A base di Champagne
27 Luglio 2022CorseTour,Tour de Femmes
“Champagne per brindare a un incontro”, cantava Peppino di Capri. Nonostante l’allontanamento dalle capitali di questo nettare, toccate ieri, le bollicine non abbandonano la corsa, la costeggiano, come le vigne. Oggi si è festeggiato un tipo particolare di incontro, quello della Grand Boucle al femminile con i percorsi non asfaltati dei chamin de celles.
Si fa presto a dire sterrato ma, se si guarda bene, lo si può vedere con molti occhi diversi: chiedessimo a Mavi Garcia cosa sia, lo sterrato, risponderebbe che è qualcosa di simile a una condanna, una maledizione: in quattro tratti in tutto, Mavi, è riuscita a forare due volte, a essere coinvolta in due bizzarri incidenti – uno con una compagna di squadra più uno con la sua stessa ammiraglia che l’ha portata a terra. Tanta polvere mangiata e un minuto e trentuno secondi lasciati sul terreno gibboso: non ci si possono certo aspettare parole positive.
La musica cambierebbe assolutamente chiedendo cosa significhi sterrato a Marlen Reusser, vincitrice di giornata: le è riuscito, infatti, in una giornata così impestata per tante sue colleghe, di scattare a più di venti chilometri dal traguardo per arrivarci da sola e festante. Sabbia, polvere e pietre più o meno taglienti le devono essere sembrate qualcosa di molto simile alla buona ventura. Deve essersi divertita quasi quanto il pubblico sulla strada, la gente numerosissima che popolava i viottoli in mezzo ai campi. Anche per loro lo sterrato oggi deve aver assunto la forma della felicità, come per i bambini urlanti, le famiglie che banchettavano, gli agricoltori impegnati a decorare i campi con grandi coreografie, oppure come per il tifoso travestito da Babbo Natale che per una volta, invece di distribuire i regali, li aspettava dalle ragazze in corsa e li ha ricevuti, in questo strano Natale di fine luglio che è il Tour de Femmes.
Porsi questa domanda, però, significa spingersi ancora oltre, e chiedere anche a Elisa Longo Borghini cosa significhi sterrato: lei direbbe che è lavoro di squadra ben riuscito, quello che le ha permesso di concludere con le migliori nonostante una foratura, grazie al provvidenziale passaggio di bicicletta effettuato da Elisa Balsamo; aggiungerebbe anche che questi tratti così sconnessi, benedetti, maledetti, fondali di immagini indelebili, sono semplicemente “fighi!”. Non c’è niente da aggiungere, solo da concentrarsi sui festeggiamenti, naturalmente, a base di champagne.
Un sussulto di gioia
26 Luglio 2022CorseTour,Tour de Femmes,Ludwig
Un capannello di fotografi, giornalisti e membri della squadra corrono al fianco di una ciclista. Sono così tanti che dev’essere la vincitrice, ma non si capisce chi sia. Oltre al tanto pubblico, sul traguardo di Épernay anche gli addetti ai lavori sono un bel po’. Quindi c’è un bel casino, non tanto differente da quello che si vive in tanti traguardi del Giro d’Italia. Un urlo, però, si eleva sopra il trambusto: è quello della vincitrice di tappa, inconfondibile, perché è un personaggio sopra le righe e mai banale, Cecilie Ludwig.
La campionessa nazionale danese ha una maglia pulita. La croce bianca al centro, sfondo rosso, nessuno sponsor. Lo stesso vale per casco e guanti. Quando riesco a farmi spazio tra la folla, vedo Ludwig seduta per terra, esausta ed ebbra di gioia, impegnata ad abbracciare la sua massaggiatrice e a chiederle qualcosa da bere. Quando le viene passata una lattina di aranciata, ha un ulteriore sussulto di gioia: le emozioni sono così per Ludwig, una dietro l’altra. Ha appena vinto una tappa nella corsa più importante della stagione e riesce ad essere contenta anche di bersi un’aranciata.
