Tormento senza estasi

A una media di circa 37 km/h e in sella a una bicicletta, Bagno di Romagna è parecchio lontana da Siena. Se poi vai giù dopo quattro chilometri diventa un calvario.

Sono passati pochi minuti dal via, forse sei o sette, massimo otto, quando Marc Soler cade. Sbatte la schiena e si rialza, come fa un ciclista quando assaggia l'asfalto, e chi va in bicicletta sa di cosa parliamo. La telecamera si ferma a lungo su di lui, mesto, con un compagno di fianco, arriva l'auto del medico, persino l'ambulanza, si tocca la schiena, ha male dappertutto. Qualche gesto plateale che fa parte del personaggio.
Chi ha visto il documentario sulla Movistar uscito un paio di anni fa si è fatto un'idea di lui. Talentuoso quanto bizzoso, quando si accende in salita è tra i più forti, e il Tour de l'Avenir vinto non fu per caso.

Due anni fa, durante la Vuelta, mentre il gruppo saliva verso Andorra, Soler era davanti in fuga e assaporava il successo. L'ammiraglia lo richiamò: «Dietro Valverde e Quintana hanno bisogno di te», Soler si girò mandando tutti a quel paese, volarono insulti quel giorno e in quelli successivi. Soler è un tipo difficile da tenere a bada.

A questo Giro era tra i pretendenti a un buon risultato, tanto che l'altro ieri, tra uno sterrato e l'altro, aveva dato un'accelerazione in testa al gruppetto dei migliori, pagando poi nel finale di corsa.

Soler è sempre lo stesso, forte ma volubile, è quello che vinse al Romandia un paio di settimane fa esultando polemicamente col dito davanti alla bocca, lo stesso che ieri è caduto e si è rialzato nonostante il dolore. È cambiata solo la prospettiva in questo Giro dopo una rincorsa al gruppo che stava diventando un'agonia.

E ieri il suo tormento si è chiuso dopo 50 km di telecamera fissa sul suo malessere. Lascia il Giro, mancando l'ennesima occasione per dimostrare chi è.
Il ciclismo, tra le sue peculiarità, è uno sport che dà poco e toglie molto. Ripido in salita come in discesa: una bilancia della giustizia falsificata. Pensate a De Marchi: a un certo punto lo abbiamo visto riverso sull'asfalto. Chi ha mandato in onda le immagini è stato penoso ancora più che impietoso, lo diciamo senza morderci la lingua: era proprio necessario indugiare come l'occhio di un avvoltoio? Era proprio così utile farlo senza sapere nulla sulle sue condizioni?
De Marchi solo qualche giorno fa ha vestito il sogno di una vita per un corridore italiano: la maglia rosa. Ieri è stato trasportato in ospedale con botte e fratture, e quelle immagini non le avremmo mai volute vedere, noi, figuriamoci le persone più vicine a lui. Quelle immagini non sarebbero mai dovute andare in onda almeno fino a notizie rassicuranti avvenute.

Ieri è stata la tappa del calvario e dell'agonia: Bagno di Romagna è davvero lontana da Siena. Naesen cade mentre cerca di mettersi una mantellina; Goossens cade, batte il fianco destro e si ritira, Dowsett chiude il suo tormento poco dopo quello di De Marchi, sconfitto dai dolori allo stomaco. Masnada dà una risposta alle contro prestazioni dei giorni scorsi e abbandona per un problema al ginocchio. E poi ancora lo strazio di vedere Petilli, Ulissi e Tesfazion soffrire in discesa e staccarsi. E poi un altro ritiro, quello di Mäder. Pochi giorni fa vinceva la tappa il giorno dopo la caduta con ritiro del suo capitano Landa, prendendosi una rivincita su quel finale strappacuore della Parigi-Nizza. Per la sua squadra un tormento continuo. Bello il Giro d'Italia, è vero, formidabile sport il ciclismo. Ma quanto patire.

Foto: Luigi Sestili


L'ultimo Giro di Manuel Belletti

Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».

Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».

Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».

Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».


Se vince Andrea Vendrame

Se vince Andrea Vendrame, diciamolo francamente, siamo tutti più contenti. Perché vince un corridore un po' matto, ma matto in senso buono. Perché al Giro d'Italia siamo un po' di parte e ci eravamo stufati di vedere tutti quei secondi posti. Perché vince un corridore di quelli bravi davvero, ma che ha dovuto superare avversità di ogni genere.

