si allena in Italia?". Dal loro punto di vista, avevano pienamente ragione: probabilmente quello è stato uno dei giorni in cui ho avvertito maggiormente il senso di ingiustizia per queste lontananze che devo sempre impormi».

Una lunga traversata in traghetto, poi la macchina e si sale. Avrebbe voluto chiedere a sua madre di accompagnarla, non l'ha fatto perché ha pensato che quella solitudine non le avrebbe fatto bene, ha portato solo i suoi gatti, «l'unico legame con casa che c'è qui», e, al mattino e alla sera, passa tempo a spazzolarli: «Sai che, quando parti in solitaria, tutti ti chiedono se davvero sarai solo e perché hai scelto di fare un viaggio da solo? Perché è difficile, come essere indipendenti, come diventare grandi. La prima volta in cui mi è accaduto è stato quando è mancato mio padre: non c'era più nessuna coperta a proteggermi, dovevo essere adulta e imparare io stessa a proteggere gli altri. Anche mia madre. Probabilmente impari in quei momenti a mostrarti più forte di quella che sei, a lasciarti andare quando nessuno ti vede». Spiega Vittoria Bussi che la solitudine dell'altura è fra le più difficili, quasi straniante.

Qualche sera fa, è scesa dall'Etna per andare a prendere Edoardo Frezet, fotografo del progetto, che resterà con lei per diversi giorni, e ritrovare la città, le persone nei bar e nei ristoranti, le ha lasciato una sensazione particolare addosso, nonostante la sua romanità si nutra dello stare assieme agli altri. Si è quasi sentita in imbarazzo: «Devi imparare a stare con te stesso ed è un apprendimento difficile perché ti conosci e vedi anche parti di te che non ti piacciono. Quassù non ho molte convenzioni sociali da seguire, ma quando ritrovo le persone mi chiedo se sarò a posto, se andrò bene». Sorride e racconta di quando Edoardo stava iniziando a fotografarla sui rulli, in una giornata di brutto tempo: «È stato un flash: "Aspetta, io non mi sono depilata". Sembrava un problema, non lo era e voglio che le foto di questo record siano vere, restituiscano l'immagine di una donna nella quotidianità e dei giorni in cui non c'è tempo, dei giorni in cui facciamo tutto di corsa e a sera siamo stanche e spettinate. La realtà di una donna e di un'atleta è anche questa».

 

Le giornate di Bussi iniziano alle otto e mezza: riscaldamento, attivazione e verso le dieci si esce a pedalare. Non sopporta la neve e quando la trova ghiacciata, sul vialetto che percorre con la bici in spalla. Si sfoga, parlando da sola in romanesco e quasi si vergogna, quando qualcuno la sente: «Anche questo, forse, molti non lo direbbero. Lo dico perché sono casereccia, sono così, e mi piacciono le cose naturali. Sto detestando questa neve, la cancellerei se potessi, e gliene dico di tutti i colori, come con le cose che non sopporto». In camera ci sono sempre libri e fogli perché sull'Etna si scopre il proprio corpo, i propri muscoli, come reagiscono. Il primo ritiro non va mai bene, il secondo meglio, il terzo, di solito, è quasi perfetto. Complicato, però, spiega Bussi, essere una sportiva ha anche questo significato: «Non accettare ciò che altri ti dicono passivamente, voler scoprire perché le tue gambe fanno più male oggi di ieri, sapere perché hai dolore, sapere come variare l'allenamento in base all'altitudine. Essere ciclista significa esplorare quell'indipendenza a cui le circostanze, talvolta, ti obbligano e vederne il lato buono, quello che ti fa andare avanti e ti cambia. Se diventa questo, essere ciclista è un atto estremo di libertà».