La stappa ma non la beve nemmeno. Si porta una mano al petto, forse realizza cos’ha appena fatto. Marianne Vos è stata talmente sverniciata da aver definito le dimensioni del gap «abbastanza grandi». Si stende in posizione prona, coi gomiti tiene il busto poco alzato e solo allora sì che beve un po’. È esausta, si lascia andare completamente sull’asfalto come fosse un lettino da spiaggia. Il busto si ingrossa e si assottiglia ad ogni respiro, a occhio e croce sarà ancora oltre i centocinquanta battiti al minuto. Le dicono che deve andare sul podio ma si prende ancora qualche secondo per stare sull’asfalto: ha vinto, che problema c’è.
Mentre la danese è già sul palco, Emma Norsgaard (23 anni oggi) raggiunge alcune atlete della FDJ–Suez–Futuroscope perché portino i complimenti alla sua connazionale. Scherza sul fatto che Cecilie ha vinto nel giorno del suo compleanno e dovrebbe quantomeno dividere i premi con lei. Una massaggiatrice della FDJ tira fuori un telefono cosicché Guazzini, Le Net, Muzic e Brown possano guardare Ludwig in conferenza stampa. La vedono piangere, piangono anche loro, si abbracciano. Tutte hanno belle parole per Cecilie Ludwig: un’altra meravigliosa vincitrice di tappa in uno splendido Tour de France Femmes.
Che colpa abbiamo noi
26 Luglio 2022ApprofondimentiTour de France,Pogacar,Tour 2022,Vingegaard
Ma che colpa abbiamo noi se non siamo riusciti a capirci niente di questo Tour. 'Ché tutto girava così veloce e la media record di sempre ne è testimone. 'Ché si partiva a razzo: boom, via a cinquanta all'ora. Così, giusto per prendere la fuga e alla fine le energie per scattare ce le avevano solo un paio di corridori, un paio di corridori e mezzo, per stare larghi. E in salita la storia era fatta di resistenza e logorii da pendenza asfissiante.
Abbiamo pensato a Pogačar vincitore, facile facile, alto in sella, se fosse uno scrittore sarebbe uno di quelli in punta di penna, talmente gli viene naturale districarsi, come un serpente nella roccia, nel mestiere di ciclista.
Che colpa abbiamo noi se Vingegaard ha superato ansie e paure («quando era ragazzo vomitava prima di ogni gara» racconta sua madre e quando vinse tappa e maglia al Polonia, primo successo tra i professionisti, «mi chiamò per dire che non aveva chiuso occhio tutta la notte» parole di uno dei suoi allenatori) e ha superato pure Pogačar, che alla vigilia metteva ansia e paura, e, anzi, lo ha dominato in maniera (quasi) totale.
Sorprendente Vingegaard, che al Giro della Valle d'Aosta di qualche anno fa, quando conquistò il prologo tutto in salita, disse: «Non sono adatto alle salite lunghe». Forse soltanto la Jumbo Visma sapeva che in qualche modo sarebbe andato così forte e lo ha messo nella condizione di non bluffare. E a proposito di bluff mancati, risuonano come principio assoluto le parole di Pogačar nei primi giorni: «Vingegaard è il miglior scalatore di questo Tour».
Che colpa abbiamo noi se loro, intesi i Jumbo Visma, hanno dominato; se hanno sacrificato Roglič che ha corso dieci giorni con le vertebre fratturate e si rendeva utile - se non decisivo - alla causa, nel giorno del Granon che resterà, quando descriveremo il Tour 2022, come quello de "la crisi di Tadej Pogačar".
Pogačar si è fatto ingolosire dal connazionale rivale senza sapere che ad attenderli i loro tifosi erano gemellati al traguardo, mescolati in mezzo a migliaia di camper. Poteva stare più cauto. Si è sentito forte, ha perso. Ci ha provato dal primo giorno, non ha lesinato, benedetto talento della natura. Si è mostrato umano nella retorica della sconfitta sportiva. L'anno prossimo non si farà trovare impreparato - il resto, però, dovrà farlo la sua squadra.