Perché fino a pochi giorni fa era l'ultimo vincitore del Tro-Bro Léon, corsa che, come sapete, ci piace in modo particolare.
Perché oggi in fuga si è speso per Bouchard: aiutarlo a conquistare punti della maglia azzurra era una parte della sua missione. Ha sgranato il gruppo in discesa andando giù a "tomba aperta" come diceva il grande Mario Fossati. È sceso giù a tutta come quando vinse il Giro del Belvedere tra gli Under 23: a fine gara il cameraman della Rai gli disse: «Tu sei scemo. In discesa non ti seguirò mai più».

Perché un anno dopo quella vittoria un'auto l'ha preso in pieno durante un allenamento: cinquanta punti interni e sessanta esterni sulla parte destra del viso. Perché la cicatrice è rimasta e lui non la nasconde: da allora si fa chiamare "Joker". Fino a un po' di tempo fa il Joker ce l'aveva anche disegnato sul casco.
Perché l'ha inseguita, l'ha sfiorata e sembrava non arrivare mai. Perché, racconta, ridendo, che ha iniziato ad andare in bici su consiglio del portalettere che recapitava la posta tutti i giorni a casa sua. Perché uno che ha "The Wolf of Wall Street" come film preferito, non può non starci simpatico.

Perché è un po' matto, lo abbiamo detto, è vero, ma oggi è stato il più lucido tatticamente. Sull'ultima salita si è staccato sui primi attacchi, è rientrato, ha attaccato anticipando il tratto duro, avvantaggiandosi e venendo ripreso solo quando la salita spianava. È stato perfetto.
Ha tenuto, ha giostrato, ha rifiatato e poi nel finale ha allungato con Hamilton battendolo allo sprint.

Perché Vendrame oggi andava davvero forte in salita pur essendo uno particolarmente veloce: come un paio di anni fa quando arrivò secondo nella tappa di San Martino di Castrozza. Si arrivava in salita, ma Chaves, un altro tanto bravo quanto sfortunato, andò meglio di lui.

Perché oggi entrare in fuga è stato un gioco massacrante e lui ha giocato e ha vinto. Perché ha combattuto la legge che vorrebbe un corridore come lui restare nell'ombra nelle tappe così. Lui quella legge l'ha combattuta e l'ha vinta.

Diciamolo francamente e non ce ne voglia nessuno: quando vince uno come Andrea Vendrame siamo tutti più contenti.


Quel che si è visto a Montalcino

Vedo pochi spezzoni di corsa di questa Perugia-Montalcino attesa dal mondo da 11 anni, da quando arrivò Cadel Evans in maglia iridata a nobilitarla. Sono concentrato su un intervento che mi preme fare in diretta Rai; cose da dire su questo territorio, sul suo giacimento di strade bianche che non si sono salvate per caso. Apprendo che L'Équipe scrive di chissà quali strati di cemento sotto, come se da queste parti si fosse forzata la natura per fare delle piste ad uso ciclismo con polvere.

Ciò che intravedo tra una postazione e l'altra, gelataio compreso, mi basta. Conosco queste immagini, questi luoghi magici dai nomi fantastici. Passo del Lume Spento sembra scritto da Collodi, incrocio di Gatto, Volpe ed Assassini tutti insieme. Al mondo trasmettiamo l'idea di un reame di sogni, di colori, della natura trionfante in simbiosi con l'opera dell'uomo, per una volta persino capace di migliorarla. In più ho appena scorso, anche in foto, ciò che vidi domenica con l'Eroica Juniores, per gli ultimi 30 chilometri sullo stesso tracciato e per gli altri 80 su bellezze altrettanto degne: facce mirabili di ragazzi pieni di sorrisi e schizzi di fango, visi da affiggere fuori da ogni pub in cui molti pari età esagerano con gli spritz.

La corsa? Abituato alla sincerità devo dirla anche stavolta; certo che è la mia, ci mancherebbe, ma mi urge dentro, poco opportuna.

