Anima e farfalla
28 Febbraio 2022CorseAnnemiek van Vleuten
Si rischia di essere ripetitivi quando si parla di Annemiek van Vleuten, sarà perché anche lei è ripetitiva, nel suo continuare a sorprendere, nel suo sublimare uno stato di grazia che non conosce età. Per chi scrive è semplice scrivere di van Vleuten, perché improvvisa sulla parte, quella della campionessa. Incredibile nel suo aggiungere sempre qualcosa che neppure il miglior sceneggiatore potrebbe prevedere, ma che nessun regista può mettere in discussione perché spiazza e attrae.
Non era difficile prevedere un'olandese a braccia levate sul traguardo di Ninove. Non serviva chissà che immaginazione per pensare a van Vleuten. Ci raccontano di bar delle Fiandre con lavagne in ardesia e gesso per provare a prevedere chi vince sui muri e chissà quanti hanno scritto Annemiek van Vleuten. Nemmeno era difficile pensare che avrebbe vinto dominando, ma il suo dominio è una costante che non spegne la fantasia, è la declinazione di un verbo greco che fatica a restare in mente. Di quelle parole che in greco antico vogliono dire anima e farfalla, tutto e il contrario di tutto.
Quando van Vleuten parte, al Bosberg, ha tutta l'aria di chi si è stufata delle scaramucce delle colleghe e se ne va quasi con un "adesso vi faccio vedere io come si fa". Solo Demi Vollering riesce a tenerle la ruota ed è talmente incollata a quella ruota che, se solo l'inquadratura si schiaccia, quasi scompare dietro la sagoma di van Vleuten.
Significa sfidare il tuo essere atleta stare dietro a van Vleuten, farsi bruciare dall'acido lattico. Anche perché van Vleuten non molla di un centimetro. Sono in due ma lei prosegue come fosse sola, tira, tira, tira. Qualunque materiale sottoposto a tanto sforzo esploderebbe, si lacererebbe, fosse un elastico o una fionda. Non i suoi muscoli.
Undici chilometri in testa per van Vleuten, undici chilometri a ruota per Demi Vollering. Non le chiede cambi sino all'ultimo, anche perché la faccia parla per lei, Vollering non ha la sua stessa brillantezza, non può dare cambi. Deve restare lì e tentare di superarla in volata perché è più veloce e perché, in teoria, dopo quello sforzo chiunque perderebbe. Chiunque tranne lei.
La declinazione diversa, la variante, l'anima e la farfalla assieme, sono in van Vleuten. Che all'ultimo chilometro ha la lucidità di far passare davanti Vollering, una lucidità spietata, una mente sopraffina nonostante la fatica. Si fa sfilare, sta a ruota, e poi parte. Nonostante l'ultima curva, una volata lunga, difficile, contro chi, a bocce ferme, è più veloce. Quattrocento metri per tornare a superare Vollering, per tornare davanti e vincere. Bello, senza dubbi. Crudele, senza dubbi.
Finisce così. Van Vleuten che gioisce da una parte, Vollering disperata dall'altra, a tratti accartocciata sul manubrio, consolata da chi passa. E tutti gli altri lì, a guardare, dopo troppo tempo. Il ciclismo non era mai andato via, ieri, però, è tornato. Sembra impossibile, una contraddizione, un controsenso. Non lo è. Si può dire anima e dire farfalla allo stesso tempo. Ricordatevelo.
Quel mal di gambe dalla Francia fino a Ninove
26 Febbraio 2022Corsevan Aert,Colbrelli,Omloop Het Nieuwsblad,McNulty
Intanto, per iniziare, oggi appuntamento con un bel giro mattutino in bici. Buona idea sfruttare la giornata tutto sommato fresca, ma con il sole che già verso mezzogiorno saliva quasi a picco. Poi un pranzo veloce e preparazione per un sabato ciclistico totale: divano, birra gelata, se possibile, due dispositivi accesi perché da una parte la prima gara in Belgio dell'anno (Omloop Het Nieuwsblad), sul pavé, e basta dire pavé per accendere qualcosa: quattro lettere che raccontano il fascino di questo sport; dall'altra, in Francia, la Faun-Ardèche Classic che detta così saprebbe di poco, ma misurava il polso ad Alaphilippe e Roglič, tra gli altri, su un percorso duro, quasi montagnoso, più che vallonato.
Praticamente una sfida, se avessimo sovrapposto i due schermi, tra pietristi e liegisti, tra puncheur e scalatori, tutta una serie di neologismi che inquadrano bene il ciclismo.