Come crescono le persone, anche se già adulte, così fanno i progetti. Ora c'è un periodo preciso per tentare il record, l'autunno, e anche il velodromo in cui si proverà si sta definendo. La prima opzione è in Argentina, la seconda in Norvegia, in un velodromo di nuova costruzione che vorrebbe iniziare la sua storia con il record dell'ora di Bussi, la terza in Svizzera, a Grenchen, ma, per quest'ultima, il costo è eccessivo, quindi è necessario pensare ad altro.

Nel bar, in città, in cui Vittoria ed Edoardo si sono collegati per questa intervista, inizia ad arrivare gente, le voci si mescolano e Bussi, guardando l'ora, progetta le prossime cose da fare, i prossimi problemi da risolvere in vista di quel giorno. Sì, in realtà, il record dell'ora inizia molto prima di quell'ora.

Foto: Edoardo Frezet


La gioia che garantisce il talento

Non sappiamo di chi sia stata l'idea di questa foto. Forse di Annemiek van Vleuten, probabilmente di Puck Pieterse, magari, semplicemente, di qualcuno che, vedendole vicine, in Piazza del Campo, ha pensato che in un'immagine così potessero essere racchiuse molte cose. Semplici quasi quanto il gesto dello Shaka che fa la mano di Pieterse: un gesto tipico della cultura hawaiana, che è un saluto, una forma di gratitudine, un modo di vivere il momento e trasmettere felicità, anche un poco rock, se vogliamo. Il loro modo di correre in bicicletta, alla fine, è tutto questo e avere la stessa visione (intesa non solo come ciò che si vede, ma come quello che si pensa) in fatto di bici e in ogni altro campo, permette di riconoscersi e di parlare un linguaggio comune, oltre ogni altra differenza.

Vogliamo dire che Van Vleuten e Pieterse, in quella Piazza, sarebbero state vicine anche se nessuno le avesse fotografate, anche se non si fossero fermate a parlare. Pieterse avrebbe potuto dire, e forse lo ha detto, a van Vleuten: "Sai che, quando scatto, non penso a nulla? Sento qualcosa dentro di me e vado" e van Vleuten avrebbe potuto rispondere solo che anche a lei accade lo stesso. Allora Annemiek avrebbe potuto raccontare, e forse ha raccontato, a Puck che, per andare forte in bicicletta, lei ha sempre spinto, a tutta, senza paura e Puck avrebbe potuto rispondere che per lei è proprio così. Forse Puck Pieterse, allora, avrebbe chiesto se, con il passare del tempo, non cambiano queste sensazioni. Sì, perché van Vleuten ha quarant'anni, Pieterse solo ventuno. La Campionessa del Mondo avrebbe forse risposto che il ciclismo la affascina ancora come a vent'anni e nella sua mente è lo stesso, raffinato dalle esperienze: il passare degli anni cambia solo il tempo che serve per allenarsi e per ottenere risultati, la fatica che si fa, ma lo spirito del ciclismo è sempre quello. Avrebbero potuto dire e forse hanno detto molte altre cose, compreso il fatto di essere entrambe olandesi, di essere entrambe dotate di un talento importante e di come si affronta la quotidianità con questo talento fuori dal comune. Forse van Vleuten è più abituata a questo, Pieterse si abituerà.

Poi c'è la cosa più importante di cui avrebbero potuto discutere: di come si fa ciò che si fa e del perché si decide di farlo. Pieterse ha saputo che avrebbe potuto correre sulle strade sterrate della Toscana solo pochi giorni prima della gara: ha accettato perché era un'opportunità da non lasciarsi scappare. Sarebbe stata contenta di arrivare nelle prime trenta, è arrivata sesta e ha corso con padronanza, con attenzione, incarnando l'istinto che la contraddistingue. Anche van Vleuten ha sempre posto particolare attenzione all'opportunità, al piacere di essere in corsa, anche quando non ha vinto: è tornata a lavorare, a potenziare, perché vuole vincere come d'abitudine, ma sabato, nel dopo gara, ha continuato a focalizzarsi sul piacere di aver corso e, ancor di più, sul piacere del gesto atletico di altri, quello di Puck Pieterse ad esempio.

