Julian Alaphilippe, il gusto del ciclismo
1 Dicembre 2021StorieAlaphilippe
Quando pedala, Julian Alaphilippe cerca il piacere. L’ha sempre cercato e, nel tempo, ha capito dove trovarlo. Ben oltre il programma di allenamenti e gare, rigido e dettagliato, predisposto dalla squadra, che si ripete di giorno in giorno, di anno in anno: «Faccio le stesse cose ogni giorno e questo, alla fine, non ti procura piacere. Il piacere - ha raccontato a Vélo Magazine - lo ricerco nelle cose semplici: una pedalata da solo, un bel ricordo, un traguardo da raggiungere».
È stata una scoperta per il due volte Campione del Mondo perché Julian non è sempre stato così. All’inizio pensava solo a migliorarsi, a nuove vittorie sempre più importanti. Quell’indole gli ha permesso di essere il corridore che è oggi, ma adesso basta. Continua a mettere il medesimo impegno, ma si scrolla dalle spalle la pressione dell’essere sempre il migliore e così, sollevato, ammette: «Alla fine, è vero, la salute è l’unica cosa che conta, il resto passa in secondo piano».
Sì, perché quell’indole rischia di far commettere errori, di metterti fretta, costringendoti a forzare i tempi per rientrare da un infortunio, di farti male. Da questo, si è salvato perché ottimista di natura e perché il ciclismo gli ha insegnato la pazienza: «I momenti brutti sono molti di più di quelli belli. Ma basta un momento bello per fartene sopportare molti brutti. Per giorni come quello di Lovanio, al Campionato del Mondo, si può sopportare molto».
Ha avuto timore di lasciare quella maglia, una sorta di malinconia, di nostalgia anticipata e se ci ripensa rivede gli errori che ha fatto con quella maglia addosso. Per esempio, nello sprint perso con van Aert al Giro di Gran Bretagna, per la fretta di vincere con la maglia iridata sulle spalle. Da quei momenti si impara e la lezione è l’unica cosa che deve restare perché, vada come vada, l’atleta ha il dovere di ripartire da zero, eliminando le giustificazioni ma anche la tentazione di assaporare i successi, sedendosi sugli allori. Da un lato la caduta al Fiandre 2020, dall’altro le vittorie al Tour de France o alla Freccia Vallone.
Non vuole confronti fra le stagioni passate, perché non hanno senso e perché ogni anno è diverso. La costante è il coraggio di fare scelte anche difficili: «Non è stato facile non partecipare ai Giochi Olimpici dopo il Tour, ma non sarei stato in forma per il Mondiale se fossi andato in Giappone. Devi porti un traguardo e mentalizzarti su quello».
La nascita di Nino, suo figlio, gli ha cambiato la vita «come cambia la vita a chiunque la nascita di un bambino», la perdita del padre è un forte dolore da sciogliere nel tempo. Il francese tiene ai ricordi e dice che un buon ricordo vale quasi quanto una vittoria. Per il 2022, Alaphilippe punterà alle gare delle Ardenne e lo farà con la lucidità di chi sa ciò che può fare, sacrificherà il Fiandre per la Liegi: essere in forma per entrambe è molto difficile. Con quella maglia proverà semplicemente a vivere ciò che gli accade, ad assaporarlo, con ancor più voglia di vincere e meno paura di perdere.
Ciclocross, cos'altro?
30 Novembre 2021CorseCiclocross,Iserbyt,Aerts
Abituati a tenere monitorati quei tre lì, segnandoci sul calendario il giorno del loro ritorno in gara, stiamo forse facendo passare sottotraccia le cose interessanti che sta regalando il ciclocross in queste settimane.
Ieri Besançon, per una volta Francia e non Belgio e Olanda, non è stata da meno, anzi. Il canovaccio era quello tipico di una tipica domenica di fine autunno; giornate che a noi comuni mortali ci tengono inchiodati sul divano: freddo e pioggia fuori, e a uscire di casa non se ne parla.
