Au Revoir Philippe

Ci viene in mente quel 24 aprile del 2011 quando Philippe Gilbert vinceva la sua prima -che poi sarà l'unica e ci è sempre parso come uno scherzo del destino - Liegi-Bastogne-Liegi, battendo i fratelli Schleck. Frank ed Andy sul traguardo, nell'ordine.
Gilbert realizzava un filotto che non era proprio robetta da nulla o da tutti gli anni: Freccia del Brabante, Amstel Gold Race, Freccia Vallone e appunto Liegi nel giro di una decina di giorni.
«Scambierei quelle tre corse per vincere una Liegi» disse alla vigilia della corsa il ragazzo di Remouchamps, pochi chilometri dalla salita simbolo della Doyenne, la decana delle classiche; il figlio della Redoute, quello che vedeva il suo nome scritto per terra su quella storica "montagna" quando ancora non era nemmeno maggiorenne tanto che quella volta a darsi battaglia erano due tipi niente male come Bartoli e Vandenbroucke.
In quel 2011 segnato dal dominio nelle Ardenne, Gilbert vinse anche Strade Bianche, Gp Quebec, San Sebastian, campionati nazionali in linea e poi a cronometro, una tappa al Tour e una alla Tirreno, salì sul podio alla Sanremo e chiuse nei 10 il Lombardia.
Ci viene in mente quella volta, un anno dopo o poco più, quando con la maglia della sua nazionale attaccò sul Cauberg, partì e se ne andò lasciando per terra schiantati i suoi avversari: divenne Campione del Mondo.
Un Campione del Mondo belga sette anni dopo Boonen; e i suoi connazionali dovranno aspettare dieci anni esatti per vincere nuovamente il titolo: un legame tra due corridori che su strada hanno mostrato caratteristiche completamente differenti, ma uno spessore simile. Tra uno che, crescendo in bicicletta, guardava ammirato le sue imprese, e l'altro che, invecchiando, non nascondeva la stima per il giovane emergente. «Non potevo sognare di avere un successore più degno di te - raccontava Gilbert in un video su Youtube fatto durante un allenamento, poco dopo la vittoria di Evenepoel a Wollongong - È stato commovente, tanto che, devo ammettere, mi sono scese le lacrime quando hai tagliato il traguardo».
Ci potrebbero venire in mente altre mille occasioni: quella Roubaix nel 2019, quasi inaspettata, lui campione perlopiù da corse vallonate, da scatto bruciante al termine di uno strappo «Ho attaccato con Politt - dirà nella conferenza stampa al termine della gara - perché è fatto come me, non fa molti calcoli: è generoso e coraggioso, lo stimo molto. Oggi meritavamo entrambi la vittoria»; si potrebbe pensare al Fiandre del 2017 vinto dopo una lunghissima fuga (un po' come quando vinse la sua seconda Omloop Het Nieuwsblaad, era il 2008, si fece cinquanta chilometri in avanscoperta) e l'arrivo in maglia tricolore con bici sollevata sul traguardo, a modo, si direbbe dei ciclocrossisti, in una di quelle giornate da racconto epico come il ciclismo spesso sa regalare senza andarsi a inventare chissà quali significati retorici dietro le azioni di un corridore. Gilbert che attacca, Boonen che corre l'ultimo Fiandre con una bici con telaio bianco e scritta in oro, Sagan, favorito e campione uscente, che cade nel finale dopo essersi impigliato a una giacca appesa su una transenna lungo l'Oude Kwaremont e rovina a terra portandosi dietro Naesen e van Avermaet e regalando così a Gilbert quel vantaggio di cui aveva certamente bisogno, in avanscoperta da troppo tempo, per completare l'opera.
Ha vinto ovunque e in ogni modo, ci sono stati dei momenti in cui pareva così dominante da farci dire: "Gilbert è il ciclismo" oppure "Gilbert può vincere a piacimento ogni corsa di un giorno a cui prende parte". È stato una sorta di van der Poel ante litteram per la capacità di sprigionare potenza con un solo scatto devastante, ma anche di infiammare il cuore dei tifosi che ovunque, pure qui in Italia (ha vinto al Giro sul traguardo di Anagni nel 2009 e si è ripetuto due volte nel 2015), lo hanno amato.
Si potrebbe pensare ancora alle cadute rovinose, alla poetica del suo modo di attaccare o stare in bici, alla sua eleganza da re Vallone come spesso è stato chiamato, amato anche dai fiamminghi. Fatto tutt'altro che scontato.
Invece ci tocca pensare che nel week end che ha visto lasciare il ciclismo a Valverde, Nibali, Nieve, Kangert, Terpstra per fare giusto qualche nome di peso, anche il suo è stato scritto per l'ultima volta nelle liste di partenza di una gara di professionisti di quello sport chiamato ciclismo. È pensare a questo ci fa male, ma passerà. Almeno si spera. Altrimenti chiuderemo gli occhi e ci immagineremo ancora una volta il suo attacco quasi prepotente sul Cauberg con la maglia della nazionale belga, il cerotto al naso e i denti di fuori per lo sforzo, mentre dietro gli avversari arrancano, sfuocati sullo sfondo.