In quella foto, in quel gesto dello Shaka, è racchiuso il racconto di come arrivano, il più delle volte, le cose belle, le più grandi vittorie, di come si fa qualcosa di grande. Certo attraverso l'impegno, la dedizione, la fatica, il sacrificio ma pure attraverso il piacere, la gioia, che è, poi, la molla affinché ci siano tutti gli altri comportamenti di cui abbiamo parlato. Per Pieterse era una prova su strada importante, perché era una gara importante e perché il talento si manifesta nel mettersi alla prova, si scopre, si disvela, trova nuove forme. Più di tutto era importante perché era una possibilità di divertirsi, di improvvisare sul tema, e di quel divertimento porta traccia ogni muscolo. Lei è legata al fango, alla terra del ciclocross, al pensiero di una medaglia olimpica in Mountain Bike: non sa se e quando ci sarà una continuazione su strada.

Nonostante spesso si dimentichi, il punto è proprio che non sempre c'è un motivo, un disegno nel proprio procedere, e il bello, tante volte, si fa solo perché piace. Per fortuna. Probabilmente è così che si vive un talento come quello di Pieterse e van Vleuten nella vita di tutti i giorni. Certamente è così che in quella Piazza sarebbero state vicine, anche lontane.


Tra le storie della SD-Worx: intervista a Elena Cecchini

«Ho abbracciato Demi, poi ho cercato Lotte tra la folla dell'arrivo. "Lotte, sei felice?" le ho chiesto e lei mi ha risposto sinceramente: "Sì, Elena, sono felice". Credo fosse importate quella domanda, di certo importante è stata la risposta». Elena Cecchini parte da Piazza del Campo, a Siena, alla Strade Bianche per raccontare la sua squadra, SD-Worx. Ancora meglio, parte da quello sprint a due, tra Vollering e Kopecky, vinto proprio da Vollering.

Ci spiega di Lotte Kopecky, della sua introversione e di tutte le volte che, l'anno scorso, la cercava con gli occhi al traguardo, dopo una volata: «Facevo fatica a vederla felice, soddisfatta, a meno che non vincesse e, dentro di me, pensavo che fosse il mio lavoro il problema, che non fosse abbastanza. Nel tempo, abbiamo parlato e ho capito che Lotte aveva esattamente il mio stesso timore: non riusciva ad essere pienamente serena perché temeva di aver deluso la squadra». Non è un inverno facile per la belga: la notizia dell'arrivo di Lorena Wiebes, indubbiamente, l'ha fatta pensare, le ha messo dubbi, quasi come si sentisse sostituita, «poi ha compreso di non essere una velocista pura e che Lorena poteva solo aggiungere qualcosa, non togliere. Ma è da comprendere, chiunque avrebbe reagito così». Una timidezza con cui non è facile convivere per Kopecky, soprattutto da quando la sua popolarità è esplosa dopo la vittoria del Fiandre. Quella sera, non è potuta rientrare a casa perché la sua abitazione era letteralmente assediata da fotografi e giornalisti e con questa fama deve fare i conti ogni giorno e la squadra allestisce conferenze stampa apposta per lei, per raccogliere lì tutte le domande.

«Mi spiace che l'impressione generale sia stata che io e Demi non fossimo soddisfatte di com'era andata la gara. Eravamo solo spaesate perché non ci eravamo parlate prima» ha confessato Kopecky a Cecchini, in pullman, in una riunione post gara. L'accordo era che Vollering avrebbe attaccato prima e Kopecky successivamente, ma che le due avrebbero collaborato fino alla fine. Danny Stam, uno fra i direttori sportivi di SD Worx, la sera prima era tornato a parlare con Vollering: «Ma se io sono davanti- aveva detto lei- non ha senso che Lotte attacchi, non ti pare?». La risposta era stata pronta: «Ha senso, perché sole non resterete comunque e, se non collaborate entrambe, la gara la vincono le altre». Ed, in effetti, chiosa Elena Cecchini, Faulkner è andata davvero vicino alla vittoria. Sta di fatto che, quell'impressione sbagliata avuta dalle persone, stava rovinando l'atmosfera. Cecchini è intervenuta per questo: «Non state male perché non vi siete parlate. Avete fatto qualcosa di straordinario, andate oltre».

