Baffi, record, sterrati, ovvero Ashton Lambie
Dietro i baffoni a manubrio che gli danno un tono stile inizio '900, si nasconde la storia di uno dei più incredibili personaggi del ciclismo mondiale: Ashton Lambie. Prima di iniziare a sfidare Filippo Ganna su pista, correva nella scena gravel – e in realtà lo fa ancora.
«Il momento più duro della mia vita?» racconta in un'intervista a Bicycling.com «la Dirty Kanza del 2016». Solo, con il deragliatore rotto, distrutto dal caldo, arrivò a un passo dal ritiro. Concluse la corsa al sesto posto dopo aver telefonato alla moglie che lo convinse a non mollare.
Insieme alla moglie, insegnante di musica, vive in una fattoria nell'Arkansas; ha un dottorato in musica, suona il pianoforte e la fisarmonica, mette mano ai motori di auto e camion, ha una piccola segheria dove crea mobili e oggetti di ogni genere. A casa sua girano per le stanze due conigli d'angora: si chiamano Jacques e Marie.
Gravel, velodromi ma anche grass track. «La prima volta che ha visto una pista d'erba, ha preso in prestito una bici e ha stracciato tutti», raccontano, come fosse una leggenda, una storia di quel Tolkien che lui ama alla follia, tanto da ascoltare continuamente l'audiolibro del Signore degli Anelli nei suoi interminabili viaggi in bici.
Nel 2019 si è spezzato il suo sogno olimpico. Inizialmente non sapeva nemmeno cosa fosse il sogno olimpico. Ma gara dopo gara cresceva l'affiatamento e la voglia di trascinare il Team Usa dell'inseguimento verso Tokyo. Perso l'ultimo posto disponibile, superati dal quartetto svizzero, il giorno dopo quella gara di coppa del mondo in Scozia, Lambie prese la bici e organizzò un giro da Glasgow a Edimburgo.
Ma non è solo estro o racconto a metà tra realtà e finzione, Lambie è anche forza: un giorno in una gara a eliminazione su pista scattò al primo giro e doppiò tutti. Ha sfidato, perdendo, Filippo Ganna; ha fatto segnare il record del mondo dell'inseguimento, venendo poi superato nuovamente dall'italiano. La voglia di inseguirsi e acchiapparsi si evolve anche a distanza. Ha lanciato un programma di bike sharing, chiamato Bronco Bikes, e nel 2015 ha percorso, in Kansas, 400 miglia in 23 ore e 53 minuti.
Pochi giorni fa sui social ha svelato la sua nuova sfida: «Il 6 maggio 1954, Roger Bannister ha corso il miglio in meno di 4 minuti. Un'impresa che molti pensavano impossibile per decenni prima del suo tentativo. Ha resettato l'asticella nel mondo della corsa a piedi. Il 18 agosto 2021 cercherò di rompere la stessa barriera nel ciclismo su pista percorrendo 4 chilometri in meno di 4 minuti. Negli ultimi anni abbiamo costantemente abbassato il record mondiale di inseguimento, rendendo la barriera dei 4 minuti non un sogno, ma un fatto inevitabile». Un sognatore concreto si nasconde dietro quei baffi e gli intensi occhi azzurri. Lambie, carismatico pedalatore d'eccellenza a caccia di imprese.
Fragili titani
29 Luglio 2021CorseTokyo 2020,Roglič
Nella notte in cui, in Italia, arrivano le parole di Simone Biles, ginnasta ritiratasi dalla gara a squadre dopo un volteggio sbagliato per «demoni che tormentano la mente e fanno smettere di amare il proprio lavoro», a Tokyo è il giorno dei titani dalle spalle larghe e dalle posizioni plastiche che sfidano il tempo. Giganti che sopportano il fardello del vento che divora: per qualche istante sembrano illusionisti in un'altra dimensione.