L'iride Gravel

È stata una lunga fuga quella di Gianni Vermeersch e Daniel Oss. Loro due, segnati da quei cognomi onomatopeici, quasi a simulare il rumore delle ruote nella terra, se ne sono andati dopo appena quaranta chilometri, durante la prima edizione del Campionato del Mondo Gravel, e nessuno li ha più rivisti, almeno fino al traguardo. Eppure andare via così presto è spesso un azzardo, una follia, un gioco ad alto rischio: a Vermeersch e Oss, ieri pomeriggio, non interessava. Qualcosa di simile al rock 'n roll il loro gesto e il gravel somiglia al rock perché unisce sonorità, possibilità, strada e terra, idee e desideri.
Il gruppo naufraga: quattro minuti, cinque minuti, ad un certo punto anche sette minuti. La nazionale italiana e quella belga sono perfette, Mathieu van der Poel, che pur tutti aspettavano, si trova imbrigliato, in una trappola, in una tela, non può far nulla se non affidarsi al gruppo che questa volta, diversamente da tante altre volte, nulla può fare, nulla riesce a fare. Ad un certo punto, davanti, Vermeersch si accorge che Oss perde qualche metro, poco, ma è un segnale, un segnale che l'avversario, appena coglie, cerca di portare all'esasperazione. Accelera Vermeersch, belga con un nome che più italiano non si può, qualcosa di caratteristico perché non è il primo.
Oss cede, prima qualche metro, poi sempre più. Le mura di Cittadella non sono poi così distanti. È pomeriggio ma si avverte l'arrivo della sera: i tramonti qui sono una lunga attesa, mentre i raggi di luce sfumano sulle pietre, sui mattoni, sui loro colori e, proprio qui, il gravel fa ciò che meglio gli riesce. Creare qualcosa di nuovo, di inaspettato. Gianni Vermeersch vince, diventa il primo Campione del Mondo Gravel: è felice, come non esserlo, forse ancora di più perché questa è una possibilità che avrebbe potuto non esserci anche per lui che si trova a proprio agio nel terreno in cui corre una bicicletta gravel. Gianni Vermeersch ha rischiato di non poterlo proprio dire: «Sono Campione del Mondo Gravel». Da ieri può dirlo.
Racconta molto di Vermeersch quell'oro e racconta altrettanto di Daniel Oss il suo argento. In assoluto l'argento è meno pregiato dell'oro, ma il valore non è il prezzo, il costo, il listino. Il valore è ciò che l'essere umano riconosce, assegna, percepisce. Così per Oss è una giornata speciale, un momento importante, un sogno, mentre sceso di sella va verso le premiazioni e batte il cinque al pubblico che lo chiama. Una giornata speciale è anche per chi ha scelto di stare a guardare, di cercare il luogo giusto per vedere spuntare da una curva i ciclisti o per sentire le loro ruote quasi traballare sul pavè del centro di Cittadella. Una festa, un'altra.
Terzo arriva Mathieu van der Poel, a seguire Greg Van Avermaet e, fra gli azzurri, Alessandro De Marchi e Davide Ballerini. Anche De Marchi è rock o, se preferite, gravel. Per come si butta in ciò che fa, per il fatto che solo sabato fosse in fuga sulle strade del "Lombardia" e poi di corsa in Veneto. Settimo sul traguardo.
Essere gravel è questa cosa qui. Essere gravel è divertirsi e far divertire, è il buon umore della fatica, della sfida che è anche prova, novità. Essere gravel è rock, è un centro storico e una birra, è la prima volta delle cose importanti.