Toon Aerts ed Eli Iserbyt, invece, esseri umani uguali, ma così differenti da noi e tra loro, e soprattutto con una missione differente, loro sì erano fuori casa a darsele, scrivendo un altro capitolo dei loro duelli ridleyscottiani.
Proprio come nell'opera in questione, due strutture agli antipodi: Iserbyt piccolo e agile, Aerts lungo e potente. Un tratto li accomuna: la grinta.
Ieri a Besançon, in mezzo a tutto quel fango, con un sacco di gente a incitare (e parola di Iserbyt «A emozionare i corridori») su un tracciato tecnico e reso ancora più complesso dalle condizioni meteo, hanno inscenato una sfida spettacolare che inizialmente sembrava dovesse favorire il lungagnone (più a suo agio su un tracciato inscurito dalla pioggia) in confronto al piccoletto (che spesso non ama condizioni estreme).
A un certo punto, però, si era all'incirca al 51' di gara, ormai verso la conclusione, Aerts allungava e sembrava farlo in maniera definitiva, ma una leggera discesa e poi una curva insidiosa gli mostravano il conto.
Aerts, disarcionato dalla sua bici incastrata e impazzita in mezzo alle canalette create dal passaggio delle ruote sul fango, risaliva senza poter più colmare il gap che riusciva a scavare Iserbyt, arrivato lordo di fango e vittorioso al traguardo.
Ma ciò che ci premeva sottolineare in questo lunedì mattina non è tanto il risultato, ma è il fatto di aver visto Aerts, una volta superata la linea d'arrivo, francamente distrutto e deluso, scendere dal suo mezzo, avvicinare le transenne, mescolarsi tra il pubblico che lo guardava incredulo e incitare chi arrivava dopo di lui, in particolare il giovane compagno di squadra Ronhaar, campione del mondo under 23 e al primo podio in carriera tra gli élite (e terzo più giovane di sempre, indovinate chi sono i primi due?).
Quella qui in fondo al testo è una delle immagini dell'anno. Senza dubbio. Quello che abbiamo visto è ciclocross, cos'altro?
L'empatia di un direttore sportivo: intervista a Enrico Gasparotto
30 Novembre 2021ApprofondimentiEnrico Gasparotto
«Come atleti si è abituati a considerare la propria prova ed il proprio interesse, un direttore sportivo ha un quadro più ampio da considerare. Essere bilanciati è fondamentale; la prima prova per me sarà proprio l’acquisizione di questa capacità». Non è passato molto tempo dal suo annuncio fra i direttori sportivi della Bora-Hansgrohe per la prossima stagione ed Enrico Gasparotto riflette ogni giorno su quello che sarà il suo compito. L’esperienza fra le squadre Continental è importante ma nel World Tour cambia quasi tutto. «Se dovessi riuscire a instaurare il clima di armonia a cui punto fra tutto lo staff, i corridori e me stesso, umanamente sarei già contento. Quando ti ritrovi a prendere decisioni, ad essere l’unico responsabile di venti persone durante le trasferte, non puoi fare tutti felici ma questo è il prezzo del decidere. Devi, però, fare in modo che ciò non influisca sull’armonia e la serenità del gruppo». In quest’ottica il ragionamento va a toccare un meccanismo che in realtà riguarda anche la vita di tutti i giorni.
«Tutti vogliamo vincere, essere i migliori e ottenere risultati, il punto è che siamo inseriti in un’organizzazione e ciò comporta anche delle rinunce personali a favore del gruppo. Il cammino di un ragazzo, giovane e meno giovane, verso il successo deve passare da qui. Bisogna sapere che la rinuncia personale a favore del gruppo è fondamentale talvolta. L’egoismo non fa bene». Gasparotto sorride e ripensa al corridore che è stato, alle scelte che ha fatto e alla sua indole. «Io questi errori li ho fatti. Ero un testardo, spesso concentrato sui miei risultati e basta. Ho sbagliato diverse volte e, forse, anche per questo sono la persona giusta per parlare di questo ai ragazzi. Con alcuni mi scontrerò di sicuro perché capire queste cose, da giovani, in un ambiente di alto livello e dalle forti ambizioni personali è difficile».