Illusione, appunto. Roglič non dimentica che, circa un anno fa, ha perso un Tour de France all'ultima giornata, il mondo gli è crollato addosso e lì anche le spalle da titano hanno ceduto, sbriciolate. Ricorda una sera a Pontivy e l'amarezza di una domenica mattina in cui ha detto basta. Qualche giorno dopo era su una sedia, fuori da un camper, con una birra in mano. Perché il coraggio di fermarsi si misura nella serenità con cui sai che ripartirai e che c'è qualcosa che conta di più. Roglič ora ha una medaglia d'oro al collo al termine di una prova mostruosa, e a chi gli dirà che è nell'Olimpo dei migliori potrà raccontare che anche i titani un giorno si sono fermati.
Annemiek van Vleuten ha la stessa medaglia al collo. Lei che ha vinto l'impossibile ma non ha mai voluto essere un'eroina. Quando, l'anno scorso, si è presentata al mondiale di Imola con un tutore dopo la frattura al polso al Giro Rosa, ha parlato chiaro. «Correre così è una merda. Non sono un esempio per nessuno. Non tutte le fratture al polso sono uguali e non per tutte sarebbe possibile. I medici mi hanno detto che non rischio perché il mio polso è più forte di prima. Per questo sono partita». Inutile aggiungere altro.
Tom Dumoulin, solo poco tempo fa, ha avuto la stessa forza di Simone Biles perché la pressione era troppa e lui, che ha vinto molto sin da giovane, solo un uomo. Dal ciclismo è tornato a bordo strada e poi, con i propri tempi, degli uomini non dei titani, è tornato in sella. Oggi è argento a Tokyo. Rohan Dennis qualche tempo fa disse che, per quanto sia bello vincere, fra quarant'anni non penserà alle vittorie come a una delle dieci cose migliori della propria vita. Crediamo lo direbbe anche oggi, forse anche a Simone Biles.
Vale per Wout van Aert che, da favorito, ha dovuto accontentarsi di un piazzamento. Chi era più titano di lui che al Tour aveva spianato il Ventoux, dominato il tempo per poi ubriacarsi di velocità come un proiettile lanciato? Eppure. Come per Filippo Ganna che fra pochi giorni è atteso dalla pista e a quella deve pensare. Vale per Simone Biles a cui oggi pensano tutti, mentre è chiamata a «scrollarsi dalle spalle il peso del mondo». Perché, sì, gli sportivi e i ciclisti sono titani, ma fragili.
Come osate toglierci l'utopia
27 Luglio 2021ProgettiClima Tour
Un giorno, Gianfranco Mascia, giornalista e scrittore, ha chiesto ad alcuni ragazzi cosa significasse secondo loro il titolo del suo libro, quel “Come osate” pronunciato da Greta Thunberg. Qualcuno ha detto: «Vuol dire: Come osate toglierci l'utopia? Come osate non provarci nemmeno e dirci che il mondo che immaginiamo non è possibile?». In quel momento Mascia ha avuto la consapevolezza di aver fatto bene ad allenarsi un mese e poi partire in bicicletta per il Clima Tour: ventitré città e quindici giorni in giro per l'Italia a incontrare persone, per parlare di quel libro, di clima, di ecologia e di futuro. «Servono le piazze, serve l'incontro e lo scambio di idee per conoscersi e capire. La bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, è un mezzo di comunicazione».
Gianfranco ha conosciuto quel giardiniere di ottant'anni, figlio di un innestatore, che vent'anni fa ha deciso di smettere di irrorare pesticidi alle piante e si è convertito al biologico «perché parte di un ecosistema che non lo avrebbe più sopportato».
Ha visto mariti che aspettavano mogli e fidanzate che aspettavano fidanzati affaticati in salita e sulla sua bicicletta a pedalata assistita ha fatto posto a nuove consapevolezze. «Sono cresciuto in Romagna, ma da tempo non percorrevo più la riva di un fiume, non guardavo più la natura con quello sguardo. Quando mi chiedono perché è necessario cambiare direzione, racconto anche questo e poi chiedo: perché no? Che c'è di male?» Perché Mascia può spiegarlo bene. «Se andiamo verso l'ecologia non perdiamo nulla. Nessuno ci perde, tutti guadagniamo qualcosa. Stiamo meglio e sta meglio il pianeta. È così illogico non provare. Avevano ragione quei ragazzi».