56,792: È Record dell'Ora per Filippo Ganna

Tantissimi dettagli, da ieri sera, dicono qualcosa. La quantità di persone con bandierone del cinghiale sui pedali, il simbolo del fan club “Top Ganna”, rivela che è realmente impossibile voler male a Filippo Ganna. Ganna che, a fine riscaldamento, fa segno alla console di alzare il volume della musica indica quanto fosse pronto a spaccare il mondo. L’espressione di Marco Villa diversi minuti dopo la prova, un altro esempio: felicissimo ovviamente per lo storico risultato centrato, ma con quel velo di amarezza perché si potevano fare qualche decina di metri in più. Il cartellone arancione, quello che poi avrebbe segnalato la distanza record, pre-tentativo recitava 88,888 metri: una distanza a cui Ganna potrebbe pure aspirare, si diceva scherzando.
Su tutti i dettagli, però, ce n’è uno che riassume al meglio la serata di ieri: Elia Viviani nasconde una bottiglia di spumante dietro la schiena. Ganna sta finendo le interviste flash con la tv e vuole essere abbracciato dai suoi compagni di squadra, la Nazionale pista, e Viviani sta per innaffiarlo di vino bianco. Domani partono tutti assieme per la Francia, dove a breve vivranno i Mondiali su pista.
E tantissimi dettagli non hanno senso: cosa significa il fatto che, sceso dalla bici dopo una fatica così immane, Ganna sorrideva? Non si è accasciato sulla pista, sfinito. Non si è dovuto sedere appoggiandosi ad una transenna. Si è messo a passeggiare all’interno dell’ovale, felice come non mai tra le persone che ama.
È stato un record dell’ora molto umano. Un ragazzone verbanese evidentemente molto speciale ha girato in bicicletta davanti ai suoi amici, che avrebbero reagito allo stesso modo anche se non avesse battuto nemmeno Bigham (55,548 metri). Poi c’era quell’altra asticella, che era una sorta di illegale Beamon a Messico ’68. La Lotus 108, bicicletta su cui Chris Boardman percorse 56,375 metri nel 1996, fu infatti definita fuorilegge dalla UCI e il record dell’ora si divise in quello “legale” e in quell’altro, la miglior prestazione umana sull’ora. Ieri Ganna ha messo d’accordo tutti unificando questi due record.
Non avevo pensato a quanti giri di pista dovesse fare Ganna per avvicinarsi ai 57 chilometri. Beh, ne ha fatti poco più di 227. Vederlo passare duecentoventisette volte sul traguardo è stato pauroso, esaltante, noioso, catartico, storico, spaventoso. Nel punto più alto della sua prova, Ganna macinava tempi da Lewis Hamilton in qualifica: 15,3 secondi al giro. Ne ha fatto uno ai 58,99 km/h. È stato durante questi minuti che ci siamo accorti di essere testimoni di qualcosa di fuori dall’ordinario: quando aumentavano i decibel di chi cantava a bordo pista il suo nome, quando tutti i presenti si sono guardati in faccia increduli per dirsi che sì, sta succedendo davvero. Il record di Bigham è stato ritoccato di oltre un chilometro, quello di Boardman di alcune centinaia di metri: il nuovo re dell’ora è Filippo Ganna.


Creare ricordi in bicicletta nei luoghi della Prima Guerra Mondiale

I luoghi sono stati quelli della Prima Guerra Mondiale, l'Altopiano di Asiago, il Monte Grappa, il Pasubio e il fiume Piave, luoghi che tutti ricordiamo per ciò che hanno significato. Se il Memory Bike Festival, svoltosi proprio lì, si è chiamato così, però, è soprattutto perché ha voluto provare a dare un nuovo significato al concetto di memoria, di ricordo. Federico Damiani, del collettivo Enough Cycling, organizzatore dell'evento, interpreta diversamente il verbo "commemorare": «Crediamo che troppo spesso l'idea del ricordare sia un'idea associata a una eccessiva serietà, talvolta a tristezza, malumore. Si può ricordare anche in maniera allegra, associando il ricordo a qualcosa di bello, di entusiasmante, qualcosa che resta in memoria proprio per questa capacità di divertire, di fare stare bene».
Andare in un posto in bicicletta, in compagnia, è qualcosa che aiuta la costruzione del ricordo, di un ricordo con radici forti, di quelli che non si dimenticano e che suscitano benessere quando riaffiorano. L'1 e il 2 ottobre, all'Altopiano di Asiago si provava a costruire questo. «Di fatto è un concetto sociologico. L'uomo tende a soddisfare diversi bisogni, dai primari, più semplici, fino a quelli più complessi, in una struttura piramidale. Normalmente a quei bisogni primari non pensiamo nemmeno, a sfamarci, ad esempio, a dissetarci, perché li diamo per scontati e continuiamo a cercare di soddisfare i più complessi. In bicicletta, ma in generale durante la fatica, lo sforzo, quei bisogni semplici ritornano e con loro cambiamo anche noi, diventiamo più veri, lasciando da parte tutta una serie di strutture imposte dalla società». Ecco spiegato perché i posti che visitiamo pedalando restano in memoria in maniera differente.