Enrico Gasparotto è consapevole dei propri errori ma è altrettanto consapevole che ha avuto la fortuna e il tempo per comprenderli e magari porvi rimedio. «Col ciclismo di oggi quel tempo non c’è più, vorrei lo capissero questo i ragazzi. La velocità del mondo di oggi è tale per cui è sempre più difficile porre rimedio agli errori. Certe cose vanno capite subito, altrimenti è tardi». Se ha accettato l’incarico in Bora è stato anche perché si è parlato del tempo: «Sono sempre meno gli ambienti in cui si comprende che dopo i cambiamenti serve tempo per fare in modo che tutto funzioni. Bisogna lavorare sodo, ma anche concedersi il tempo che serve».
La parola chiave è fiducia, qualcosa per cui si lavora già da adesso. Gasparotto sta andando a casa dei vari ragazzi che non conosce o che conosce poco, per parlare e, soprattutto, per ascoltare. «Credo che nella vita riesca bene chi ha la capacità di ascoltare tutti. È difficile perché basta poco, una giornata storta, per dimenticarsi di ascoltare gli altri. Se non ascolti, non conosci e se non conosci non puoi capire». Già perché a casa dei ragazzi non si parla solo di ciclismo: qualunque esperienza personale, qualunque problema degli anni trascorsi può influire su ciò che sarà e Gasparotto ha necessità di capire tutto questo.
«Si tende a ridurre tutto a numeri e i numeri sono importanti, però un direttore sportivo ha necessità di conoscere gli uomini che ha di fronte. Di essere loro amico, nel rispetto dei ruoli. In questo senso basta guardare Davide Bramati: i successi che ottiene sono spesso frutto dell’empatia che instaura. Abbiamo suddiviso la squadra in vari gruppi con cui ciascun direttore sportivo lavorerà, in modo da intensificare questa conoscenza, questo rapporto». Lo stress e la tensione saranno l’altra chiave di volta, saperli affrontare la possibile soluzione del problema. «Essere un corridore che ha smesso da poco può essere un vantaggio o uno svantaggio. Anche qui dovrò essere bravo a pesare le cose: se non riuscirò a togliermi la veste da corridore per indossare quella da direttore sportivo, sarà un problema. Se la veste da direttore sportivo mi farà scordare ciò che si prova da corridori sarà un problema altrettanto grosso».
Appena ha saputo del proprio incarico ha parlato con Bramati e con Franco Cattai, colui che l’ha messo in bici e che in dialetto veneto gli ha insegnato ciò che oggi sa. In Bora sarà a stretto contatto con Rolf Aldag, professionista che stima e con cui si confronta abitualmente, però il fatto di trovarsi in un ambiente nuovo, in cui molti non lo conoscono è uno stimolo in più: «Dove nessuno ti conosce, sai che sarai valutato per ciò che farai e non per ciò che hai fatto. È difficile perché riparti da capo e hai tutto da dimostrare. Da atleta ho cambiato molte squadre e mi è successo spesso. La crescita passa da lì, non puoi migliorare se non sei disposto a lasciare da parte un poco di tranquillità e di comfort».
Messico e fango (ma non solo)
28 Novembre 2021StorieCiclocross
Prologo: un ragazzo in divisa nera attraversa un vialetto infangato in sella alla sua bici. È autunno, ormai, ed è da quasi un anno lontano migliaia di chilometri da casa. Lontano per coltivare una passione, la bicicletta; per divertirsi sì, guai altrimenti, ma anche per cercare di farne qualcosa in più che una semplice serie di gare con gli amici con i quali ha attraversato l'oceano, o restare a bocca aperta mentre di fianco passano i migliori corridori del vecchio continente.
Il ragazzo pedala senza infrangere alcuna regola della sua realtà, pur mescolandosi con la fantasia. Guarda verso l'orizzonte e sogna di diventare un professionista.