Che colpa abbiamo noi se Geraint Thomas, in arte G, ha guidato splendidamente fino a Parigi, ha superato lo scetticismo - quelli del sottoscritto che stravede per lui, ma non da vederlo sul podio. Ha superato avversari più giovani di un paio di lustri, ha trasformato un banale errore nella cronometro - ha corso con lo smanicato usato nel riscaldamento - nell'occasione di dare spettacolo fuori dalla corsa creando l'hashtag #wheresGsgilet con tanto di giochino da fare a ogni tappa (un tifoso diverso al giorno avrebbe portato alla frazione successiva lo smanicato, tenendolo al sicuro fino a Parigi). Pare che grazie all'idea di Lizzie Banks la giacchetta Ineos continuerà a viaggiare anche durante il Tour femminile.
Ha superato le gerarchie e al solito non si è morso la lingua nelle interviste: «La Ineos voleva fare di me un Sepp Kuss». A 36 anni ha fatto un piccolo capolavoro simile a quello di Richie Porte un paio di anni fa.
Che colpa abbiamo noi se abbiamo sottostimato la capacità di Wout van Aert di fare ciò che vuole con il ciclismo. " il corridore più forte del mondo" come lo definisce Simone Basso; supercombattivo del Tour, maglia verde che gli sta persino stretta e avesse vinto lui a Hautacam, avrebbe potuto conquistare pure quella a pois. Ha fatto la sua corsa, quella di Vingegaard, quella di tutti gli altri del gruppo. Quando ha deciso avrebbe vinto Laporte così è andata.
Che colpa abbiamo noi se ci piace Gaudu con quella faccia da Harry Potter francese e il suo lento recuperare passo dopo passo e arrivare al 4° posto, oppure Simmons che a 21 anni e più giovane al via, nel computo delle fughe viene oscurato solo da van Aert. Che colpa abbiamo noi se di volate ce ne sono state poche, meglio così, ma buone, come l'ultima a Parigi.
Che colpa abbiamo noi se l'Italia – al maschile – fa fatica, troppa, e ci rimangono solo i segnali mandati da Dainese, Bettiol e Mozzato, promossi con lo sguardo per tutti e tre verso un finale di stagione in maglia azzurra.
Che colpa abbiamo noi se un altro Tour è andato e l'unica cosa che possiamo chiederci resta: quanto manca alla prossima Grand Départ?
Le mani di Marianne Vos
25 Luglio 2022CorseTour,Vos,Tour de Femmes
Le mani della gente. Tantissime, rumorose, che salutano, che sbattono sulle transenne della salita finale. Le mani dei gendarmi, che indicano a tutti dove andare. Le mani di Elizabeth Holden, che mostra col palmo verso il busto, per far vedere come abbia scelto uno smalto rosa e azzurro in tinta coi colori della sua squadra. Le mani della lanterne rouge Martina Alzini che proprio non ce la fanno a stare ferme durante un’intervista mattutina. Le mani di Elisa Longo Borghini, aggrappate al manubrio della sua bici mentre prova a fare la differenza verso il traguardo di Provins, su un arrivo applaudito da tantissime altre mani.
Mani che sfregano sull’asfalto ruvido delle stradine di campagna (sensazione a cui non ci si abitua mai) e mani che festeggiano una vittoria, sensazione a cui sono abituate visto che è circa la trecentesima volta.
Non è un’iperbole: Marianne Vos ha vinto un numero talmente elevato di volte, in così tante discipline, che fornire un conto esatto è difficilissimo. Questa, però, le ha consentito di vestire la maglia gialla e non è difficile crederle quando dice che, di tutte, è la più bella. È arrivata al termine di svariate azioni sagge: prima ha fatto scatenare Wiebes e Kopecky sul traguardo volante, poi ha seguito un attacco di Balsamo, con cui la campionessa del mondo ha portato via un drappello di cinque atlete, diventate sei quando Balsamo, Longo Borghini, Vos, Niewiadoma e Persico (scusate se sono nomi da poco) hanno raggiunto la fuggitiva, la giovanissima Maike van der Duin. Vos ha dovuto «tenere a mente diversi possibili scenari» per il finale, sapendo che la più veloce di tutte forse è Balsamo ma sta lavorando per l’altra Elisa, che Niewiadoma proverà ad anticipare, che Persico ha una gamba incredibile.