Un appuntamento del genere, in questa arena fatata, doveva essere onorato meglio. Lo stesso Egan Bernal, degna maglia rosa, aveva cerchiato la tappa, considerandola quella da vincere, quella di cui si sarebbe ricordato da vecchio. Come, appunto, Cadel Evans, che in settimana aveva definito quella Carrara-Montalcino 2010 lorda di fango come la sua vittoria più bella.

Si parla di uno che aveva in bacheca Tour e Mondiale mica del nostro Eros Poli e del suo Mont Ventoux, con tutto il rispetto una saetta su un palo. La Ineos, signora e padrona, ha lasciato quasi un quarto d'ora a una fuga numerosa, i tecnici iper preparati, scienziati con bilancini e computer, tabelle e teoremi, hanno fatto i conti che il più vicino in classifica stava a oltre mezzora. Di epica ed eroismo nemmeno parlarne, del mondo ciclistico tutto che avrebbe gradito l'impresa in diretta, del fatto che quella tappa Montalcino 2010 sia stata la più vista nei siti internet planetari importato una mazza. Gli altri una scusa l'avevano: Bernal viaggiava ad altro passo, visto a Campo Felice. Quindi si è messo in scena il copione delle frazioni di complemento, le tappette di contorno: libera uscita per reclute e caporali.

Occasione persa per consolidare la nuova posizione che questo ciclismo sta conquistando nel cuore della gente; Strade Bianche magistrali con van der Poel, Alaphilippe e tutti i più grandi davanti, stavolta uno sprint a due fra giovani dal sicuro avvenire. Ma non era traguardo da Schmid e Covi, l'avrebbe capito qualsiasi alle prime lezioni di marketing.

Fatto è che, forse, trattasi di un Giro d'Italia che paga un cast assortito con quanto il Tour lascia a disposizione, un po' poco. Sulla carta Bernal, terza punta nello scacchiere degli inglesi, è partito senza rivali veri, con Evenepoel fermo da 9 mesi, il buon Vlasov ancora tenero, un gemello Yates che non sai mai se è quello giusto e Vincenzo Nibali, già grande a prendere il via col fardello dell'infortunio e degli anni. Italiani? Tenui, bravo Damiano Caruso ma lui da anni fa il gregario di lusso; e i due migliori, Ganna e Moscon, sono a fare i Grenadiers, gli operai specializzati. È un Giro che quando perde Caleb Ewan, direzione Tour, si infuria persino Merckx; ed oggi se n'è andato a casa anche Tim Merlier, sprinter belga a segno nella seconda tappa.

Eppure a Montalcino si è visto tanto lo stesso, l'idea di un grande ciclismo di ritorno si è avuta ugualmente; Bernal ha attaccato, Evenepoel  ha pagato ma in modo tale da confermare che sarà un prossimo grande. Qualcuno si è perso, sono arrivati così alla spicciolata che un quartetto sembrava un plotone. E comunque sia queste contrade di grandi vini, bella gente e tante strade magnifiche senza asfalto hanno confermato che il ciclismo eroico parla in diretta con l'anima della sua gente. Presto lo capiranno anche certi scienziati; e magari cominceranno a divertirsi anche loro.

Foto: Luigi Sestili


Giancarlo Brocci e le strade polverose

«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».

Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L'Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell'uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».

Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».

Così Brocci è rammaricato per l'esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l'ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».

Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c'è la fatica e, dove c'è fatica, c'è la parte buona dell'uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c'erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c'erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».


Tramonto e Polvere

È successo talmente tanto tra le 15.14 e le 17.15 di oggi, su quelle strade grigie che poi diventavano bianche, che a un certo punto eravamo a metà tra il dire basta e chiederne ancora.

Schmid vinceva la sua prima corsa tra i professionisti a 21 anni, nel giorno meno indicato. Si fa presto a dimenticare: ahilùi l'attenzione era tutta a quello che succedeva poco dietro, a qualche chilometro di distanza, dove la strada cambiava effetto da asfalto a sterro come fosse un gioco perverso. Dove la classifica cambiava a ogni metro, a ogni curva, a ogni grida di tifoso, a ogni ombra riflessa da ulivi e cipressi a bordo strada.