Non ci si prova perché manca un'intelligenza collettiva che agisca di conseguenza e ognuno va per la sua via. Così non si prova nemmeno a immedesimarsi nelle scelte degli altri. «I camionisti che mi sfioravano lungo il percorso non pensavano minimamente a come potessi sentirmi, protetti da quel gigantesco involucro che rende forti. Un esempio fra i tanti. Questo vale anche per il clima e per lo scontro generazionale che il dibattito scatena. I giovani che si battono per l'ambiente lo fanno perché hanno ascoltato gli scienziati, perché sanno che è necessario. Fra sei anni e mezzo non finirà il mondo, ma, se il surriscaldamento globale si alzerà più di un grado e mezzo, ci sarà un punto di non ritorno e bisognerà limitarsi ad azioni di mitigazione. I ragazzi ci rimproverano di non avere ascoltato prima la scienza. I risultati si vedono tutti i giorni: i disastri e gli allagamenti ne sono una triste testimonianza».
Mascia lo dice forte e chiaro: «Siamo solo fortunati a non essere noi i diretti interessati di questi fatti, un giorno, però, potrebbe capitarci. Poteva capitare a me, mentre pedalavo per qualche città». A Gianfranco Mascia piace raccontare il linguaggio della bicicletta: «Quel linguaggio fatto di conoscenze spontanee, fra persone che non si conoscono, non si sono mai viste e forse non si rivedranno più, ma si fermano per strada a parlare come fossero amici di infanzia. Tutto è nel modo in cui leggiamo la realtà. Non ci si priva della macchina, si ha in regalo la bicicletta con tutte le sue infinite possibilità».
Il fascino di Tom Pidcock in un giardino giapponese
26 Luglio 2021CorseTom Pidcock,van der Poel,mountain bike
Un percorso così bello e curato nei minimi dettagli, un giardino giapponese. Elementi rifiniti da sembrare uno di quei diorama che ti appioppavano in qualche progetto complicato a scuola. Dicevi di averlo fatto tu, ma invece era tutta opera di tuo padre ingegnere e tua madre artista - benedetti genitori.
Un vincitore così giovane e ricco di fascino da sembrare uno di quegli attori brutti ma tremendamente carismatici, tipo Jeff Goldblum o Willem Dafoe.
Uno sconfitto di giornata oggi, parafrasando Philipp K. Dick, "più umano dell'umano", che ieri nessuno osava dirlo, mentre oggi in coro "non si improvvisa la mountain bike". Un errore, un peccato che lo rende così tremendamente tenero che lo vorresti strapazzare e dirgli con dolcezza, "Mathieu: sarà per la prossima volta". Si farà serio e incazzoso dopo oggi e di sicuro, forte com'è, ci riproverà fra tre anni a Parigi.
Un vincitore perfetto nella gestione, ormai superstar in miniatura, giapponese nel gestire e sfidare i trabocchetti del tracciato, iperviolento nel suo strapotere quando accelerava nei tratti in salita. Irresistibile e versatile come quegli attori brutti di cui sopra, in scala ridotta e forse per questo così a suo agio in quell'ambientazione creata ad hoc per esaltare le doti degli specialisti delle ruote grasse.
A tratti iconoclasta in un mondo rigido, con quell'orecchino sul lobo sinistro, lui che sulla bici sembra un bambino che sfugge agli ordini di casa: semplicemente affascinante Tom Pidcock.
E infine due parole per il terzo arrivato, lo spagnolo David Valero Serrano che finisce così forte che se invece di 9 giri ce ne fossero stati che ne so, altri 9, avrebbe forse vinto per dispersione. Se Pidcock è il fascino, lui, nei giorni di Olimpia, è stato un maratoneta.
Per la storia
25 Luglio 2021Corsevan der Poel,Pidcock,mountain bike
Domani alle ore 8 ci sarà da divertirsi. Domani alle 8, mentre noi, comuni mortali, saremo schierati davanti a cappuccino e brioche, oppure avremo appena varcato la soglia dell'ufficio, o staremo facendo zapping con le occhiaia per la sbornia olimpica. Insomma, domani alle ore 8, segnatevelo: Mathieu van der Poel, che a differenza nostra di comune non ha nulla, proverà a fare ancora una volta la storia delle due ruote.