Tende per dormire fra i primi sussulti dell'autunno, tante biciclette, colazione tutti assieme perché così iniziano le giornate in viaggio e tre percorsi fra cui scegliere, nessuna gara, solo il gusto di percorrerli. «Durante le pedalate è stato possibile fermarsi a leggere, a vedere, a scoprire, magari a imparare qualcosa della Guerra Mondiale che ancora non si sapeva. Non tutti lo avranno fatto allo stesso modo, qualcuno avrà letto di più, qualcuno di meno, ma quel ricordo, quel bel ricordo farà sì che anche a casa avranno voglia di capire, di guardare». Poi si festeggia, con musica e Dj, divertendosi dopo la stanchezza e la fatica, il sudore.

Insieme a tutte le età. Tanti partecipanti giovani, tante gravel, anche qualcuno più avanti negli anni che, fra sentieri e strade, salita e pianura, lunghi drittoni, curve dolci e antiche strade militari, si è sentito incluso, parte di un gruppo. Da qui l'idea di tornare l'anno prossimo alla seconda edizione di questo evento che quest'anno ha cambiato pelle ma non vuole fermarsi qui. «Stiamo già vedendo i percorsi per il prossimo anno: qualcosa resterà uguale, qualcosa cambierà, anche nel nome dell'evento. Proveremo a fare in modo che la memoria possa essere costruita attraverso più vie, qualcosa di nuovo per manifestazioni di questo tipo. Piano piano scopriremo tutto assieme». Sì, attraverso la potenza di un ricordo e la felicità di quei pedali che girano è davvero possibile custodire passato e futuro assieme.


Alvento a Scuola

Tutto è iniziato vedendo la copertina di Alvento18 e guardando quel sasso, quello di Roubaix, quello vinto da Sonny Colbrelli, conquistando la Parigi-Roubaix. Massimo, insegnante di scuola dell'infanzia, l'ha vista con suo figlio e quel bambino ha iniziato a porsi e a porre domande su quel sasso. «Un sasso è per un bambino piccolo qualcosa di pesante che non bisogna lanciare, si chiedono subito come possa diventare un premio, un regalo. Il compito di un adulto è provare a spiegarlo». Da quel momento, Massimo ha avuto la certezza che le domande di suo figlio sarebbero in realtà state le domande di molti altri bambini. Alla scuola dell'infanzia "Clorofilla" di Milano sono arrivate così alcune copie di Alvento.
«Basta appoggiare una rivista per terra o su un tavolo e lasciare che i bambini la sfoglino. A quel punto saranno le immagini a evocare qualcosa su cui i più piccoli si interrogheranno. Noi seguiamo questo modello nell'insegnamento: cosa dice quella foto, quel disegno, quel colore? Che storia c'è dietro? Da queste domande, si impara». Sì, perché per spiegare la storia di quel sasso serve viaggiare con la mente, arrivare "nell'Inferno del Nord" e spiegare di quelle biciclette che "vanno sui sassi" per poi entrare in un velodromo e sfidarsi in velocità. «Non solo, bisogna parlare di materia, di tatto: di quanto sia pesante quel sasso, del suo essere ruvido o lisciato dalla pioggia. E se un sasso è duro, il fango è morbido e cosa si prova a toccarlo, a pedalarci o camminarci dentro? Qualcuno lo sa, altri vogliono capirlo».
Gli adulti parlano, spiegano, raccontano, i bambini si avvicinano a quelle foto, avvicinano tutte le mani e indicano anche i dettagli minori. «Si arriva a parlare di velocità, di equilibrio, del come faccia una bicicletta a restare in piedi, a non cadere e di cosa facciano i ciclisti per scalare una montagna o per curvare in discesa». Allora i bambini si confrontano tra loro: c'è chi va in bicicletta con i genitori, chi sta imparando, chi sa fare qualcosa che gli altri non sanno fare. L'equilibrio stupisce sempre, come ogni storia: «Il gioco è immaginare dove stia andando una persona in bicicletta, cosa farà una volta arrivata, quanto tempo ci metterà per arrivare, chi incontrerà. Si tratta del concetto di possibilità che la mente dei bambini esplora di continuo. Qualcosa che forse crescendo si rischia di perdere».
Ad un certo punto, si guardano le immagini della Parigi Roubaix femminile, qualche bambino chiede: «La bicicletta è per bambini o per bambine?» e la risposta se la danno loro stessi: «La bicicletta è per tutti, non vedi le foto?». Per tutti e anche, soprattutto, per i più piccoli: basta tornare indietro di qualche pagina e proprio all'inizio della rivista tutti fissano l'immagine di una bambina che va in bicicletta. «Allora si parla dell'essere grandi. Qualcuno spiega che è già grande e adduce a motivazione il fatto che va già in bicicletta, altri si chiedono cosa significhi diventare grandi, adulti, altri ancora aggiungono che si è grandi quando si può andare in bicicletta da soli». Mentre gli adulti si confrontano, anche i bambini si confrontano, così crescono.
Il concetto è quello di autonomia. Cosa accade quando un adulto insegna a un bambino a fare qualcosa? Ad andare in bicicletta, ad esempio. «La nostra idea è che, poi, adulto e bambino siano sullo stesso piano. Certo, l'adulto ha imparato prima, il bambino dopo, ma ora che entrambi sono capaci che differenza c'è?». Questo vuol dire dialogare e ascoltare: «Serve fiducia e disponibilità: “Ora che hai imparato, decidiamo assieme dove andare, cosa fare”. Si parte così ed allora i più piccoli propongono, si mettono in gioco, magari sbagliano. Stanno imparando». Non c'è più solamente una guida e qualcuno che impara, ci sono due persone che stanno esplorando un bosco, un sentiero, una strada. «Credo sia vero che le strade di oggi sono pericolose, non sono, purtroppo, il luogo ideale per giocare o correre in bicicletta, ma per cambiare tutto questo abbiamo un solo modo. I bambini devono conoscerle, raccontare ciò che li diverte e ciò che li spaventa. Fare domande, interrogare quel mondo che non sembra a misura di bambino. Da qui può nascere il cambiamento». Se gli adulti ascoltano, se gli adulti hanno coraggio.
«Consegniamo ai bambini la loro autonomia, consegniamola a piene mani e lasciamo che possano viverla. L'esperienza di pedalare da soli, senza più nessuno che tiene una mano sulla loro spalla, è straordinaria. Sono felici, ridono, gridano, perché stanno scoprendo cosa sanno fare, cosa possono fare. Mentre lo scoprono continuano a interrogare la loro immaginazione e si proiettano in altri mondi, in altre strade, in altre possibilità. È un esercizio difficile ma importantissimo». Un esercizio che può partire da un'immagine, da una bicicletta e portarli chissà dove. Nel loro diventare grandi, a partire da un'aula di una scuola dell'infanzia in una mattinata di ottobre.