A una certa non ne avevamo abbastanza. Avremmo chiesto persino di più a Bernal, Ganna e Moscon: padrone, dinamitardo e perfido manovratore di questo Giro.
Avremmo mai chiesto di più a Buchmann? Anticipava l'attacco della maglia rosa arrivando - più o meno - assieme a lui, e riaccendendosi in un Giro fin qui passato nell'ombra, passato soffrendo il gelo.

Avremmo voluto dire "basta, ti prego" guardando la volata di Covi che stringeva i denti. Gli occhi sembravano fuoriuscirgli dalle orbite, pareva potesse superare Schmid, ma poi si incartava: di più non poteva. Così come gli altri della fuga, con Kluge che attaccava e si staccava, De Bondt che voleva essere il primo campione nazionale belga a vincere al Giro dai tempi di Maertens, Vanhoucke che avrebbe voluto conquistare una corsa e dedicarla al suo amico Lambrecht che purtroppo non c'è più.

Oppure quel Gavazzi che non è un ragazzino, sa che il tempo sfugge e allora si rende ogni giorno protagonista. Cosa avremmo potuto chiedergli di più?
Avremmo potuto mai chiedere di più a Bettiol vedendolo andare così forte, su ogni terreno, come non succedeva da tempo? E a Nibali che guidava il gruppo sugli sterrati nonostante qualche settimana fa si sia rotto un polso?

Avremmo voluto spingere Ciccone mentre si staccava per la prima volta al Giro, abbiamo detto basta vedendo la sofferenza di Evenepoel, sudato, umano, tenero nella sua difficoltà; gli avremmo dato una pacca sulla spalla e avremmo voluto dire ad Almeida di fermarsi un po' prima per aiutarlo. Avremmo voluto captare il segnale radio per sentire cosa si sono detti tra ammiraglia e corridori in quel momento.

Ci siamo esaltati nel vedere Caruso rimontare dopo essere rimasto dietro nel primo settore sterrato, per poi emergere col baffo impolverato ogni qualvolta la strada s'impennava.

Abbiamo avuto male alle gambe per loro, in quelle due ore in cui tutto si ribaltava tranne Bernal. Dove Vlasov resta l'osso più duro, Yates cresce e Carthy si conferma. Avremmo voluto essere nell'espressione di Foss e Bennett che provavano ad attaccare, ma dietro Moscon, con gambe di bronzo e cosparse di terra, li respingeva.

Avremmo voluto essere in Carboni che per qualche minuto ha pedalato con Evenepoel in salita. Avremmo chiesto “pietà, per favore”, per Bardet che era davanti, persino bellino da vedere, se solo avessimo visto l'attimo in cui scompariva.
Abbiamo visto sprofondare Formolo e ci siamo immaginati saltare Martin. Abbiamo visto calare Valter e imprecare Taaramae.

Abbiamo visto il sole nascondersi tra le nuvole per poi riapparire e illuminare la polvere. E poi tramontare su una giornata entusiasmante, di un Giro entusiasmante, che non dimenticheremo presto. Forse mai.

Foto: Luigi Sestili


Appuntamento al buio in Val di Merse

Non so se vi è mai capitato  un appuntamento al buio. A me onestamente no.
O almeno, non prima che mi arrivasse una telefonata dalla redazione.

Primi giorni di marzo, squilla il telefono.
«Ciao Stefano, c’è da andare a fare un servizio sul Grand Tour della Val di Merse».
«Perfetto, ci sono. Mi dici solamente il posto?».
«Te l’ho appena detto, Val di Merse!».
«Val di che?».
«Val di Merse, Merse!». 

 

Ci ho messo un po’, lo ammetto, a capire che il nome esatto fosse Merse. E solo dopo un’ulteriore ricerca ho scoperto che Merse è un fiume, di circa 70 chilometri, che attraversa le province di Siena e Grosseto.
Non mi serviva nient’altro: si va in Toscana, stop. Appuntamento presso il B&B Palazzo a Merse, giusto 10 chilometri a sud di Siena. Non volevo nessun’altra informazione, il mio appuntamento al buio era fissato. Arrivo un giovedì sera di aprile e le 4 ore in macchina non hanno fatto altro che alimentare le mille domande su cosa mi avrebbe aspettato. Mi accolgono Andrea, guida cicloturistica e gestore del B&B, e Jacopo, il suo partner in crime. 

«Domattina si parte, ore 8.30. Portati il necessario per pedalare due giorni e dormire una notte fuori. Buonanotte». 