Mountain bike, XCO, inseguendo l'oro olimpico, nell'anno in cui ha conquistato la sua quarta maglia iridata (tra gli élite), la sesta in totale nel ciclocross. Eventualmente: nessuno come lui. E per alzare l'asticella c'ha messo vicino una bella maglia gialla qualche settimana fa al Tour, sia mai che in futuro, magari un figlio o un nipote viene fuori ancora più forte e lo possa superare. Intanto mettiamo giù più record possibili - avrà pensato.
Non sarà facile per uno che di comune non ha niente se non due gambe (ma che gambe), due occhi, due braccia (e pure lì...), dorsali corazzati, polmoni che potrebbe soffiare via tutti i problemi della terra se solo volesse.
Beh, insomma, a parte le esagerazioni: domani ore 8, ricordatevi che si fa la storia delle due ruote, segnatevi l'orario da qualche parte che poi venite a dire che nessuno vi aveva avvertito.
Certo: facile non sarà come averlo scritto o pensato. Schurter, campione in carica, tre medaglie olimpiche, otto titoli iridati, forse il più grande di sempre di questa disciplina, avrebbe qualcosa da ridire e sul circuito (molto tecnico, su e giù senza respiro), lo farà.
Idem Sarrou, che pochi giorni fa si è fatto male proprio allenandosi nel circuito di Izu, ma è il campione mondiale in carica, e poi Avancini, Flückiger, Koretzky. E poi Tom Pidcock, un altro che sfugge la normalità come fosse un problema che non lo riguarda. Un altro che, anche solo finendo sul podio, potrebbe fare la storia di questo sport.
Gli avversari sono grandi e van der Poel vorrà dimostrare di essere ancora più grande. Sì, domani alle ore 8 ci sarà da divertirsi.
La disobbedienza di Anna Kiesenhofer
25 Luglio 2021CorseTokyo 2020,Longo Borghini,Kiesenhofer
Quando Anna Kiesenhofer è partita insieme ad un'altra manciata di atlete subito dopo il via, nessuno le avrebbe dato una possibilità. Forse in quel momento era anche giusto, perché la storia della fuga impossibile è copione tanto seducente quanto conosciuto e in parte scontato.
Quando Anna Kiesenhofer è partita insieme ad Anna Plichta e Omer Shapira e poi da sola, sapeva che fuggire nel ciclismo ha un significato diverso da quello che ha in ogni altra circostanza di vita. Chi fugge ha coraggio, forse anche incoscienza. Lo sapeva da quel giorno del 2016 sul Mont Ventoux, quando vinse mentre tutti dicevano che l'avrebbero ripresa. Lei che praticava duathlon e triathlon e nel ciclismo non sarebbe mai arrivata, non fosse stato per un infortunio.
Quando, poi, è andata via da sola, tutti abbiamo iniziato a pensare che forse aveva fatto bene a dedicarsi al ciclismo, in parte a discapito della matematica e della fisica. Lei ci ha pensato prima. Lo testimonia quel pianto a singhiozzi a terra, dopo il traguardo, quel pianto senza fiato perché di fiato Anna non ne aveva davvero più quando è diventata campionessa olimpica.
Qualche giorno fa ha ringraziato tutti coloro che hanno sempre creduto in lei, ma soprattutto coloro che in lei non hanno mai creduto «perché- ha detto Kiesenhofer, che nel nome riecheggia una sciatrice più che una ciclista- se sono arrivata a Tokyo è anche per dimostrare a costoro che si sbagliavano».
Dietro Annemiek van Vleuten è argento e Elisa Longo Borghini bronzo. L'olandese che da quella caduta di Rio ha imparato la relatività del ciclismo, concetto di fisica, forse non a caso, e l'italiana che nel finale ha fatto quello per cui corre, sorprendere, stupire, non lasciare spazio allo scontato. Si fossero mosse prima cosa sarebbe successo? Chissà cosa sarebbe accaduto se il gruppo avesse capito prima che la troppa sicurezza di se stessi è il più grosso rischio.