I giorni dopo Erratico Gravel

Il giorno dopo è il giorno delle idee, dei pensieri. Così è accaduto anche per Erratico Gravel e tutto ciò che è stato quel fine settimana di inizio ottobre nel Canavese non sta nelle parole. Paolo Ciaberta e Simone Bracco, fra gli organizzatori dell'evento, hanno voglia di raccontare, una voglia che, in realtà, appartiene a tutti dopo giornate così. «Vengono e ti dicono semplicemente che sono felici- spiega Paolo- poi ti spiegano la loro giornata, i momenti più belli e quelli più difficili». Simone nota che questa è una forma di condivisione, come tante altre: «Guardate le storie sui social: è come spartirsi un poco di acido lattico. Spesso le persone non si aspettano queste cose da una bicicletta, rimangono stupite e, quando rimangono stupite, fotografano, spiegano, raccontano. A chiunque».

Già, una delle tante forme di condivisione perché già solo ritrovarsi tutti assieme e pedalare significa condividere. «Fotografando- osserva Paolo- li guardavo quei volti. Era incredibile: più aumentava la fatica, più la terra e il fango addosso, più la fatica, più aumentava la felicità». Perché? È una domanda spontanea. «Perché siamo molto abituati a una fatica mentale che logora e prendere una bicicletta, scegliendo di faticare, quasi purifica, risana, cura. Un'ora, due ore, e le cose prendono un'altra dimensione, quella giusta. Vivibile». Tutti assieme, che significa campioni, esperti, profani e chi ha iniziato a pedalare da un anno, talvolta da meno. Simone parla del rugby: «Il terzo tempo nel rugby è una delle parti più belle. In un evento come questo, il terzo tempo è ovunque: in un ristoro, in quelle chiacchierate, anche nelle paure, nei dubbi. Alla fine, a tavola, si sta tutti assieme e stare a tavola assieme è unico: non importa quello che sai fare, quanti watt sviluppi, quanto tempo ci metti, si pranza assieme».

Lo ha notato anche Patrick De Lorenzi, ironman che ha partecipato a Erratico Gravel: «Lui che con il fisico può fare qualunque cosa, che non ha problemi di resistenza o fatica, ha scritto che Erratico è stata "un'esperienza brutale e meravigliosa". Crediamo renda l'idea, crediamo basti per raccontare la scoperta di una terra attraverso due giorni di divertimento». Qualcosa di simile si può narrare anche passando dal velodromo Francone di San Francesco al Campo.
Simone dice che gli addetti del velodromo, inizialmente, apparivano quasi perplessi, certamente dubbiosi da questa forma di ciclismo "nuova" che poi nuova non è, che affonda le sue radici nelle basi di quello che è una bicicletta. «A loro faceva strano non parlare di podi, di tempi, di classifiche, di barrette energetiche e gel, ma di ristori con cibo tipico e, perché no, un bicchiere di vino. Eppure, alla fine, erano incuriositi, interessati e chiedevano, facevano domande. C'è stato uno scambio e questa essenza del ciclismo li ha colpiti». Probabilmente, chiosa Paolo, il gravel ha aiutato, questa disciplina a metà strada che permette nuovi viaggi, nuove esplorazioni, certamente ad attirarli è stata un'altra questione.