Le loro facce trasmettono sicurezza, non c’è motivo di preoccuparsi. Domani capirò dove sono, cosa mi attende e, soprattutto, cosa diavolo è ’sto Grand Tour della Val di Merse. L’unica cosa che so è che dovrò pedalare per due giorni: questo mi basta per addormentarmi come un bimbo alla vigilia di Natale. È stato un aprile anomalo, molto freddo, e la pelle d’oca sulle gambe alle prime luci dell’alba conferma questa tendenza. Si montano velocemente le Miss Grape per i due giorni di bikepacking e, finalmente, si parte. Neanche il tempo di scaldare la gamba e ci ritroviamo su Strade Bianche. Certo, la Toscana è piena di strade bianche, direte voi. Ma qua si tratta dell’unica e originale Strade Bianche, quella col copyright, per capirci meglio.

«Questo è il primo settore di sterrato della gara, anche se i professionisti lo percorrono al contrario». Pensavo stessero mentendo, ma con il dito mi indicano il cippo posto a terra come garanzia di autenticità. «Oltretutto, se proprio vuoi saperla tutta, l’abbiamo inventato noi». 

Il mio volto perplesso fa sì che la storia venga raccontata, per filo e per segno.
«Con la nostra ASD siamo attivi da anni nella valorizzazione di questo territorio, perciò collaboriamo sin dagli inizi di Strade Bianche sia con gli organizzatori che con i Comuni interessati. Dopo la terza vittoria di Cancellara si era deciso di dedicargli un settore di sterrato. Allora abbiamo pensato: perché non pensare ad un oggetto identificativo, proprio come la pietra della Roubaix? Volevamo fosse qualcosa di tipico del territorio, ma non di marmo giallo della Montagnola che è troppo pregiato e non adatto ad uno sport pop come il ciclismo, così abbiamo optato per il travertino. La proposta piacque e noi due, materialmente, siamo andati in cerca del fornitore, creando quello che oramai è il simbolo della classica del nord più a sud d’Europa». L’appuntamento al buio inizia a farsi interessante, penso io.
Al terzo cartello stradale con le indicazioni per il Grand Tour della Val di Merse, cedo alla mia curiosità e chiedo spiegazioni. «Pedaleremo su un loop di 173 chilometri con circa 3.000 metri di dislivello, attraverso la Val di Merse e la Val d’Elsa», dice Andrea, col suo fare da cicerone. «Il percorso passa su strade asfaltate, strade bianche e, per chi volesse, ha anche un paio di deviazioni gravel». Mi faccio inviare il file gpx, lo imposto sul mio account di Komoot, lo carico sul mio Wahoo ed in effetti vedo chiaramente delinearsi questo anello che ho appena iniziato a conoscere. 

«Non solo – precisa Jacopo, che passa la giornata negli uffici di una banca ma che in un’altra vita sarebbe sicuramente stato un ingegnere geotermico, e non a caso, perché la capacità di utilizzare il vapore come fonte di energia rinnovabile è una delle risorse più importanti della zona – abbiamo anche creato un brevetto.  L’itinerario attraversa sei comuni dove è possibile recuperare il libro di viaggio e farlo timbrare nelle strutture convenzionate per dimostrare che effettivamente hai completato il tracciato. Una volta a casa, ce lo invii tramite mail, così ti spediamo l’attestato di valore». 

Altri quattro colpi di pedale ed ecco finalmente il primo timbro sul mio personale libro di viaggio, nel comune di Sovicille. Pit-stop caffè, due foto di rito, e via che si riparte.
Non si smette mai di imparare, si dice, e così in un attimo eccomi ritornare a scuola come un bravo alunno delle elementari, fortunatamente non in didattica a distanza. Quante volte avrò sentito e avrò pronunciato, nella mia vita, la frase mi faccia due etti di cinta senese, grazie al bancone degli affettati di un qualunque supermercato, senza sapere cosa volesse dire realmente. Bene, all’alba dei trentotto anni, ho scoperto finalmente di cosa si tratta: immaginatevi un maiale nero, ma nero nero, con una banda di pelo bianca, ma bianca bianca, che gli cinge il collo. Una cinta, appunto. Alzi la mano chi ne era a conoscenza (macellai e toscani in generale, ovviamente, sono esclusi dal gioco).