Invece c'è la storia di Kiesenhofer che è tempo, numeri e relatività. Che è matematica e fisica, quella dei distacchi e della bicicletta, ma anche istinto e irrazionalità. Che somiglia a quella che vi abbiamo raccontato della prima donna che scalò il Monte Fuji senza permesso e ci riuscì. Anna Kiesenhofer ha disobbedito a ogni sorta di pregiudizio o legge non scritta e ha dimostrato di aver ragione, come sanno fare tutti coloro che devono lottare per ciò che vogliono, come sa fare una ciclista in fuga, come spesso deve fare una donna.
L'istinto di un'azzurra a Tokyo
24 Luglio 2021CorseLongo Borghini
Giorgia Bronzini, direttore sportivo della Trek-Segafredo, è certa che, per spuntarla domani, la carta vincente sia anticipare i tempi: «Non so cosa hanno preparato le azzurre, ma se fossi in ammiraglia inizierei a muovere le pedine in anticipo, in modo da essere nel centro della corsa quando la situazione esploderà». Il tracciato della prova olimpica femminile in linea è ingannevole. I 137 chilometri previsti hanno più il sapore di una classica, magari delle Ardenne, e l'altimetria non rende giustizia alla reale durezza del percorso. «Parliamo di 2700 metri di dislivello. All'inizio c'è una valle, logorante, e alla fine arrivano gli strappi, ripidi». Bisogna aver studiato bene il tracciato per evitare di sottovalutarne alcune parti che possono apparire più semplici. Le ascese saranno Doushi Road e Kagosaka Pass, nel mezzo il tracciato fiancheggia il lago di Yamanaka, poi la lunga discesa verso il Fuji International Speedway.
L'ostacolo principale dovrebbe essere il caldo che in questa parte del Giappone somiglia a colla che imprigiona. «Alcune atlete vengono da zone in cui queste temperature non si raggiungono quasi mai, altre semplicemente soffrono il caldo». Importanti saranno i punti di ristoro perché l'acqua non va solo bevuta ma gettarsela addosso è un consiglio prezioso in queste circostanze. «Considerando più o meno quattro ore di gara, penso che con queste temperature si berranno circa tre borracce all'ora. Più di dieci borracce svuotate entro fine gara con differenze fisiologiche personali». Idratarsi bene anche nei giorni precedenti, sottolinea Bronzini, non è meno importante. La possibilità di pioggia, invece, sarà un elemento cruciale soprattutto in vista della discesa sul finale.
Senza dubbio, anche per Bronzini, le favorite sono le olandesi, Van der Breggen in primis. «Delle quattro atlete schierate al via, Vos, Vollering, van Vleuten e van der Breggen, tutte possono ambire a vincere il titolo. Alcune anche stravincere. Noi siamo subito a ruota e dobbiamo essere la loro ombra». Altri nomi da tenere d'occhio li aggiungiamo noi: Niewiadoma, la polacca sempre sugli scudi, Brown e Cromwell, coppia palpitante in casa australiana, Rivera, che proprio al Fiandre 2017 incorniciò una prestazione superlativa e Cecilie Uttrup Ludwig, che quest'anno ha vinto la prima gara World Tour, affiancata dalla pericolosa Emma Norsgaard che, se resisterà alle ascese, sarà un cagnaccio di cui diffidare.
In casa Italia, Bronzini ha parlato in questi giorni con Elisa Longo Borghini. «Le ho detto che è una gara come tutte le altre e così deve gestirla. Le atlete avvertono da sole la pressione degli appuntamenti importanti, non serve qualcuno che la rimarchi. Spero che corra d'istinto, seguendo la regola d'oro. Se fai qualcosa e sbagli, puoi rimediare all'errore. Se non fai nulla, al rimorso non c'è rimedio».
Cerchi nel carchi
24 Luglio 2021CorseGiochi Olimpici,Tokyo 2020,Carapaz
Se c'è una cosa che riesce bene a Richard Carapaz è cogliere l'attimo. Se lo abbiamo definito tempo fa "il migliore al mondo per scelte tattiche e tempismo" oggi abbondiamo di sale: migliore dell'Olimpo.