«Spesso, quando pensiamo al ciclismo, pensiamo al ciclismo professionistico e va bene così perché lì cerchiamo l'epica, la straordinarietà delle gesta, qualcosa che non ci faccia sentire tutte le fragilità e le debolezze di cui siamo fatti. Il punto è che come uomini e donne, spesso, siamo distanti da quelle gesta, non siamo capaci di fare certi numeri e dobbiamo ammettere che questo non è un problema. Anzi, è bello anche andare lentamente in bicicletta, fermarsi, non competere con nessun se non con te stesso, se vuoi. Prima o poi, arriviamo tutti a questa scoperta: continuano a emozionarci le gesta dei campioni, ma ci emozionano anche i nostri piccoli miglioramenti, il nostro crescere». Di quella lentezza è fatta, ad esempio, l'osservazione del territorio di cui, a forza di correre, si rischia di non rendersi conto.
«Il Canavese è una terra straordinaria, bosco, sottobosco, natura e strade da scoprire ogni giorno, perché c'è ancora tanto che non si conosce. Ci piacerebbe che questa terra si volesse un bene maggiore, riconoscendo la sua bellezza e andandone fiera. Perché chi passa da qui, anche se distratto, resta meravigliato. Sempre».


Promesse

Quel numero di dorsale poteva sembrare una promessa: uno. E l'uno, stamattina, a Carpi, nel primo giorno di ottobre, lo aveva Elisa Longo Borghini. Lei che, appunto perché conosce il valore delle promesse, le tratta con cura. Dire troppo, sbilanciarsi troppo, significa generare attese e, se poi le gambe ti lasciano, le peggiori delusioni per chi è lì a guardare, a guardarti, vengono proprio da lì. Dalle promesse, da ciò che, ascoltando le tue parole, aveva immaginato. La sua promessa è, da sempre, il suo lavoro. Il lavorare duro, il non cedere nulla nemmeno in autunno, il non dimenticare nulla nemmeno a fine stagione. Ed è questa, in fondo, l'unica cosa che si può promettere: volerci essere. Fare il possibile per esserci.
A Bologna, i portici della salita di San Luca sembrano fuori dal tempo. Li abbiamo visti in primavera, promessa di maggio, in estate, intermezzo di frescura, in inverno, riparo dall'aria tagliente, in autunno, con le mani nelle tasche della giacca nelle giornate più aspre. Elisa Longo Borghini li conosce bene, come ben conosce quella salita, perché quell'uno è anche passato, quello delle due volte in cui qui ha già vinto. Promettere di fare il possibile vuol dire guardare avanti perché promettere è fissare un punto nel futuro e credere di andarci, vuol dire stare su una bicicletta che ha poche certezze e quella di andare avanti è una di queste, vuol dire scattare in salita, anche se sei stanca, anche se è più difficile.
Elisa Longo Borghini ha fatto così ancora oggi ed è stato uguale e diverso da tutte le altre volte. Qualcosa che colpisce, che resta in mente, perché non è solo il risultato, è il modo: una sorta di presagio che abbiamo quando alcuni atleti fanno qualcosa di straordinario in modo normale o qualcosa di normale in modo straordinario. È questo il capovolgimento che attira, che calamita. Un segreto, forse.
Seconda Veronica Ewers, terza Sofia Bertizzolo. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, della sua fatica, dell'ultimo strappo del mondiale di Wollongong, e guardatela oggi, mentre è lì a giocarsela che è un piacere. Il discorso non è molto diverso, sempre di promesse si parla: di quelle fatte agli altri e di quelle fatte alla propria persona.
Una ciclista sa che non si può illudere chi aspetta per ore un passaggio di qualche secondo, sul San Luca anche qualche secondo in più tanto è duro, ma una ciclista sa anche che ha il dovere di promettersi qualcosa di grande, di molto grande, quasi essenziale, per andare avanti.
Pensiamo a Marta Cavalli che proprio oggi è rientrata dopo la caduta al Tour de France Femmes ed è arrivata sesta. Vogliamo immaginare cosa sia stato per lei questo giorno, dopo tutti i risultati della stagione, dopo la crescita di questi anni. Questo giorno è stato quello che si era promessa dopo essersi rialzata dall'asfalto francese, costretta a tornare a casa. Promettersi il giorno del ritorno significa avere la pazienza di aspettare e il coraggio di dire no pur volendo dire sì. Significa credere al fatto che arriverà. Anche per Marta Cavalli è stato un sabato uguale e diverso dagli altri, un giorno da cui non si aspettava nulla e in cui chiedeva a tutti di non aspettarsi nulla perché è meglio pedalare leggeri in salita. Il suo essenziale era pedalare in gruppo, risentirsi in quel caos del plotone. Le promesse sono promesse e bisogna averne cura. Tutto qui.