Torcicollo, a farci compagnia, un po' per l'esercizio in bici, gratificante per carità, perché quando arrivi a casa e ti senti le gambe indolenzite, sei soddisfatto oltremodo, questione di chimica, un po' perché non è mica facile girare la testa per un paio di ore di qua e di là: di qua Roglič e Alaphilippe attaccano a turno, di là gara lineare per un'ora abbondante e c'è il rischio di addormentarsi non fosse per l'adrenalina in corpo e per quelle punture di spillo che ti arrivano al cuore (no, il giro in bici stavolta non c'entra) dato dalle immancabili cadute.
Poi la corsa si accendeva in Belgio, finalmente, in modo naturale: muro dopo muro, le gambe fanno male, mentre in Francia McNulty partiva in progressione e tutto solo si involava verso la vittoria.
Ma torniamo nelle Fiandre, in mezzo a quelle case dove almeno una volta nella vita abbiamo pensato che sarebbe carino viverci anche solo per un giorno; tra quelle strade dove abbiamo pensato che almeno una volta nella vita ci piacerebbe pedalare. Ripartiamo dal Muur, o da qualche muro prima con Benoot che se ne fregava del mal di gambe, ma attaccava fungendo da appoggio a van Aert - quanto è mancato un corridore così lo scorso anno al belga?
Poi ecco il Muur, "abitato di Geraardsbergen" (citazione dovuta), Kapelmuur, oppure detto anche, diamo sfoggio delle nostre conoscenze: il Muro di Grammont, che più che separare i vincitori dai vinti rimescolava le carte e continuava a indurire le gambe. Infine il Bosberg. Accoppiata mitica se ce n'è una, Muur-Bosberg.
Quando van Aert partiva (sul Bosberg) dalla nostra bocca usciva un: "è fatta!", e allora per un attimo ancora uno sguardo sull'altro schermo per notare come entrambi scuotevano le spalle danzando sulla bici: l'azione di McNulty era efficace in salita, tutta gambe, quasi studiata a tavolino grazie a una condizione che da inizio stagione non sembra vacillare; l'azione di van Aert erano watt che si sfracellavano sulle pietre come quando il campione belga mostra la sua forza nel ciclocross. Van Aert andava, eccolo, "è fatta!" e lo rivedevano al traguardo.
A fine corsa la telecamera si soffermava su Mohorič e Colbrelli (2° alla prima gara stagionale, niente male, piaciuto molto sul Berendries quando si è riportato su van Aert, Pidcock, Narvaez e Benoot); Mohorič sembrava dire, allargando le braccia, "quello lì oggi era troppo forte, abbiamo fatto tutto il possibile".
Già, perché le gambe di van Aert se facevano male, facevano male appena - e comunque meno delle nostre - questa l'impressione, mentre si involava verso Ninove tutto solo e ad attenderlo moglie e figlio.
Arrivano le pietre: chi c'è c'è
25 Febbraio 2022Corsevan Aert,Classiche del Nord,Omloop Het Nieuwsblad,Pavè
«Non ci sarà Julian: questo è un gran peccato» racconta Kasper Asgreen, vincitore di Harelbeke e del Fiandre nel 2021, alla vigilia della Omloop Het Nieuwsblad. Il danese afferma di come il suo grande obiettivo sarà la Roubaix e quindi ci sarà tempo per parlarne.
E arrivano le pietre domani, così all'improvviso da non accorgersene; in Belgio il manto di erba e fango muta forma in asfalto e ciottolato. Dossi diventano muri, le bici prendono una forma ancora più aggressiva; il numero competitivo di nazioni in gara aumenta esponenzialmente anche se alla fine saranno loro, belgi soprattutto, ma anche olandesi, a voler prendere in mano il gioco che non è un gioco, rappresentati da due delle squadre più forti del circondario.
Non ci sarà Julian che sta per Alaphilippe: un annetto fa ci provò (quasi) letteralmente in ogni modo, ma rimbalzò - per modo di dire, è vero: non era il miglior Alaphilippe possibile. Indurì le gambe degli avversari spianando la strada per uno sprint di sessanta corridori che permise al compagno (di squadra, in quel senso) Davide Ballerini, brillante, veloce, talentuoso, di conquistare il successo più importante in carriera: nemmeno lui ci sarà domani ed è un gran peccato, ma è l'epoca del Covid e le starting list stanno diventando spesso un terno al lotto.