Attorno a lui è iniziato il fogliaggio. Macchie rosse, gialli e arancioni incorniciano la scena belga, di un belga fiammingo, diremmo per enfatizzare e colorire. Arriva in cima a una breve salitella dopo aver provato e riprovato curve insidiose; dopo aver tentato e ritentato a saltare gli ostacoli, dopo essere scivolato un paio di volte portandosi l'ingombro della bici sulle spalle. Ha guanti pesanti, le labbra gonfie per il freddo, si scrolla di dosso la fatica pensando all'indomani. Tutto è attesa per il giorno della gara.
I fatti: Gli appassionati di ciclocross saranno sicuramente rimasti incuriositi quando, un po' di tempo fa, hanno visto alcuni ragazzi messicani prendere il via a gare internazionali del calendario italiano. Figuratevi averli visti a Tabor, Repubblica Ceca, e poi a Koksijde, Belgio, per la Coppa del Mondo, e a Merksplas, sempre Belgio, quarta prova stagionale del Superprestige.
A Tabor una data simbolo: il 14 novembre infatti è stata la prima volta per un team e per atleti messicani nella storia di questa disciplina.
L'internazionalizzazione del ciclismo appare scontata ormai quando parliamo di strada, e di pista, quella del ciclocross decisamente meno, in un mondo, quello del fango, che attualmente per numeri e qualità è dominato dalla lingua neerlandese con inserimenti britannici, che fanno sistema, mentre la presenza di Blanka Vas ad esempio, ungherese, più che figlia di un movimento in fermento o che investe, è molto più semplicemente talento.
Il progetto della A.R. Monex, la squadra di cui parliamo, che ha avuto per lungo periodo base sul Monte Titano, San Marino, prevedeva esperienza da fare in Europa al cospetto dei più grandi, come ha raccontato il team manager della squadra Alejandro Rodriguez: «I nostri corridori volevano capire a che livello sono e adesso sanno quanta strada c'è da fare, di sicuro si portano dietro un bagaglio di esperienza incredibile». Un'esperienza che è partita già all'inizio del 2021: i ragazzi della A.R. Monex infatti hanno preso parte a diverse prove di mountain bike, con gettoni in Coppa del Mondo, e pure su strada si sono fatti notare e persino con buoni risultati sia tra gli Under 23 che tra gli juniores.
Dunque non è solo folclore, anzi, mentre è forte la curiosità nel vedere el tricolor messicano e quelle maglie nere con le bandine celesti sulle maniche.
Tra questi corridori c'è Isaac Del Toro, che nelle sue esperienze nel CX ha persino vinto a novembre una gara del calendario italiano, il Trofeo Bikeland Ciclocross a Città di Castello. Ha collezionato un 20° posto a Brugherio e un 22° posto al Trofeo Guerciotti: per nulla male considerata anche la giovanissima età: 18 anni compiuti nei giorni scorsi. 37° a Tabor, in Belgio, Isaac, sempre il migliore dei suoi, ha ottenuto un 40° posto nel Superprestige di Merksplas e un 41° a Koksijde in Coppa del mondo, misurandosi nella categoria élite con il meglio in circolazione.
Ora torneranno a casa, «L'obiettivo è crescere - racconta sempre Rodriguez - e chissà, magari un giorno diventare delle star del ciclismo in Messico e motivare così altri giovani a conoscere questa grande, meravigliosa e durissima disciplina».
Hanno un hashtag - #LoVamosALograr - ovvero ce la faremo, banale, volendo, ma così importante per loro. Come primo approccio ce l'hanno fatta, l'obiettivo è quello di diventare sempre più forti, magari trovare un contratto tra i grandi in Europa, e fosse possibile far parlare di sé.
Epilogo: la stagione per loro si chiude. Il ragazzo carica la sua bici nel pulmino e chiude gli occhi mentre rientra a casa ripensando all'autunno belga, al fango che gli ricopriva occhi e bocca. A quei mostri sacri del ciclocross. E in fondo a quel viale un tramestio di biciclette e freni. Il suono del ciclismo.