L'Enric Mas, il Mimmo, Tadej Pogačar

E a ogni giro, su quella curva, la Curva delle Orfanelle, le speranze della maggior parte del gruppo andavano infrangendosi contro aspre pendenze che inacidivano le gambe.
A ogni giro, lungo i 2,1 chilometri circa che portano in cima, oltre il Santuario della Madonna di San Luca, Enric Mas sembrava stare sempre meglio.
Tantissima gente dietro le transenne, un boato a ogni passaggio, un ritmo cadenzato di mani e urla per i corridori che digrignavano i denti, alcuni costretti a fare zigzag, altri, come Rochas, mettevano il piede a terra per forza di cose: un problema al cambio e su quelle percentuali di salita non ci si poteva inventare nulla.
E a ogni giro tiravano forte gli uomini di Tadej Pogačar, il favorito, senza troppi pensieri per gli altri: prima Majka, che divorava ogni tornata come se non avesse mangiato abbastanza; dopo di lui Ulissi, e poi, quando sarebbe toccato a Formolo (ottimo anche oggi, nono all'arrivo), mancavano due giri, provava l'allungo Fortunato, che frantumava definitivamente il gruppo; Fortunato che si vede poco, ma quando si vede prova a lasciare il segno, e a maggior ragione prova a farlo su quella salita che lui conosce come fosse, anzi praticamente lo è, la strada di casa sua.
E quella strada che portava su in vetta ispirava il miglior Enric Mas possibile: nemmeno Pogačar riusciva a stargli dietro. Enric Mas, l'Enric Mas, quella che solitamente si vede quasi solo nei grandi giri o tutt'al più nelle brevi corse a tappe, possibilmente spagnole; a volte si dice non sia proprio un attaccante, uno scaldacuori, un aizza popolo, uno per cui ti strapperesti i capelli o spenderesti tutti i tuoi averi per vederlo correre. Ma questa sua versione in progressione vincente sul San Luca ha detto tanto. Sulla sua forma, sul suo status, sul momento di salute, volendo, del ciclismo spagnolo che fra sette giorni perderà - agonisticamente parlando - Valverde, che anche oggi arrivava lì vicino al podio chiudendo quarto, applaudito e applaudendo.
E così vince l'Enric Mas l'edizione numero centotre del Giro dell'Emilia, secondo Pogacar, e terzo Domenico Pozzovivo, semplicemente Mimmo per molti o forse per tutti pure in gruppo o tra la gente che urlava il suo nome; "Mimmo" sul quale ci sarebbero da spendere ancora parole non bastasse vederlo a 40 anni tenere la ruota di colui che è considerato uno dei corridori più forti del mondo. Se quelli lì davanti lo sono, chissà lui cos'è.