Le mani le stanno per scivolare dal manubrio quando mette le ruote pericolosamente vicine ad un marciapiede a bordo strada, a circa trecento metri dall’arrivo. Ma lei è Marianne Vos, figurati se non sarà lei, anche oggi, ad alzare le braccia al cielo.
Una grande classica a Parigi
24 Luglio 2022CorseTour 2022,Philipsen
È come una grande classica: i velocisti si fanno del male sulle montagne pur di arrivare qui e sfidarsi. Quando ascolti le loro interviste, e sono ancora ragazzi, ti dicono quasi sempre: «La corsa che vorrei vincere? Lo sprint sugli Champs-Élysées».
Basta poco, solo avere questo nel bagaglio tecnico: fibre da velocista, una potenza particolare da esprimere sui pedali, resistenza - ricordate le montagne di cui parlavamo prima o le medie folli di queste tre settimane? - e di conseguenza qualcosa rimasto nel serbatoio; per finire pelo sullo stomaco, tanto pelo sullo stomaco, per buttarsi in mezzo a tutto quel casino.
Guarda caso, le caratteristiche che riassumono al meglio Jasper Philipsen, a conti fatti il velocista numero uno di questo Tour. Si sente l'urlo della gente, a Parigi, tantissima gente. Su quei sanpietrini dove la bici balla, solo loro sanno come fanno a controllarla. Ci si consacra su quel rettilineo, sull'Avenue des Champs-Élysées, ma prima si brinda e si festeggia, una passerella e poi una lunga kermesse, fatta di strane idee, come quelle che hanno in testa alcuni corridori che vorrebbero rovinare la giornata a quei velocisti rimasti.
Bandiere danesi ovunque, a Parigi, gente appesa ovunque, a Parigi, per vederli passare, battaglia per la posizione e qualche fuori programma - ma nemmeno troppo. Van Aert che si concede la prima giornata libera di questo Tour e nessuno ci avrebbe scommesso, ma in queste settimane i colpi a sorpresa non sono mai mancati. Non sprinta per la maglia verde (vinta da giorni, ormai) e nemmeno all'arrivo, concedendosi il proscenio insieme ai suoi compagni di squadra, insieme a Vingegaard che, roba quasi da non crederci solo pochi mesi fa, vince il Tour de France.
L'attacco di Pogačar con Ganna a sei chilometri dall'arrivo serve solo a scaldare i cuori, a farci sussultare, la volata finale invece a stravolgerci l'umore. Vince Philipsen, oggi il miglior velocista del mondo, su un traguardo che vale una grande classica. Su un traguardo che chiude un Tour che non dimenticheremo mai.
Sui Campi Elisi
24 Luglio 2022CorseTour Femmes,Wiebes
L’importanza della giornata è riassunta in una didascalia scritta da Elisa Longo Borghini, a corredo di una foto pubblicata su Instagram con due giovani cicliste che pedalano davanti a lei: «Per loro due e per tutte le bambine che sognano di poter fare un giorno il Tour». È per le nuove generazioni che 144 cicliste hanno iniziato oggi la corsa a tappe più attesa dell’anno, il Tour de France Femmes. Ci sono tutte le migliori: Marianne Vos, Annemiek van Vleuten, Elisa Balsamo, Marta Cavalli, Lorena Wiebes. E c’è il marchio di Le Tour.
Il foglio firma e il palco della partenza hanno come sfondo la Tour Eiffel, gran parte della prima tappa è sullo stesso circuito sugli Champs-Élysées che gli uomini hanno reso celebre. È l’arrivo classico della ventunesima tappa del Tour e sembra proprio perfetto che il Tour Femmes inizi da qui quando finiscono gli uomini, in un simbolico passaggio della torcia. È considerato una sorta di Mondiale per velocisti, e non a caso tra le velociste ha vinto la sprinter pura migliore del mondo: la ventitreenne olandese Lorena Wiebes, cinquantaduesima vittoria da professionista.