La giornata vola, tra i numerosi mangia e bevi (questa volta parlo di strade e non di affettati e buon vino) tipici di queste zone. Altri due timbri nei Comuni di Casole d’Elsa e Radicondoli ed è finalmente tempo di relax: il primo giorno è andato, tra strade fighissime e paesaggi che cambiano in continuazione: macchia mediterranea, boschi, vigneti e prati verdi a perdita d’occhio, oltre agli immancabili borghi che pullulano di storia. Birra, doccia e meritato riposo, questo è il programma per le prossime ore e, onestamente, penso di essermelo meritato.

L’alba del secondo giorno conferma questa primavera fresca, con il termometro che durante la nottata si è fermato a zero gradi. Sì, zero gradi, ad aprile, in Toscana. Robe da matti, direbbe mia nonna. Oggi ci aspettano oltre 100 chilometri e la maggior parte del dislivello per completare il percorso, quindi sappiamo che dovremo dedicare più tempo al ciclo e meno al turismo. Andrea e Jacopo sono in forma, la gamba gira e la tabella di marcia viene rispettata quasi da far invidia alle ferrovie giapponesi. In un attimo passiamo dai check-point di Chiusdino e Monticiano: la giornata fila liscia e sento che ogni piano verrà rispettato. Nulla potrebbe fermarci, nulla potrebbe farci ritardare. Nulla, tranne un uragano.

Ed ecco che, come da tradizione fantozziana, l’uragano prende forma ed ha anche un nome: si chiama Franco Rossi e di lavoro fa il presidente di Eroica. Lo si incontra per caso, sulla strada, appena prima dell’attacco di quella che è la vera salita del Grand Tour: nove chilometri belli tosti che ci portano a Casciano di Murlo, dove riceverò l’ultimo timbro sul mio libro di viaggio. Capisco subito che tra Franco, Andrea e Jacopo c’è una amicizia di lunga data, perché si prendono a schiaffi durante tutta la salita e non c’è verso che uno di loro molli un metro. Talmente di lunga data che a un certo punto, alla seconda birretta rigenerante, mi rendo conto che sarà impossibile arrivare a destinazione entro la serata. «Si cena insieme, ho deciso! E si aprono un paio di bottiglie di vino di quello buono». E a Franco non si può mai, ma proprio mai, dire di no. 

Non ho grossi problemi di tempo, posso tranquillamente tornare a casa anche il giorno dopo e poi mi ripeto come un mantra che sono le cose inaspettate a rendere unica un’esperienza.  Ed in effetti chi si poteva immaginare il cerchio alla testa di domenica mattina, quando invece sarei dovuto essere già a casa a scrivere le parole che state leggendo? Un litro d’acqua a stomaco vuoto rimette tutto in ordine e così siamo pronti per affrontare gli ultimi 30 chilometri, con lo skyline di Siena così vicino che sembra di poterlo toccare solo allungando il braccio. Qualche strada bianca, un po’ di su e giù, e la tappa finale si trasforma in quella che definirei una perfetta recovery ride prima del pranzo domenicale.
È tempo di pacche sulle spalle, sorrisi e promesse di futuri incontri, probabilmente già in occasione della prossima Nova Eroica, poco distante in linea d’aria. Salgo in macchina e riparto. Io non so chi di voi abbia mai fatto un appuntamento al buio. Ma se trovate gente come Jacopo e Andrea, e l’invito viene dalla curiosa e sconosciuta Val di Merse, beh, accettatelo. Senza se e senza ma.