Non ci sarà Mathieu van der Poel, mamma mia quante volte ne stiamo parlando, sembra che lo mettiamo in mezzo più oggi che è assente che ieri quando era presente, ma che ci volete fare. Poi per il resto, più o meno tutti presenti, a dare spettacolo su quelle che potrebbero essere pietre polverose - previsto bel tempo e quasi calduccio, anche se molti, saremo comunque al nord, preferiranno correre con i pantaloni lunghi, considerando che diversi faranno il loro debutto dopo belle pedalate al tepore della Spagna.
Ci siamo persi, scusate: a dare spettacolo, dicevamo, più o meno tutto il resto del mondo a cui piace le pietre e capace di adattarsi in pieno a un percorso che porterà il gruppo da Gent a Ninove per 204 km. Non una passeggiata di salute di quella che faresti chiacchierando col tuo amico di gita fuori porta magnando un panino e aspirando a una buona birra fresca a fine giornata: 13 muri, nove tratti in pavè, finale che ricorda il vecchio Fiandre, quello che ai quasi quarantenni come me fa venire i brividi perché gli ricorda Bartoli: Muur più Bosberg accoppiata perfetta, e via verso il traguardo. Spazio per attaccare ce n'è, per fare la selezione ce n'è.
Squadre faro ne possiamo trovare due e appunto si torna a quel discorso Belgio vs Olanda, Quick Step contro Jumbo Visma; per diversi motivi la Quick Step (vedi l'assenza di Ballerini), potrebbe fare corsa pazza all'attacco - Štybar, Lampaert, lo stesso Asgreen, oppure Sénéchal che ama entrambe le opzioni: sia corsa dura che volata - insomma materiale ne hanno a sufficienza per sbizzarrirsi.
Curiosità per capire il nuovo corso Jumbo nelle classiche, anche se mancherà Laporte, assenza tutt'altro che da sottovalutare, ma con van Aert ci saranno Teunissen, Benoot e Van der Sande.
Favoriti tanti, outsider pure, sarà il primo assaggio del Nord e tanti elementi saranno da verificare, un nome su tutti: quello di van Aert chiaramente, mentre a noi, fra i vari, piacerebbe vedere davanti Colbrelli, anche lui all'esordio stagionale e quindi da misurare. Oppure Trentin e Covi, quest'ultimo ha dato prova di grande condizione.
Tuttavia che importa chi vince, arrivano le pietre, chi c'è c'è, non vedevamo l'ora: da qui a fine aprile ogni week end sapremo cosa fare: gustarci il meglio che il ciclismo delle corse di un giorno sa offrire, tra Belgio e Italia, con un paio di capatine in Francia e Olanda, e per distrarci un po' da tutto quello che succede.
Le uniche guerre che possiamo comprendere
Una Milano Sanremo è una guerra di trincea: tutti fermi immobili fino al momento buono. Bisogna avere pazienza, cogliere l’attimo e sperare che basti: Una volta fuori dalla trincea, o la va o la spacca.
Una Parigi Roubaix è una battaglia campale di fanteria: un gran casino di fango e sangue. Tutti contro tutti al punto di non capire più chi combatte con chi. Fino a quando cala il silenzio e dal fango emerge il vincitore.
Una cronometro è una guerra lampo: partire forte, accelerare e finire in apnea, sperando che finisca il prima possibile. Altrimenti, se non finisce presto, finisce comunque in un altro modo.
Una gara Zwift è una guerra informatica: si combatte senza mai incontrarsi di persona. Però è piuttosto efficace a tagliarti le gambe in poco tempo, molto meno di una di quelle che si combattono “dal vivo”
Una gara di ultra-cycling è una guerra di logoramento. Tutto sta a procurarsi i rifornimenti ed essere gli ultimi a finire le energie. Gli ultimi a cui vien voglia di alzare bandiera bianca.
Ecco. Queste sono le uniche guerre che capiamo. Quelle in lycra, le uniche divise che possiamo tollerare. Quelle di Goodwood le uniche fucilate che vogliamo vedere (e rivedere all’infinito). Tutto il resto, nel 2022, semplicemente non dovrebbe esistere.
Tadej Pogačar fa sembrare tutto facile
24 Febbraio 2022CorsePogacar,UAE Tour
Sembra tutto così facile. Le spalle solide quasi immobili, la bocca leggermente aperta, la maglia bianca di miglior giovane (sic), e il ciuffo che spunta dal casco più che anti-aerodinamico è un marchio. La leggerezza con la quale si prepara alle cronometro ascoltando musica, sorridendo e ballando davanti ai telefonini che lo inquadrano e poi quei video girano su internet e lui commenta divertito.