Il centro del mondo

Passato un Mondiale se ne fa un altro, e tra circa un paio di settimane, in Francia, a Montigny-le-Bretonneux, la rassegna iridata su pista occuperà le serate di metà ottobre. E l'aria di pista che si respira ha sbloccato due dei nostri corridori più interessanti, già campioni olimpici nell'inseguimento, uno ormai un veterano (fa strano dirlo, ma come dicevano i Kina "Questi anni stan correndo via. Come macchine impazzite"), Simone Consonni, che in pista è un abile cacciatore di punti e giri, intelligente uomo da Madison, tassello fondamentale del quartetto.
E quell'aria di pista che si inizia a respirare ha fatto bene a Simone Consonni, che nel pomeriggio di domenica 28 settembre, mentre la maggior parte di noi cercava di riprendersi dalla #MaratonaWollongong, si è sbloccato tornando al successo (il suo secondo in carriera) dopo quattro anni: l'ultimo fu al Giro di Slovenia del 2018.
Simone Consonni, pilotato in maniera perfetta dal suo compagno di squadra in Cofidis Piet Allegaert, ha vinto di un niente, ma di quanto basta, la Paris-Chauny. Ha vinto davanti a Groenewegen (che altri due metri e lo avrebbe superato): chissà che l'aria di quelle zone non gli stia facendo particolarmente bene.
Meritato, perché Simone Consonni lo inseguiva quel successo e non arrivava mai, perché Simone Consonni sa essere uomo squadra, ma avrebbe un talento che - parere di chi scrive - ancora non si è espresso del tutto in corse di grande livello a cui potrebbe, dovrebbe chiedere di più.
E quell'aria di Mondiale su pista che si avvicina ieri ha fatto bene a Jonathan Milan: il ciclopico corridore friulano ha conquistato la sua prima vittoria da professionista vincendo la prima tappa della CRO Race, in pratica il Giro di Croazia in sei giorni.
Pioggia battente, strade allagate, Milan ha impressionato prima per come ha tenuto in salita i migliori, poi per come ha gestito il finale decidendo quando sarebbe stato il momento giusto per affondare il colpo. SI è messo davanti al gruppo sfilacciato quando ha visto scappare Mohorič, che in discesa sotto il temporale e con l'asfalto sporco di detriti sembrava avesse accelerato su una moto, Mohorič distanziava il gruppo nel rettilineo scendendo con quella leggerezza che solo lui sa come.
Milan, noncurante di avere il suo compagno davanti, nelle ultime centinaia di metri ha fatto partire una lunghissima volata maltrattando bici e avversari, che se avessero voluto gli organizzatori avrebbero potuto anche segnare la vittoria per distacco.
Non ha esultato e mica per qualcosa: subito dopo il traguardo si è rivolto, con quella sua faccia da bambino (ma in effetti lo è, e su quel corpo gigantesco fa ancora più impressione) e ha chiesto con la massima sincerità al suo massaggiatore: "ma ho vinto, io?". Non se ne era accorto.
Poi ha dato un pugnetto contro delle barriere di protezione, si è messo le mani sul casco incredulo, non riusciva a stare fermo mentre la pioggia continuava a scendere incessantemente sul traguardo di Ludbreg, città considerata "il centro del mondo" e molto banalmente ieri il centro del mondo di Jonathan Milan.
Per Consonni e Milan la gamba in vista del mondiale sembra decisamente buona, sarà forse quell'aria di pista che si inizia a sentire nelle gambe e nella testa.


Una meraviglia che non grida: Canavese Erratico Gravel

Le terre del Canavese sono silenziose e in quel silenzio si può vedere molto a patto, però, di scoprirlo. Perché la meraviglia, lì, non urla, parla a voce bassa e bisogna ascoltare per riconoscerla. Erratico Gravel (www.erraticogravel.it) nel fine settimana del 1 e 2 ottobre, proverà a mettersi in ascolto di questa meraviglia timida: «La bicicletta è, in primis, un modo di scoprire, le sue radici sono nella scoperta: una via, un sentiero, un modo per arrivare dall'altra parte di una salita o di una discesa. Il fatto che il Canavese non sia così conosciuto fa sia che sia un luogo ideale per pedalare».
Ci spiega così Paolo Ciaberta, tra gli organizzatori di questo evento, e aggiunge qualcosa che, anche se detto a bassa voce, grida, tanto è giusto, importante: «Crediamo che ogni sentiero, ogni traccia, ogni mulattiera o strada militare di questo paese debba avere un evento ciclistico off road dedicato per permetterci di conoscerlo e poi magari tornarci o portarci gli amici».

Due giorni, tre percorsi, rispettivamente di 83, 132 e 216 chilometri. Gravel e Mtb, per il più lungo è possibile scegliere il bikepacking e percorrerlo in due giorni. «Si può andare da soli in ogni luogo e può essere avventuroso. Andarci insieme restituisce una sensazione diversa: c'è qualcuno che ti accompagna in un posto, che te lo mostra, prova a raccontarti cosa c'è in quel castello, fra quelle case, fra quei campi. Magari ti fa assaggiare un prodotto tipico e ti spiega come viene cucinato». Andare in bicicletta sui sentieri del Canavese, in quei giorni, sarà soprattutto questo.
Guardare la Serra Morenica che sembra affettata con un coltello tanto è delicata, quasi fragile, e pensare che, una volta, qui c'era il mare. Si chiama Erratico Gravel proprio in ricordo dei massi erratici, di un bacino marino, del ghiaccio. Oggi c'è la natura: laghi, campi, vegetazione folta che cambia più volte mentre si pedala. Il verbo allora diventa condividere: «Un bicchiere di Erbaluce, un vino bianco di queste zone, i torcetti, il salampatata, i formaggi della Val Chiusella o i baci di dama: in tutti i casi, dopo la fatica, si cerca un sapore, più o meno conosciuto, per ritrovare energie». Poi si parla, si ride, si scherza, davanti a un piatto di pasta, un alimento che parla di bicicletta, di sudore, di una terra e della sua storia.
L'autunno sarà appena iniziato e quei colori che cambiano, nel silenzio interrotto dal rumore delle ruote che girano e dei pedali che frullano, ricorderanno ancora una volta a tutti perché stare in sella fa stare tanto bene.