Racconta Cecchini che l'anno in cui Demi Vollering è arrivata in SD-Worx, condividevano la camera e, da subito, lei l'aveva soprannominata "la Principessa": «Sì, perché era molto giovane e l'aiutavamo molto, anche nelle cose più semplici. Anche nel portare i vestiti in lavanderia. Ricordo che detestava quel soprannome. Il nostro rapporto è cresciuto anche così e con questo è cresciuta anche Demi». Una ragazza semplice, genuina, molto emotiva che piange per le vittorie e nel tempo libero fa yoga, meditazione oppure va nella natura, sta in montagna e fa lunghe passeggiate. «Il primo anno, con Anna van der Breggen come capitana, per lei è stato il più semplice, dopo ha dovuto prendere la squadra sulle spalle e assumersi molte più responsabilità. Per molti è diventata "la rivale" di van Vleuten e, ogni tanto, me lo dice: "C'è chi sta aspettando che Annemiek lasci, perché non avere più una rivale come lei cambierà molto. Io voglio che resti, voglio che sia forte e batterla mentre è forte». Demi può farlo, ne sono certa". Elena Cecchini fa una pausa, noi stiamo per formulare un'altra domanda, ma lei riparte, per una precisazione.
«Capisci perché non c'è stata decisione dall'ammiraglia? Se un direttore sportivo avesse indicato un nome piuttosto che un altro, il timore era quello di rompere un equilibrio di fronte a due campionesse di questo tipo perché l'una o l'altra avrebbe potuto avvertire come ingiusta la decisione per il lavoro fatto. Ti assicuro che basta davvero poco, quando ci sono situazioni di forte pressione, per creare una frattura». Cecchini racconta di quanto creda nel valore del dialogo e di quanto parli sempre molto con le compagne di squadra: «Quello che facciamo, e quindi il risultato che otteniamo, è strettamente connesso al modo in cui ci sentiamo, a quello che pensiamo di noi stessi o alla considerazione che gli altri hanno di noi».
In questo, la presenza di Anna van der Breggen in ammiraglia è un punto fondamentale perché anche la campionessa olandese sta continuando a crescere in ammiraglia. Spiega Elena Cecchini che l'anno scorso, quando si trattava di fare rimproveri o osservazioni, van der Breggen era più restia, si sentiva ancora molto ciclista, molto compagna di squadra, quest'anno ha preso sicurezza in ogni cosa, anche nella guida dell'ammiraglia: «Difficilmente sarà Anna a venire a dirti qualcosa, ma perché fa parte del suo carattere: parla poco e al momento giusto. Se, però, chiedi un consiglio, puoi essere certo che il suo punto di vista non mancherà e sarà dritto al punto, schietto». Come prima della Strade Bianche, quando van der Breggen ha parlato alla squadra.

Ronde van Vlaanderen 2022 Women - Tour des Flandres - 19th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 158,6 km - 03/04/2022 - Elena Cecchini (ITA - Team SD Worx) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