Se ci dovessimo immaginare il Carchi, da dove arriva, in questo momento, forse non ci arriveremmo nemmeno vicino. Se ci dovessimo immaginare quando Carapaz tornerà a casa, allora ci aspettiamo una serie tv, un libro, un concept album, interamente dedicato al suo trionfo oggi, e alla sua celebrazione. Alla sua storia, alle sue origini, a quei visi solcati, la pelle di bronzo della gente di laggiù, dell'Ecuador, gente semplice e sguardi realistici che si tramutano in espressioni di sogni realizzati. Impensabili anche solo nel cercarli.
È vero: se c'è una corsa in cui il cuore è vicino alla maglia azzurra, più di ogni altra, quella è la gara dei Giochi e quando Bettiol si è staccato in preda ai crampi (di nuovo, ahinoi) abbiamo patito.
Ma se pensiamo a tre medaglie così: oro a Carapaz, argento a van Aert, bronzo a Pogačar, tre stupende medaglie addosso a tre corridori così, l'amarezza svanisce in un attimo.
Un attimo che ha trasformato una giornata olimpica in un'altra memorabile giornata di ciclismo 2021. Indimenticabile: per la resistenza di Bettiol finché ha potuto, il sogno accarezzato da McNulty, il talento esuberante e oggi persino sofferente di Pogačar, la forza straripante di van Aert e poi la magia. Quella di Carapaz. E da oggi se cercate i cerchi olimpici, date uno sguardo laggiù, nel Carchi, in Ecuador. Non ne resterete delusi, anzi. Potreste essere colti in pieno da una deflagrazione.
Sveglia presto, ricordi ed epiloghi azzurri
23 Luglio 2021StorieGiochi Olimpici,Tokyo 2020
Mentirei se dicessi di avere un ricordo nitido e preciso della prima edizione dei Giochi vista: Seul '88. Chiudo gli occhi e vedo Gelindo Bordin che taglia il traguardo con il fisico come in preda a degli spasmi di fatica, si china, con una faccia che sembra un santo, e bacia per terra. Era mattina prestissimo, era la maratona. Gelindo Bordin che poi, scherzo del (mio) destino da appassionato, è cugino di Marco Canola vincitore di una tappa al Giro nel 2014.
Mi faccio più serio se ripenso invece al ciclismo olimpico: Barcelona '92, ricordo vivissimo di quel 2 agosto e della vittoria di Fabio Casartelli, così come è impossibile dimenticare Richard, Ullrich, Bettini, Sanchez, Vinokurov, Van Avermaet: ogni vittoria ben caratterizzata dai percorsi, dall'atmosfera, e dal fascino della frittura globale e totale dei Giochi.
Fascino. Ecco forse la parola che racchiude le settimane olimpiche e che stanotte (o mattina dipende dall'orologio biologico di ognuno) ci spingerà alla sveglia presto per vedere la prova in linea. Fascino dei Giochi: dove contano le medaglie, persino un terzo posto verrebbe accolto con entusiasmo. Fascino di un percorso che sale verso il Monte Fuji, roba da cartolina, poi sale verso il Mikuni Pass, roba da spaccarti le gambe, e arriva in autodromo. Fascino nel vestire la maglia della propria nazionale. Di sapere di avere a casa gente che magari non sa nemmeno chi sei, ma per una volta fa il tifo anche per te.
Imprevedibilità è il tormentone. Una corsa impossibile da leggere: farà caldo, ma soprattutto umido, ma è prevista anche pioggia e forse vento. Il percorso è duro, e nel ciclismo del 2021 non è che premia gli scalatori, premia corridori completi, da grandi giri (Pogačar e Roglič nomi ricorrenti), oppure quel fuoriclasse che è van Aert, che è un po' tutto. Ho provato a mettere assieme qualche nome e ne verrebbero fuori una trentina: sloveni, belgi, olandesi, francesi, spagnoli, canadesi, svizzeri, danesi, tedeschi, polacchi, sudamericani. Scegliete voi chi vi aggrada di più.
E mentiremmo tutti se dicessimo di non essere emozionati al pensiero della gara di domani. Sveglia puntata alle 4, e via. Colazione olimpica. Una volta ogni tanto si può, si deve, come quella volta a Seul, magari con un epilogo (azzurro) stile Barcelona o Atene.