Sembra tutto facile: un po' di gas quando serve, la ruota giusta, i compagni che si sganciano a turno, oppure Almeida che appare il suo opposto: scomposto, modalità smorfia attiva, ballerino sul manubrio, lingua di fuori ad allungare il gruppo.
Sembra tutto facile perché parliamo di Pogačar che fa sembrare tutto facile, destino di quelli forti, stratagemma di chi si sente il migliore perché poi quando la strada lo richiede effettivamente lo è. Nei giorni scorsi a L'Équipe parlava di velocità, diceva di essersi divertito a guidare una Formula 3; parlava di qualità: ha pranzato con Pep Guardiola dopo aver assistito a un allenamento del Manchester City; parlava di grandi classiche: ha già vinto Liegi e Lombardia e fra poche settimane il suo obiettivo saranno Sanremo e Fiandre: niente gli è precluso anche se scaccia (al momento!) l'idea di essere il primo corridore dopo quasi mezzo secolo a vincere tutte e cinque le monumento (Van Looy, De Vlaeminck e Merckx, gli unici a compiere l'impresa).
Parlava di crescita: «Ogni anno che passa ho sempre meno margini di miglioramento: per questo voglio vincere tutto quello che posso vincere. Fisicamente mi sento esattamente (forte, questo lo aggiungiamo noi) come l'anno scorso, ma ciò che è cambiato è la mia testa: ora ho più esperienza»; parlava di momenti difficili che in bicicletta, per sua fortuna, non sono ancora arrivati: «Mi hanno chiesto come posso essere battuto e ho risposto dicendo la verità: soffro ancora le salite lunghe (e anche qui, aggiungiamo noi: forse pure il caldo eccessivo), ma la cosa peggiore che possa capitarmi è avere una brutta giornata».
Quella brutta giornata non è arrivata nemmeno oggi verso Jebel Jais, all'UAE Tour, una salita che non ruba il cuore agli appassionati, che vede qualche nome sorprendente lì davanti (Ganna, Plapp) mentre altri che non ti aspetti perdono colpi (Dumoulin, Masnada); una salita che l'Intermarché prova a spianare, dove Yates (Adam) si nasconde, in perfetto stile Yates (Adam) sperando poi di farla franca sul traguardo. Ma sul traguardo spunta Pogačar che fa sembrare tutto facile.
Prima di esultare è talmente tranquillo e fresco che sembra dire qualcosa ai suoi tecnici via radio, poi alza il braccio e sorride come sorrideva al via qualche ora prima. «Una giornata brutta prima o poi capiterà - diceva l'altro giorno - succede a tutti, ma non me ne farò un cruccio. Mi piace andare in bicicletta anche quando non vinco». Al momento siamo spiacenti, ma non esistono controprove.
Van der Poel al Giro? E all'Amstel chi ci pensa?
23 Febbraio 2022ApprofondimentiMathieu van der Poel,Giro,Amstel
Si parla, in queste ore, della possibile presenza di Mathieu van der Poel al Giro, che dire: sarebbe una notizia incredibile per noi giromani; Mathieu van der Poel come catalizzatore, come trascinatore; sarebbe senza ombra di dubbio elemento polarizzante: non ce ne vogliano gli altri corridori, ma quando si muove van der Poel, è come se ci fosse, in quell'ammasso di bici su strada, qualcosa in più.
Sarà per il suo modo di correre, sarà perché spesso e volentieri preferisce l'azzardo alla sicurezza, il rischio, calcolato fino a un certo punto: si va all'attacco per entrare nella testa di chi segue il ciclismo e per vincere in maniera mai banale; per diversi motivi immaginarci van der Poel sulle strade della Corsa Rosa ci rende euforici, lo chiamano hype. Già, soltanto dire van-der-Poel-al-Giro è un bel motivo per aumentare la voglia proprio di Giro che a un certo punto dell'anno (di solito in concomitanza con la fine delle classiche) ti prende e diventa irrefrenabile.
Van der Poel nei giorni scorsi ha ricominciato ad allenarsi: ha posticipato la sua attività a causa di noti problemi fisici; lo abbiamo visto in Spagna in un momento di tregua dopo un allenamento, con Campenaerts davanti a una frittella; non ha ancora sciolto le riserve sul suo rientro in gara, e quindi siamo ben consapevoli che in realtà non si sa se verrà al Giro. Teniamo lì in un cassetto questa bella suggestione pronta da tirare fuori più avanti in caso di conferma.