«Arrivate agli ultimi quindici chilometri, vi sentirete sfinite, penserete di non farcela più, in quel momento, dovete pensare che anche le vostre rivali stanno così. Resistete, perché è l'unica cosa da fare e perché anche le altre stanno resistendo». Poche parole e un'attenzione costante: lasciare sempre fuori la campionessa che è stata e rapportarsi con un ruolo nuovo. «Ho sempre avuto la sensazione che dietro la sua tranquillità, ci fosse la visione chiara che il ciclismo fosse una parte importante della sua vita, non il tutto. Oggi il suo ciclismo ha ancora un'altra forma, una forma che sta conoscendo giorno dopo giorno».
Si arriva così a Lorena Wiebes, l'altra punta di diamante del team: Cecchini la definisce semplicemente "uno spasso". Wiebes praticava ginnastica artistica prima di arrivare al ciclismo e la sua conformazione fisica lo racconta. Anche qui la parola d'ordine è "genuinità": «Fuori dalle gare, la trovi a guardare serie televisive, film, ha sempre un modo molto naturale di porsi, ma, in quanto allo sprint, è molto competitiva e può insegnare tutto». In SD-Worx l'apporto di Wiebes ha riguardato soprattutto il lead out, il lancio delle volate, qualcosa in cui Cecchini ammette che la squadra doveva perfezionarsi.
Lorena Wiebes parte dalla linea d'arrivo e torna indietro, fino all'ultimo chilometro, per descrivere il lead out: «Se ai 150 metri devo essere a questa velocità, in un determinato tratto, vorrà dire che ai 400 metri la velocità e la posizione dovranno essere queste». E così via: con sicurezza e fiducia nella ruota che la precede, ma anche con l'idea di mettersi alla prova, di "cavarsela" se la squadra non può fornire interamente il proprio contributo.
In tutto questo, c'è Elena Cecchini, gregaria, a disposizione. «Mi è successo di chiedermi se riuscissi effettivamente a soddisfare tutte le aspettative della squadra. Ci sono momenti in cui puoi mettere tutta te stessa, ma le gambe non girano come vorresti, cosa puoi fare? Dirti che più di così non potevi proprio dare, che meglio di così non potevi prepararti. Bisogna dirselo spesso e, magari, invece di chiedersi se si è pronti, dirsi: "Sì, con quello che ho fatto, sono pronta per forza. Vada come vada”».


Le Strade di Valter e Benoot

La Jumbo Visma fa notizia quando vince, la Jumbo Visma fa notizia quando non vince, figuriamoci alla Strade Bianche dove Attila Valter e Tiesj Benoot sono finiti nel mirino di critica e pubblico per alcune scene viste nel finale di gara e che hanno messo pepe alla discussione: esistesse ancora il “Processo alla Tappa” sarebbe stato uno dei punti principali su cui dibattere.

C’è stato un momento in cui il giovane ungherese Valter - stava benissimo, da Dio verrebbe da dire - rientrava sul primo gruppetto inseguitore di Pidcock, e fin qui non ci sarebbe nulla di male, non fosse che in quel gruppetto era presente Benoot che accoglieva il rientro del suo compagno di squadra, ben riconoscibile dalla maglia tricolore di campione nazionale, con un plateale gesto di disappunto.

La colpa di Valter sarebbe stata quella di fare da ponte tra il gruppetto Benoot e gli inseguitori che alla spicciolata faticavano su un tratto di sterrato in salita. E mica era finita qui!

La situazione pareva sfuggire di mano: a un certo punto i due sembravano aver interrotto il fresco idillio - per la prima volta si trovavano a correre assieme, nella stessa squadra e con la possibilità entrambi di cogliere il bersaglio grosso. Valter era dato da tutti alla vigilia come uno dei più accreditati outsider alla vittoria finale, Benoot, primo alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne della domenica precedente, è uno che ha pur sempre conquistato una Strade Bianche qualche stagione fa.

Andando avanti con i chilometri, sembrava che nessuno dei due volesse sacrificarsi per l'altro nel tentativo di ricucire su Pidcock; iniziavano a scattarsi in faccia, o almeno questa l'impressione da fuori, giusta o sbagliata che sia, ma di certo pareva vederli andare poco d’amore, ancora meno d’accordo, e chi era al traguardo da subito ha notato i due discutere animatamente finita la gara.