In conferenza stampa, Wiebes ha parlato di questa vittoria come «un obiettivo fin dall’inizio della stagione», un dominio reso possibile dai tanti allenamenti di forza che le hanno permesso di raggiungere un picco massimo di watt inarrivabile per tutte le altre. Ha sfruttato bene il lavoro delle sue compagne, sapeva che Marianne Vos sarebbe partita presto e non si è fatta sorprendere. Sul palco ha portato una bambina piccola, ma «si tratta della figlia di un’amica. Avevamo scommesso che, se avessi vinto la prima tappa, avrei portato la sua bimba sul palco. È stato ancora più bello farlo sui Campi Elisi».
Hans, zio di Lorena, è venuto a Parigi con una maglietta speciale: Wiebes è rappresentata con la maglia di Superman, un bicipite sproporzionato e, sullo sfondo giallo, una Tour Eiffel verde. Oggi ha vestito le maglie di entrambi i colori. Quando chiedo a Hans il significato della maglia che indossa, risponde sicuro: «Beh Lorena è una Supersprinter».
Infiniti
23 Luglio 2022Corsevan Aert,Pogacar,Tour 2022,Vingegaard
Rocamadour conosce da tempo l'infinito, qualcosa che ricorda Leopardi. Per quelle case affacciate su uno sperone di granito, a picco verso la gola del fiume Alzou. Poco fa, però, l''infinito di Rocamadour è stato qualcosa di diverso.
Quello di Filippo Ganna che "sedendo e mirando interminati spazi e sovrumani silenzi" ha corso a più di cinquanta all'ora. Il paesaggio non è di un ciclista, forse solo della sua visiera che lo riflette, come un'impressione, una pennellata. Di un ciclista è, invece, il rispetto di chi guarda e aspetta, per questo Ganna, appena conclusa la prova, ha detto che gli sarebbe spiaciuto non vincere, "perché in tanti credono in Ganna, sperano in lui". Ma per loro non è cambiato nulla e Ganna resta lo stesso anche se non ha vinto.
È “il cor che per poco non si spaura" di Jonas Vingegaard che è partito così veloce da rischiare di vincere non solo il Tour de France ma anche qui, vicino al Castello di Rocamadour. Perché Pogačar è un fuoriclasse e può succedere di tutto, anche se è difficile, anche se è quasi impossibile. Il tempo, però, non si misura solo con gli orologi, si esprime in desideri, volontà, per questo è la parte più irrazionale dei numeri.
La paura in una curva, vicino alle rocce, a pochi centimetri e poi gli ultimi metri, un respiro profondo e un pianto libero, un naufragare dolce in un mare che è altrove. In un abbraccio con la famiglia.
L'infinito è soprattutto di Wout van Aert. Sono infinite le sue gambe, i suoi muscoli, la potenza sprigionata, sono infinite le sue possibilità: in salita, in pianura, a cronometro. Da solo per scelta o da solo per obbligo, ma anche nel caos, nella confusione di una volata. Poi nei "sovrumani silenzi" di una galleria in cui non vediamo nulla ma immaginiamo tutto e anche di più.
"Quell'infinito silenzio a questa voce" va comparando van Aert mentre si affaccia alle transenne, appena sa di aver vinto la cronometro, e si fa vedere dal vincitore del Tour, dal suo compagno, da Vingegaard. Gli va incontro. La sua voce e quella del danese che ora è un grido, poche parole e di nuovo silenzio. Poco dopo si commuoverà anche lui, da solo, strofinandosi gli occhi e camminando più veloce per andare via. Due volti della vittoria, che è diversa ma è anche la stessa. Costruita col tempo e la pazienza, guardata da lontano e poi vissuta da dentro.