Il fatto certo è che le sue corse stanno per iniziare questo week end in Belgio e lui non ci sarà. Dopo il primo assaggio fiammingo il fine settimana successivo ci saranno la Strade Bianche e poi la Tirreno-Adriatico dove lo scorso anno van der Poel ha piazzato un paio di quei suoi timbri tutt'altro che banali, difficili da dimenticare. Ha mangiato lo strappo di Santa Caterina verso Piazza del Campo, una sgasata di cui si è parlato molto per numeri fatti segnare, per le sensazioni lasciate. Poi alla Tirreno è stata la volta de “l'azione di van der Poel a Castelfidardo" che è già diventato totem per gli appassionati, archetipo sul modo di correre senza calcoli, un po' meno per chi analizza con più freddezza le corse, perché da lì poi si dice "un'azione che lo ha sfiancato e che forse gli ha precluso brillantezza per la Sanremo". Verrebbe da dire: e chi se ne frega, van der Poel è questo e ci piace per questo. Poi quando (e se) sarà il tempo di raccontare le occasioni mancate ne parleremo.
Ci sarà un momento in cui la primavera (ciclistica) sarà quasi verso il giro di boa, ci sarà una corsa che lui ha vinto, ormai sono passati quasi 3 anni, e per certi versi è stata la prima vittoria davvero importante nella sua carriera su strada. Fu una corsa pazza, tirata, entusiasmante – qui ci vuole – davvero fino all'ultimo metro; una corsa ricca di significato per gli olandesi, che la crearono perché negli anni '60 si ritrovarono senza una grande classica da contrapporre al calendario belga, italiano e francese, loro che della bicicletta ne fanno una ragione di vita.
E se qualcuno si fosse dimenticato di quell'Amstel Gold Race vinta da van der Poel, noi vi riproponiamo il finale a questo link www.youtube.com/watch?v=Yi4opDanurU.
Volume al massimo nelle casse o se siete in ufficio nelle cuffiette per rivedere la scena sul rettilineo d'arrivo, sperando di poter assistere ad altre imprese di questo genere targate MvdP, magari perché no, pure al Giro d'Italia. Sarebbe un lusso che ci concederemmo volentieri.
Salendo come una moto
C'è un modo di dire, molto diffuso nella comunità ciclistica che viaggia a suon di chilobyte e frasi fatte su internet, usato per identificare quelle azioni particolarmente efficaci non appena la strada si impenna: "subiendo como una moto", in spagnolo, ovvero salendo come una moto. Esiste pure un sito che nel dominio riporta quel nome e al cui interno puoi trovare i dati di scalata dei corridori su diverse salite.
Domenica, ma per la verità sono un po' di giorni che lo fa, Nairo Quintana è salito come una moto verso il gran premio della montagna del Col de Saint Roch, eravamo al Tour des Alpes Maritimes e du Var, per i più nostalgici: il Tour du Haut-Var.
In due tappe Nairoman (come viene chiamato quando ci si esalta nel vederlo andare in salita) ha staccato prima in modo brutale sul Col d'Èze l'atteso Guillaume Martin, perdendo poi allo sprint da Wellens, ma poco importa, e il giorno dopo il redivivo Pinot, anzi a dire la verità, il giorno dopo ha staccato tutto il gruppo andando a vincere tappa e classifica finale. Un suo giovane collega, Harry Sweeny, ha commentato quell'azione dicendo: «Nairo Quintana mi ha fatto sentire come se io fossi ancora uno junior».
Esaltante in salita, Quintana, con quell'azione in passato ci ha fatto pensare di aver trovato uno scalatore capace di ribaltare tutto e tutti; restringendo il campo agli ultimi dieci anni a tratti lo abbiamo definito lo Scalatore. È stato raccontato in maniera poco parziale, passando dall'esaltazione al massacro; ma provando a restituire a Quintana quello che la critica gli ha tolto, accusandolo di attendismo e poca efficacia, ci chiediamo: chiamereste attendista (o poco efficace) uno scalatore puro - perché questo è - capace di vincere oltre 50 corse in carriera tra cui la classifica generale di ben 20 gare a tappe? Non sono molti nella storia del ciclismo (facciamo quello moderno e contemporaneo senza addentrarci troppo all'epoca dei nostri ormai bisnonni) a vantare numeri del genere.
Attendista o poco efficace, volessimo romanzare, non lo è mai stato, sin da quando da bambino pensavano fosse rimasto vittima del "tiento del difunto", una malattia "magica" basata sulla convinzione che la vicinanza con un morto trasformi le persone in potenziali agenti trasmittenti una serie di mali incurabili.