Il giorno dopo, intervenuto in una trasmissione di Eurosport Ungheria, Valter ha spiegato il suo punto di vista. «Non ho mai tirato nel gruppetto dietro, sarebbe stata una mossa da ciclista dilettante. E si vedeva chiaramente in televisione! Gli altri non ne avevano e io sono rientrato da solo su Benoot». Spiega Valter, di non aver fatto caso al gesto di Benoot che «chiaramente ha frainteso la situazione. Non sono quel tipo di persona, noi non siamo quel tipo di squadra. È vero: si possono commettere degli errori, io posso sbagliare, ma in questo caso si sarebbe trattato di uno sgarbo da egoista, non di uno sbaglio». Niente malafede, quindi, nell'azione di Valter anzi sorpresa da parte sua per il fraintendimento di Benoot.

E sull’immagine dopo il traguardo Valter chiarisce: «Gli ho chiesto scusa per alcuni errori commessi in gara e lui mi ha detto che non c’era nessun problema che da un certo punto di vista è andata meglio così». Benoot veste i panni del filosofo come riporta Valter: «Se uno di noi due avesse vinto, mi ha detto Benoot, ora non avremmo degli sbagli da cui imparare».

Alla fine hanno terminato la gara 3° Benoot e 5° Valter, per molte squadre del World Tour il bicchiere sarebbe stato mezzo pieno, ma non per la Jumbo Visma, da qualche anno a questa parte costruita per vincere, per dominare.  «E nemmeno per tutti i tifosi - aggiunge ancora il corridore ungherese che quest'anno punterà alle Ardenne e non disputerà alcun Grande Giro - come succede con Wout van Aert.  Messo sempre in discussione e a volte persino preso in giro per i suoi piazzamenti, i suoi secondi posti, ma è uno dei corridori più forti del mondo e con un palmarès importante». È proprio vero che la Jumbo Visma, vittorie o sconfitte, fa sempre notizia.


Per Faulkner è ancora tutto possibile

C'è un momento, sulle pendenze arcigne di via Santa Caterina, alla "Strade Bianche", dopo oltre trenta chilometri di fuga solitaria, in cui per Kristen Faulkner è ancora tutto possibile. Lo sguardo è fisso in avanti, per immaginare Piazza del Campo, e per terra, per restare focalizzata su ogni metro, senza lasciarsi distrarre troppo da quel pensiero, non si volta quasi mai, anche se sente che, dietro di lei, la situazione è esplosa. Prima lo scatto di Demi Vollering, poi quello di Lotte Kopecky: il duo della SD-Worx va via troppo veloce, si avvicina sempre più e, se rientra sulla testa della corsa, su Faulkner, è evidente a tutti che non ci sarà molto da fare per l'americana.

L'ultimo momento in cui tutto può accadere è proprio quello in cui Kopecky e Vollering la braccano da vicino e Faulkner, pur davanti, percepisce che ne hanno di più, che possono superarla in qualunque momento e far scoppiare la bolla di un desiderio che è sospesa nell'aria da minuti e minuti. Sente le loro ruote che macinano strada e mangiano metri, secondi. Non ci si può voltare, il Campo è sempre più vicino. Le serve una forza di volontà incredibile per non girare la testa e non pensare di dare respiro alla fatica, anche quando è certa che, ormai, non ci sia più nulla da fare per la vittoria.

Succederà l'inevitabile, mentre l'acido lattico le morde i muscoli. Eppure Faulkner, terza al traguardo, continuerà con lo stesso sguardo, come se quel desiderio fosse intatto. Ed, in un certo senso, è intatto. Sì, i desideri spazzati via sono desideri da riprendere per mano per accompagnarli "alla prossima volta". Parlare di Faulkner, oggi, significa parlare di questa cosa qui: delle volte in cui abbiamo la forza di continuare a credere alla nostra pedalata, l'unica possibile, mentre gli altri ci passano in tromba e se ne vanno.

Foto: Sprint Cycling Agency