Dietro le quinte: Jacopo e Andrea

Per concludere la nostra guida sulla Val di Merse ci sembrava giusto parlare di chi sta dietro le quinte di questo grosso progetto. Quando abbiamo pedalato lungo il Grand Tour siamo stati accompagnati da Andrea e Jacopo, ciceroni e gran pedalatori. Il primo gestisce il B&B Palazzo a Merse e fa la guida cicloturistica, il secondo passa le giornate tra le mura di una banca ma in un’altra vita sarà sicuramente stato un ingegnere geotermico o giù di lì. Loro, però, sono state solamente le due persone che ci hanno messo la faccia durante quei pochi giorni. In realtà dietro a tutto ciò c’è un gruppo di persone che si impegna costantemente e che anni fa ha dato vita alla A.S.D. Gruppo Ciclistico Val di Merse.
Il loro obiettivo? Semplice: collaborare con chiunque, senza alcun tipo di campanilismo, per promuovere le loro zone all’insegna di un turismo ciclabile.
E così eccoli ad organizzare granfondo, a fondare il Bici Club Terre di Siena insieme, tra gli altri, agli amici de L’Eroica, e a lavorare per la realizzazione di Strade Bianche. Come è ben spiegato sul nostro reportage cartaceo sono stati loro, per esempio, ad avere avuto la visione e poi a realizzare i famosi “cippi” della classica ciclistica.

Insomma, si tratta di gente con profonda passione che investe il proprio tempo per un fine comune e decisamente nobile.

Noi di Alvento non finiremo mai di ringraziarli e di complimentarci.
E voi che leggete, dateci retta, passate a trovarli: non ve ne pentirete.


Quello che non vi dovete proprio perdere...

Come dicevamo, questa guida vuole essere utile sia a chi passa la giornata in bici, ma anche a chi ha deciso di approfittare del weekend in Val di Merse per visitare un posto nuovo, all’insegna del relax: quelli che solitamente chiamiamo gli accompagnatori. Musei, produzioni alimentari e tutto quello che ha una valenza storico–artistica: in questo elenco troverete gli highlights della zona.

MUSEI

Museo Civico Archeologico e della Collegiata. Casole d’Elsa.

Ubicato nei locali della canonica della Chiesa Collegiata a Casole d’Elsa, è suddiviso in due sezioni: una archeologica e l’altra artistica. La prima, articolata in tre sale, racconta la storia del popolamento del territorio in età etrusca sin dalla sua fase più antica, con testimonianze di oggetti trovati nelle numerose tombe del territorio.

museisenesi.org/museo/museo–civico–archeologico–e–della–collegiata

L’Antiquarium di Poggio Civitate. Murlo.

IL Museo archeologico di Murlo è allestito all’interno dell’antico Palazzo Vescovile del borgo, un castello medievale a metà strada tra la Val di Merse e le Crete Senesi. Accoglie testimonianze uniche della civiltà etrusca, tra le quali spicca la statua con il Cappellone diventato il vero simbolo del museo.

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Le Energie del Territorio. Radicondoli.

Il Museo Le Energie del Territorio nasce con l’idea di approfondire la conoscenza delle energie rinnovabili per valorizzare il territorio e l’energia sostenibile. È allestito come un laboratorio ed è perfetto per far giocare i figli… o se volete ritornare bambini per un’ora.

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Museo della Biodiversità. Monticiano.

Attraverso filmati, percorsi interattivi, giochi didattici e multimediali, il museo vuole mostrare e raccontare il grande patrimonio di biodiversità presente in Val di Merse e nel nostro pianete: molto utile per imparare le azioni necessarie per la sua conservazione.

museodellabiodiversita.it

Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra di San Galgano. Chiusdino.

Inaugurato nel 2015 nello storico Palazzo Taddei, il museo raccoglie numerose opere d'arte, bassorilievi, pitture su tavola e su tela, oreficeria sacra, ex voto, realizzati tra il XII e il XIX secolo e in maggior parte provenienti dalle chiese parrocchiali e dalle cappelle del territorio.

Museo Etnografico del Bosco. Sovicille.

ll Museo Etnografico del Bosco è ospitato all’interno di un vecchio fienile ristrutturato nel piccolo borgo di Orgia ed il suo scopo principale è quello di raccogliere e tramandare le testimonianze legate alla vita e alle attività umane sul territorio.

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PATRIMONIO STORICO ARCHITETTONICO

CASOLE D’ELSA

Borgo medievale, collegiata di Santa Maria Assunta, borgo di Mensano.

CHIUSDINO (tel. 0577 750313 – info@prolocochiusdino.it)

Borgo medievale, Abbazia di San Galgano ed Eremo di Monte Siepi.

MONTICIANO (tel. 0577 049336)

Borgo medievale, chiostro e Chiesa di Sant’Agostino, Chiesa dei Santi Giusto e Clemente.

MURLO (info@prolocomurlo.it)

Borgo medievale, rocca di Crevole.