Si racconta di come sua madre, a pochi giorni dal parto, entrò proprio in contatto, nel suo negozio di frutta e verdura, con una signora che aveva appena subito una grave perdita. E così Nairo nacque malato, si dice fosse sempre di un colorito vicino a quello di un morto: «Secondo quello che mi hanno sempre detto i miei genitori, c’erano dei giorni in cui assomigliavo a un cadavere» raccontò Quintana a El País nel 2013.
Provarono di tutto per salvarlo, combattendo la magia con la magia; prima di rendersi protagonista in bici, fu vittima di riti che avevano lo scopo di liberarlo da quel sortilegio. Si dice che da lui sgorgasse sangue dalle feci e puzzasse come un morto; si dice di come guarì grazie alla Combitá, un infuso fatto con le radici di nove alberi diversi, un pezzo di carota bianca e una manciata della terra dove Nairo venne al mondo.
Abbiamo romanzato, e si potrebbe continuare, citando il racconto di lui che si recava a scuola in bici non per risparmiare, ma perché a casa ritenevano che il bus servisse ad altri tipi di spostamenti; e lui con quella bici: discesa ad andare e salita per tornare verso casa. Due gravi incidenti, quando era un ragazzino che aveva appena scoperto come pedalando poteva cambiare la sua vita: la seconda volta che fu investito finì in coma per cinque giorni.
Si potrebbe continuare parlando di Nairo con quella faccia da sfinge come un enigma che abbiamo provato a risolvere in tutti i modi; l'attesa invana, quei Tour che pensavamo potesse vincere, la convivenza in Movistar con Valverde che secondo lo scalatore colombiano potrebbe essergli costato il Tour 2015, quando arrivò secondo alle spalle di Froome (come nel 2013), condividendo proprio con lo spagnolo il podio finale: «Per colpa di un mio compagno di squadra - raccontò Quintana qualche anno dopo - non ho potuto conquistare quel Tour».
Un Giro e una Vuelta li ha vinti, come nessun colombiano, così come nessun colombiano, forse giusto Bernal, gode di tanta popolarità nel suo Paese. Nel 2019, un sondaggio in patria lo vedeva ancora davanti a tutti come personaggio più conosciuto, più di Bernal, che aveva appena vinto il Tour, più delle stelle della nazionale di calcio colombiana come James e Falcao e del cantante Carlos Vives.
Si potrebbe continuare e poi farla breve tornando a poche ore fa quando è partito a una trentina di chilometri dall'arrivo, salendo come una moto, staccando tutto e tutti in salita, come il più bel Quintana mai visto. Come quel Quintana che prometteva, scattava e poi si scansava per chissà quale diabolico gioco tra cervello e gambe.
Corridore un po' atipico per certi versi, imperturbabile sul rapportone, nella buona e nella cattiva sorte, a volte illeggibile, magnifico scalatore: in salita, quando in giornata, capace di andare su come una moto rendendo i suoi avversari piccoli e affannati come dei cadetti.
Se l'inizio della stagione ciclistica è quella dove è lecito sognare, non svegliateci, ma lasciateci godere una volta tanto Nairo Quintana. Lasciateci godere una volta tanto uno scalatore.
Kévin Vauquelin: un neopro sulla Montagna Verde
21 Febbraio 2022StorieVauquelin
Se nel ciclismo esistesse il premio dedicato al corridore migliorato maggiormente (una sorta di "Most Improved Player" che assegnano nell'NBA, per dire), non avremmo alcun dubbio su chi puntare dopo questo primo mesetto di gare.
È bastata una manciata di chilometri, un pugno di corse, per farci sobbalzare dalla sedia. Al Tour of Oman, infatti, negli ordini d'arrivo delle ultime tre tappe è spuntata la sagoma di un giovane francese; è spuntato il nome di Kévin Vauquelin che ricorda "Voeckler" ma solo per l'assonanza del cognome. Classe 2001, buon talento, sicuramente, ma non di certo quel corridore che una volta passato professionista lascerebbe a bocca aperta gli osservatori, eppure...
Siamo a febbraio, qualcuno avvicina questo periodo dell'anno ciclistico al calcio d'agosto, quindi verità da prendere con le pinze, menzogne da smascherare, eppure...
Eppure quel Vauquelin in cima a Green Mountain è andato forte, stupendo e stupendosi. Non conosce ancora i suoi limiti, ma come potrebbe: «Ho corso pochissimo in montagna tra i dilettanti in Francia nelle ultime stagioni: sinceramente non pensavo di riuscire a ottenere risultati del genere tra i professionisti» ha raccontato a fine gara.