Rocamadour conosce l'infinito mentre qualcuno guarda gli sconfitti e ne riconosce l'umanità, li applaude. Accade anche con Pogačar. Perché sono giovani, perché c'è tutto il tempo per quel che oggi è mancato. Dalle porte di quelle case, ciò che sembra infinito, talvolta, è semplicemente futuro. E se l'infinito non è per gli uomini, il futuro sì. Il futuro è anche e più che mai di un ciclista.
Guardare indietro, guardare avanti
22 Luglio 2022CorseLaporte,Tour 2022
Si parte dalla fine, non è una cronistoria. Dallo scatto a poche centinaia di metri dal traguardo di Cristophe Laporte, lì dove non batte il sole, dove la strada fa una curva e fa male perché sale leggermente; Laporte che fa il vuoto, e pensa a stamattina a quando van Aert, che guarda avanti e vede, gli fa: «Oggi corriamo per te». Si guarda indietro, Laporte, per un attimo. C'è l'affanno, le gambe imballate del gruppo. Per lui è delizia, per gli altri è horror vacui da riempire in qualche modo.
Si parte da quello scatto di Laporte che raggiunge e supera chi era rimasto per strada a intralciare l'opera; guarda indietro e poi davanti, e dà alla Francia quella gioia che mancava, quella che Pinot con le sue gambone in salita non era riuscito a regalare.
Si torna indietro a van Aert. Anche oggi fa un po' quello che gli pare e guida Vingegaard davanti sbrogliando gli enigmi di tutte quelle rotonde. Eroe di casa Jumbo Visma, van Aert, sulla bocca di tutti dopo aver portato a spasso il gruppo per venti giorni o poco più; un po' eroe anche di Francia, oggi, che se avesse voluto chissà, avrebbe potuto vincere, ma ha scelto così: lanciare verso il traguardo Laporte. «Glielo dico sempre: non hai nemmeno idea di quanto tu sia forte».
Si torna indietro, a quando Pogačar, così per sfizio, per dispetto, per gusto, per essere semplicemente Pogačar e usare il Tour de France come un parco giochi, prova un attacco e forse non sa nemmeno lui bene il motivo, se un motivo ci deve essere, oppure perché la sua centralina è sempre programmata per dare spettacolo e far parlare di lui - per la cronaca si getta in volata e chiude quinto. Per la cronaca a fine tappa lui è lì che se la gode dispensando sorrisi e complimenti a tutti.
Si torna ancora indietro alle facce dei velocisti che hanno faticato per arrivare fino a oggi, a quella di Pedersen ammalato, a Jakobsen che sfida il tempo massimo per esserci, una sfida che non è nulla rispetto a quella che ha dovuto superare: entrambi guardano avanti, ma non troppo, sognando un epilogo diverso a Parigi.
Si resta indietro a farsi domande: cosa spinge un corridore a farsi centinaia di chilometri in fuga sapendo di essere ripreso? Simmons, Mohorič, van der Hoorn e Honoré, non hanno una risposta, ma sembrano creati per stare assieme e andare avanti.
Si guarda avanti, a Wright che comunque vada esce dal Tour consapevole della sua dimensione di corridore, a Stuyven che si fa in quattro per tutti, che ha talento ed eleganza e sembra un modello in bicicletta cosparso di olio abbronzato. Entrambi arrivano a tanto così, ma bisognava fare i conti con quello che voleva van Aert.
Si guarda avanti, infine, a Philipsen che per fortuna l'altro giorno ha vinto, perché anche oggi è arrivato secondo, oppure a Dainese, che dopo il Giro cerca la consacrazione al Tour, e sì, lo possiamo dire, che bel corridore abbiamo trovato. E sì lo possiamo dire, al Tour de France 2022 non ci si annoia davvero mai.
Il paradosso di Simon Geschke
22 Luglio 2022StorieTour 2022,Cofidis,Geschke
Il paradosso di Simon Geschke è arrivare a tre Gran Premi della Montagna sui Pirenei dalla possibilità di vincere la maglia a pois, perderla, ma avere comunque il dovere - per regolamento - di indossarla fino a Parigi.