L'impegno per l'ambiente di Michael "Rusty" Woods
Michael Woods da ragazzo correva a piedi, non è nato sportivamente nel ciclismo e forse proprio questo gli ha sempre reso evidenti problemi che a occhi abituati all'ambiente possono sfuggire. Il canadese dell'Israel Start-Up Nation si chiede da tempo se davvero non si possa far nulla per ridurre l'inquinamento che il ciclismo professionistico genera. «Sono sempre stato disilluso su questo tema, sono sincero. Ogni anno riceviamo tanti prodotti dagli sponsor, tutti imballati nella plastica: bisogna cambiare» ha detto a Procycling. Woods ha deciso che si presenterà sul bus della sua squadra con una scodella e una forchetta e i suoi pranzi li farà così. Qualche giovane lo stimerà, altri lo prenderanno in giro, a lui non interessa. Chi vuole cambiare deve avere il coraggio di disinteressarsi di queste cose. La squadra gli ha assicurato che anche i veicoli cambieranno: due saranno elettrici, i restanti ibridi plug-in.
L'idea è quella di ridurre l'impatto che ogni uomo ha sull'ambiente. Woods è un ciclista e può cercare di cambiare il ciclismo, ad altri, ognuno nella propria professione, il tentativo di portare avanti questa idea. Nessuno può cambiare da solo la situazione globale, ognuno, però, può cambiare la propria e non è poco. Secondo il suo calcolo, nel 2019, la sua impronta a livello di carbonio è stata di 60 tonnellate di CO2 , circa tre volte quella di una persona media ad Andorra. «Quando sei completamente concentrato sulla tua attività è difficile rendersene conto, lo capisco bene. Da quando sono diventato padre, però, la mia consapevolezza dell'ambiente è cresciuta. Tutti dovremmo rifletterci perché ridurre il proprio impatto ambientale dovrebbe rientrare nella normalità delle cose, non rappresentare un gesto straordinario».
Con il ciclismo Woods ha ragionato in maniera diversa, rispetto a quanto aveva fatto da ragazzo con la corsa. Da ragazzino si era dedicato anima e corpo al mezzofondo, per migliorare e tentare di entrare nell’Olimpo dei più forti, una ‘ossessione’ che aveva finito per logorarlo fisicamente, procurandogli due fratture da sovraccarico al piede sinistro, che lo avevano costretto a cambiare sport. Col ciclismo ha sempre ragionato diversamente. A trentacinque anni, dopo otto anni di professionismo, si è domandato se nella sua carriera avrebbe potuto ottenere di più; forse sì o forse sarebbe scoppiato e, come con la corsa, avrebbe dovuto abbandonare il ciclismo. «Non siamo tutti Michael Jordan. Lui era il migliore, un fenomeno. Pensava solo al basket, viveva per il basket. C'è chi è capace di vivere così e chi ha bisogno di un altro approccio. Non c'è nulla di male» ha raccontato, più di una volta. Ci saranno un paio di gare in meno nel suo palmarès ma è felice e questo gli basta. Con quella serenità, vorrebbe stare in gruppo almeno altri tre anni. Nel frattempo, la sua famiglia continuerà a viaggiare con lui, a imparare le lingue, a vedere il mondo e quindi a conoscerlo.
In fondo, è sempre questione di conoscenza per la propria carriera come per l'ambiente. Michael Woods stesso non sapeva molte cose, era convinto di avere uno stile di vita buono, si sentiva tranquillo con la sua coscienza. Poi ha capito che si poteva migliorare e che, in fondo, non serviva neanche molto: mangiare meno carne, fare attenzione ai rifiuti, comprare prodotti locali e magari andare ad acquistarli in bicicletta. Perché, tra le tante cose, questa è da conoscere assolutamente: il mondo si cambia solo passo dopo passo.
Un lavoro a lungo termine: intervista a Daniele Pontoni
26 Novembre 2021ApprofondimentiCiclocross,Daniele Pontoni
Accostare il nome di Daniele Pontoni al ciclocross, in Italia, ma non solo, è operazione semplice, quasi istintiva. Da corridore: due campionati del mondo (uno tra i dilettanti e uno tra gli élite), due classifiche finali del Superprestige, una Coppa del Mondo e diverse corse di spessore in giro per l’Europa nel palmarès, hanno fatto di lui, per anni, uno dei nomi di vertice della specialità e sicuramente il più forte crossista italiano insieme a Renato Longo.