Normanno di Bayeux, Vauquelin; normanno, come quelli a cui piace attaccare col vento in faccia, che hanno indole da guerrafondai, che se potessero si porterebbero dietro la bandiera da pirata, una benda sull'occhio, un coltello nella tasca. Un normanno di vento in faccia se ne intende.
Forte soprattutto a cronometro: lo scorso anno campione nazionale under 23, due anni prima stesso titolo, ma tra gli juniores. Forte sul passo, vien da sé immaginarlo, valido o qualcosa in più anche quando l'aria viene incanalata nei velodromi: le sue azioni hanno il loro perché anche sul parquet dove ha conquistato medaglie mondiali a livello giovanile, ma è il suo passo in salita che ha meravigliato. Compreso se stesso e i suoi tecnici.
Da quando ha smesso di studiare si è messo in testa seriamente di fare il ciclista e lo fa da un paio di stagioni, per lui passare professionista non è un punto d'arrivo, «ma un primo passo verso quello che potrò diventare».
Sostiene (ma sarà vero?) che la “Montagna Verde” potrebbe aver favorito il suo rapporto peso potenza, con quei tratti che parevano un'autostrada in salita, pur con pendenze in doppia cifra: «Un tipo di salita da gestire un po' come si gestisce una cronometro» ha detto proprio così. Così come non ci sono alcun dubbi sulla partenza a cannone dell'Arkéa, complice pure la lotta per una manciata di punti tra alcune squadre con lo scopo di entrare o di restare nel World Tour. A fine stagione si rinnovano le licenze.
È vero tutto quello che volete, ma la parabola di Kévin Vauquelin è una di quelle da scoprire, per capire fino a dove porterà. Non un predestinato, ma intanto, sicuramente, fra le sorprese di questo inizio 2022.
Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco...
21 Febbraio 2022StoriePozzovivo
Diciamoci la verità: Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco. Sarebbe stato anche umano, troppo umano per dirla con Nietzsche. Non sono, invece, così umane quelle undici viti e quella placca che i medici usarono per sistemargli la gamba dopo l'incidente allo Stelvio, nel 2014, quando un gatto gli attraversò la strada in allenamento. Non sono umani tutti gli incidenti che ne hanno martoriato il corpo, spesso prima dei grandi appuntamenti, talvolta all'interno degli stessi. E nonostante tutto Pozzovivo è finito per ben sei volte fra i primi dieci del Giro d'Italia, per due volte quinto. Ha vinto a Lago Laceno, quella montagna sfuggita al Pirata nel 1998.
Quando Qhubeka ha annunciato la chiusura, Domenico Pozzovivo, senza, avrebbe potuto essere stanco, a trentanove anni, di tutto ciò che era già successo. Dei momenti di paura che il ciclismo gli ha lasciato addosso: al Giro d'Italia 2015, con quel volto sbattuto a terra, quegli attimi di terrore. Solo tre anni fa quando sembrava che un'auto in allenamento avesse messo fine a tutto. Persino lo scorso anno, quando ad Ascoli, al Giro d'Italia, si è dovuto fermare perché quelle ossa, quei muscoli, ne avevano già viste troppe e una caduta lo aveva ancora messo in ginocchio.
Avrebbe potuto e invece ha continuato ad allenarsi come se la squadra l'avesse e non era sicuro di trovarla. Sapeva solo che un ciclista vuole essere libero di concludere la carriera quando decide lui, uno sberleffo dritto in faccia alla sfortuna. Tempo fa, un tifoso ci disse che amava Pozzovivo perché "non sembra un ciclista". Abbiamo capito che parlava della sua semplicità, del suo essere sempre contento o del suo mostrarsi contento per poi risolvere da solo i problemi, anche quelli che sembrano troppo grossi. Come essere senza squadra a quasi quarant'anni.
Poi è arrivata l’Intermarché e Pozzovivo era pronto. A trentanove anni potrebbe ancora prendersi sulle spalle la squadra al Giro d'Italia. Non sono promesse vane, basta aver guardato la seconda tappa della Vuelta a Andalucia, quella vinta da Alessandro Covi davanti a Miguel Ángel López e Iván Ramiro Sosa, sul primo arrivo in salita. Domenico Pozzovivo "ha la gamba" come si dice in gergo. Ottavo, ottavo dopo l'inverno che ha trascorso, ottavo sul suo terreno. Aveva sempre detto di crederci, dopo quasi ogni incidente e anche dopo essere rimasto senza squadra. Ma dirlo è anche facile. Pozzovivo lo ha fatto e ieri è stato un antipasto, il cui significato si vede bene guardando indietro, per una volta. Quando Pozzovivo avrebbe potuto essere stanco, invece non lo era. Questo è il punto.