Ieri a fine tappa non teneva le lacrime. Liberato e affranto. Affaticato già sul primo strappo non riusciva a resistere ai migliori che andavano in fuga e poi, nonostante il grande lavoro della squadra sull'Aubisque, dove gli servivano i punti necessari, forse, chissà, per vincere - ricordiamo anche il salto di catena il giorno prima costatogli una manciata di punti fondamentali - si staccava definitivamente anche dal gruppo maglia gialla, capendo che non sarebbe stata più quella giornata immaginata alla vigilia.
A 36 anni, Geschke è arrivato vicino al punto più alto - almeno simbolicamente - della carriera, dopo aver vinto pochissimo, ma bene: un solo successo nel World Tour, proprio al Tour de France. Era il 2015, la tappa arrivava a Pra-Loup e lui, con la più classica delle azioni di anticipo che definiremmo "la fuga nella fuga", vinse per distacco, attaccando in un tratto di falsopiano, davanti a Talansky, Uran e Pinot.
Dopo le lacrime, ieri, ha spiegato così: «Indossarla fino a Parigi non sarà la cosa più bella, potessi scegliere correrei con la mia divisa, ma questo è il Tour e i nove giorni che ho vissuto in maglia a pois sono stati lo stesso un sogno per me».
Come quei due (ma non solo)
21 Luglio 2022CorsePogacar,Tour 2022,Vingegaard
Come la trama di un film. Come l'esaltazione di un gesto. Come la resistenza in salita.
Come gli attacchi di Pogačar: ne ha provati sei sulle inedite pendenze del Col de Spandelles. Sei volte, e Vingegaard che gli risponde senza il minimo cedimento. Stringendo i denti, protetto dalla maglia gialla e nascondendo la sua fatica dietro gli occhiali. Avremmo voluto essere le gambe di uno per provare a staccare l'altro, avremmo voluto essere i pensieri di quell'altro per stare in scia a quell'uno.
Come le nostre idee, le nostre ispirazioni, fatte a pezzi nelle ultime due ore di tappa.
Non sapere più dove guardare. Come un tifoso che si esalta al loro passaggio. Come gli avversari che venivano superati uno a uno e si giravano, quasi meravigliati, attoniti, spettatori anche loro di quello che andava in scena. Come l'azione di un rivale che, superato da quei due, rovesciava la sua borraccia sul collo di Pogačar. Come uno sparpaglio di corridori sui Pirenei.
Come Wout van Aert che attaccava al chilometro zero, andava in fuga, veniva ripreso. Attaccava di nuovo, te lo ritrovavi nell'azione decisiva persino in lotta per la maglia a pois e poi a scandire il ritmo staccando colui il quale pensavamo - a inizio Tour - nessuno riuscisse mai a staccare. E poi quel gesto, l'esultanza sul traguardo, segno di una giornata perfetta.
Come Tibopinò che ci prova sempre, non importa se quelle gambe ci sono o non ci sono, mica è una magia, è un sentimento. È una prova, una sfida. Ma non è bastato. Come Gaudu che va su in progressione e raggiunge tutti - o quasi. Come Meintjes che attacca da lontano. Come Kuss, fatto apposta per le salite, o come Quintana che resiste e ci riporta indietro di qualche anno. Come Thomas che difende il podio, a 36 anni, in un ciclismo che ha le fattezze di due bambini e la misura della velocità estrema.
Come un'asfalto ruvido o che si impenna. Come una curva infida. Come Pogačar, di nuovo, che attacca anche in discesa. Come Vingegaard che rischia di cadere per stargli dietro. Come Pogačar, di nuovo, che cade in discesa. Come Vingegaard che lo aspetta e poi si stringono la mano. Come quei due, di nuovo, dopo il traguardo che si abbracciano, stanchi ma felici.
Come questo Tour, che non dimenticheremo, come quei due (ma non solo) e i pomeriggi roventi davanti al Tour.
PS Grazie per lo spettacolo.