Da Bormio all'Alta Badia: ecco "la pedalata tosta"
22 Luglio 2021ProgettiBormio,Stelvioman,Alta Badia
Collegare, esaltare, promuovere e farlo in bici. Unire Bormio e Alta Badia; la Valtellina alle valli ladine, la Lombardia al Südtirol. Duecentotrenta chilometri e cinquemila metri di dislivello: ecco ‘La ‘Pedalata Tosta’. Un’idea, o forse una pazzia, di Daniele Schena - per tutti Stelvioman - e di Klaus Irsara. Un lungo viaggio che ha lo scopo di unire due eccellenze alpine.
Un viaggio interminabile attraverso passi mitici, valichi transregionali, cime maestose, vette ancora innevate.
Un itinerario a pedali fra inverno ed estate, fra una molteplicità di colori e profumi, di temperature che cambiano in continuazione, di sali e scendi a ripetizione. Di sudore e fatica, certo, ma soprattutto di entusiasmo. A esaltare l’esplorazione, uno dei valori che insegna il ciclismo.
Da Bormio la strada sale per Santa Caterina Valfurva dove parte il Passo Gavia, la Cima Coppi dell’itinerario.
Il bosco, gli alpeggi, il lago. La strada che sale prima severa e poi dolce, un regalo per farti osservare tutti quello che hai davanti agli occhi. Si scollina a 2.650 metri e poi ecco la picchiata verso la Val Camonica. Prima di Ponte di Legno ancora con il naso all’insù. Ecco i 1.900 metri del Passo del Tonale che separa la Lombardia dal Trentino. Discesa e poi pianura in Val di Sole fino al bivio per il Passo Mendola.
La salita vera parte da Fondo, poi dopo alcune rampe la strada spiana e si affronta il Mendelpass a 1.370 metri: siamo in Alto Adige. Ad ogni valico la sosta per un veloce ristoro, qua invece un’ora per ricaricare le forze fisiche e mentali dal momento che siamo a metà della ‘Pedalata Tosta’.
A settembre (dal 18 al 24 in bikepacking con partenza da Badia) si svolgerà la ‘Pedalata Lieve’ dove ogni partecipante potrà effettuare le tappe che desidera, scegliere l'andatura gestendo il proprio viaggio.
Daniele e Klaus hanno proposto di raggiungere l’Hotel Melodia del Bosco di Badia-Abtei dall’Hotel Funivia di Bormio in una tappa unica. Tutta d’un fiato, tutta senza respiro, tutti a tutta. Ci vogliono gambe e testa, oltre ad un amore illimitato per la bicicletta che rende tutto magico anche se sei consumato da un chilometraggio e da un dislivello esigente.
Il viaggio prosegue alla volta della zona meridionale dell’Alto Adige. Da Caldaro risaliamo verso nord attraversando Bolzano sulla pista ciclabile per poi attaccare l’ascesa interminabile verso il Passo Gardena.
I primi chilometri in direzione Laion sono sotto il sole cocente: la stanchezza inizia a farsi sentire. Una lunga battaglia la nostra pedalata verso l’ultima fatica di giornata.
Scollineremo a 2.150 metri con una salita che perde quota e poi risale verso il passo, all’interno dell’anfiteatro dolomitico.
Dal Gardena sarà solo una picchiata verso l’Alta Badia: Colfosco, Corvara, La Villa fino a Badia. Le vette sono guglie, le cime campanili di cattedrali rocciose.
Le lingue di neve sono incastonate fra le gole nascoste. Resiste la neve, tiene botta, un pò come abbiamo fatto noi d’altronde. I prati, il tramonto, l’aria che inizia a frizzare. Siamo finiti. Ma sempre più vivi.
Foto: Weronika Szalas e Adam Kolarski
Riders:
Hanna Raymond, Claudia Rier, Omar Di Felice, Gabriele Pezzaglia, Daniele Schena, Klaus Irsara, Kristian Arnth
Assistenza:
Elisa Bonaccorsi, Sara Bruseghini
Info ‘Pedalata Lieve’ di settembre:
info@hotelfunivia.it
info@melodiadelbosco.