Le paure di un ciclista
Accadono molte cose all'inizio di una discesa. Mantelline, fogli di giornale e posizioni aerodinamiche sono visibili a tutti, poi c'è quel che non si vede. Cosa pensa un ciclista mentre inizia a scendere? In gruppo dicono che, in realtà, la discesa è qualcosa di irrazionale e per questo può incutere timore. Irrazionale perché normalmente è l'uomo ad avere il controllo del mezzo, della bicicletta, in quel caso invece quel controllo è fragile. Normalmente l'uomo accelera, spinge anche a fatica per far girare quelle ruote, quei pedali, in discesa bisogna frenare per rallentare una rincorsa automatica della bicicletta. Le discese possono fare paura e serve molto lavoro per risalire la china di quel blocco, di quando il corridore frena solo, non vuole più andare avanti, ha paura di lasciarsi andare.
Pierre Latour sta facendo questo lavoro perché dopo la caduta in discesa del 2019, in allenamento, quella che gli costò la frattura di entrambi gli arti superiori, le discese sono diventate un problema. Tra l'altro, nel suo caso, il problema fu causato da una buca del manto stradale e questo essere senza controllo lo terrorizza ancor più: «Come si fa a fidarsi nel mollare i freni quando non sai cosa c'è dietro la curva?». Anche perché, in discesa, non puoi frenare di colpo e in ogni caso la frenata ha un tempo prima di bloccare il mezzo. Quando parla di discese, Latour non è più lo stesso e noi possiamo solo immaginare cosa gli si smuova dentro mentre vede video di downhill che dovrebbero aiutarlo a migliorarsi. Alla fine ha capito che la sua paura è in parte lì, sulla strada che scende e in parte altrove. Perché le cadute in discesa sono rovinose, si rischia di perdere la stagione e lui, a fine stagione, quando non ha più nulla da perdere va meglio, si sente più libero.
In TotalEnergies stanno provando a invertire il meccanismo classico attraverso cui Latour ha affrontato le discese, ovvero quello di mettersi davanti al gruppo, per fare in modo di poter frenare senza staccarsi del tutto. Negli anni scorsi, Latour aveva anche i compagni a proteggerlo in discesa perché lo spaventava anche lo spostamento d'aria causato dal passaggio di un atleta che ti sorpassa a tutta. Perché nelle paure fa tanto il ricordo del male, del dolore fisico e psicologico, e quel ricordo esaspera tutto, anche se il corridore che ti sorpassa è distante: tu lo vedi vicino, attaccato, addosso. Perdi lucidità e, alla fine, realizzi ciò che temi: o ti fermi o cadi davvero.
E gli altri? Cosa fanno gli altri? Le persone che hai vicino, lo staff, anche i compagni, forse. Da lì iniziano ad arrivare i consigli, tutti in buona fede, assolutamente. Ma è anche questa la difficoltà di un corridore, quella che, nel caso di Latour si innesca all'inizio di una discesa: «Chi ascolto? Qual è il consiglio giusto?». Ci sono regole generali, poi c'è la soggettività, ciò che è giusto per te, per la tua singola paura, per il corridore che sei.
A Calpe, negli scorsi giorni, Latour ha ripetuto varie volte la stessa discesa, con i compagni a controllare che non passassero auto e l'allenatore a "dirigerlo". Poche persone a dargli consigli, perché è meglio così. Una tranquillità simulata che gli ha permesso di essere sereno conoscendo ciò che c'era dietro la curva, che gli ha permesso di trovare calma e serenità da affiancare al ricordo negativo e poi di passare oltre. Già, perché sarà questo il prossimo passo: evitare di anticipare il plotone in testa, stare lì in mezzo, correndo anche il rischio, sentendo anche la paura, evitando però di tirare i freni perché non è vero che un ciclista non può avere paura delle discese. È, però, vero che un ciclista non può permettersi di non affrontare discese e da quando prende coscienza della paura ha il dovere di lavorarci. Per arrivare a valle.
C'è anche questo in un ciclista in vetta a una montagna, c'è anche questo nella posizione di un ciclista mentre si butta in discesa. Ci si può chiedere quale paura o quale coraggio lo porti lì, perché in lui ci sono le paure di un corridore, di ogni corridore.