RADICONDOLI (tel. 0577 790880 – turismo@radicondolinet.it)

Borgo medievale, Chiesa dei Santi Simone e Giuda.

SOVICILLE (tel. 0577 314503 – info@prolocosovicille.it)

Borgo medievale, Chiesa di San Giovanni battista, villa Lechner, chiostro di Torri, pieve di Ponte allo Spino, castello di Celsa, pieve di Pernina, romitorio e villa di Cetinale, Chiesa di San Giovanni battista a Rosia, necropoli etrusca di Malignano.

 

PRODUZIONE ALIMENTARE A KM 0

Bottega di Stigliano. Sovicille.
Ristorante e negozio in un casale da sempre votato alla tradizione culinaria, loro lo chiamano laboratorio di cittadinanza intorno al cibo. Basta e avanza per incuriosire…

valdimersegreen.com

Azienda Agricola Casa al Gianni a Simignano. Sovicille.


 

 

Dove degustare e acquistare la famosa carne di Cinta Senese e conoscere la famiglia Bezzini che pochi anni fa ha salvato dall’estinzione il famoso maiale autoctono della Montagnola Senese.

Botteghina di Scorgiano. Casole d’Elsa.
In assoluto una delle migliori degustazioni di Cinta Senese della zona.
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Azienda Agricola la Montagnola. Casole d’Elsa.
Tutto, e anche di più, prodotto grazie alle api: miele, grappe, pappa reale, cera, propoli, e chi più ne ha più ne metta.
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Pizzeria la Pergola e Autoctona. Radicondoli.
Autoctona è un forno artigianale ma anche una bottega e un punto di sosta per chiunque voglia provare i sapori dei vari prodotti locali. Pane, pizza in teglia e generi alimentari “a km zero” oltre a una selezione di olio extravergine, fanno di Autoctona la prima e unica oleoteca in provincia di Siena. Di fianco ad Autoctona, la Pizzeria la Pergola: il top.
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Podere Paugnano. Radicondoli.
200, sì avete letto bene, duecento pecore grazie alle quali si producono formaggi, ricotta e yogurt biologici a km 0. La fattoria è completamente biologica e la filosofia si può riassumere in quattro parole: rispetto per la natura. Mangiare qui significa essere invitati nella cucina di famiglia, mezza toscana e mezza sarda.
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VINI E DEGUSTAZIONI

Tenuta di Trecciano. Sovicille

Vini e olii da degustare in una antica villa medievale di ben 22 ettari.

trecciano.it

Tenuta Poggio Salvi. Sovicille

Dal Chianti al Vin Santo, passando per tutto ciò che è Toscana.

poggiosalvi–sovicille.it

Tenute Pietro Caciorgna. Casole d’Elsa

Cereali, mais, girasoli, foraggi, l’allevamento di Chianina e, ovviamente, tanto e ottimo vino.

tenutepietrocaciorgna.com


Negozi e noleggio bici

Una foratura, un problema al cambio o semplicemente la necessità di affittare una bici per un accompagnatore: alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare con almeno una di queste esigenze. Invece che smanettare sul telefonino in cerca di informazioni, ecco un elenco di strutture che vi possono aiutare a risolvere qualunque tipo di problema in val di Merse. Cosa molto interessante, ognuno di loro effettua il trasporto bagagli, nel caso non amiate il bikepacking ma preferiate viaggiare leggeri.

Tuscany Cycling House
Noleggio bici
Località Palazzo a Merse, 22 – Sovicille
Telefono: 0577 342063 – 338 6762818
tuscanycyclinghouse.it

E–Bike–Toscana
Negozio e noleggio bici
Via Po, 30 – Pian Dei Mori – Sovicille
Telefono: 0577 058501 – 339 5353222
e–bike–toscana.com

Fred E–bike
Negozio e noleggio bici
Via Dario Neri, 10 – Siena
Telefono: 0577 392087 – 3405091366
fredebike.it

DF Bike
Negozio e noleggio bici
Strada Massetana Romana, 54 – Siena
Telefono: 0577 271905
dfbike.it

Gippo Bike
Negozio e noleggio bici
Loc. Pian dell’Olmino, 77 – Colle di Val d’Elsa
Telefono: 0577 904405
gippobike.com