Corridore tecnico e grintoso, da pochi mesi, dopo aver fondato tempo fa, e poi seguito da vicino fino allo scorso anno il Team DP66, cercando di dare continuità a quella che è stata la sua vita in sella a una bici tra le brughiere di tutta Europa, apportando consapevolezza al movimento e insegnando i segreti di questa disciplina a ragazzi e ragazze, è stato scelto dalla Federciclismo come nuovo Commissario Tecnico della nazionale di Ciclocross: l'obiettivo è portare in maglia azzurra nuove idee e l'esperienza maturata negli anni, dando uno sguardo diverso rispetto al passato e verso il futuro della disciplina.
Racconta, Pontoni, di sentirsi «motivato per questo incarico, complesso, ma incredibilmente stimolante». La sua nomina è arrivata a fine giugno e dopo qualche mese è diventato effettivamente operativo.
Nuovo corso, nuove idee: rispetto al passato, quali cambiamenti stai portando?
Il nostro è un progetto a lungo termine che mira a salvaguardare le categorie giovanili, confrontandoci con le società, i nostri primi interlocutori, e con i comitati regionali. C'è da comprendere, però, che questo non si può fare tutto in pochi mesi; siamo a lavoro da agosto, circa, e stiamo cercando di tamponare il più possibile in questo inizio di stagione apportando i primi cambiamenti ma in maniera graduale. Tuttavia con i ragazzi, così come con direttori sportivi e team manager, c'è un dialogo costante: questo ci permette di essere avanti con il lavoro.
E poi, più che rispetto al passato, posso dirti qual è il mio modo: porto nel ciclocross, a livello tecnico, quella che è stata la mia esperienza: ciò che ho imparato sui campi di gara prima e gestendo una squadra poi. In sinergia con la Federazione arrivano le idee: intanto cercherò di lavorare di più sulle categorie giovanili, puntando anche sugli allievi; stiamo organizzando dei mini-ritiri dove vengono chiamati ragazzi delle categorie giovanili. Questo se vogliamo è un po' una rottura con il passato.
Hai anche uno staff di qualità a supporto. E sarete strutturati in un modo, permettimi di dirlo, più internazionale.
Uno dei punti emersi sin dai primi incontri è l'idea di strutturare la nazionale come fosse un team del World Tour. Tecnici e atleti saranno affiancati da esperti nel campo della scienza, dell'alimentazione, del supporto psicologico. Perché oggi fare ciclocross non è soltanto pedalare, ma c'è altro. Ti faccio un paio di nomi: avremo Borgia per la parte psicologica, Bragato per i test atletici, ovvero eccellenze assolute.
Come ci si interfaccia, in Italia, con l'attività su strada e con le varie squadre, visto che poi la strada, da noi, fagocita tutto.
Abbiamo iniziato a parlare anche con direttori sportivi e preparatori di corridori professionisti, ma arrivando a fine stagione per loro non è facile preparare il nuovo anno di cross perché è già tutto programmato per la loro stagione su strada.
Per le categorie giovanili è più semplice perché ce li troviamo ogni domenica in gara. Il programma della Nazionale è comunque un bel programma fitto: undici trasferte tra Coppa del Mondo, Europeo e Mondiale. Come primo anno è una partecipazione molto soddisfacente, ma dobbiamo fare un passo alla volta: teniamo presente come le categorie giovanili negli ultimi due anni hanno corso pochissimo, a volte quasi niente.
Quindi ci sarà una sinergia anche con squadre e corridori professionisti?
L'idea è quella. Per il mio settore sarebbe importante che qualche atleta venga anche nel ciclocross, una disciplina che sforna atleti e li manda poi a correre su strada: il problema è che è un rapporto unilaterale in quanto da noi non rientra più nessuno. Visto quello che succede anche con van Aert, van der Poel e Pidcock, ma non sono gli unici, sarebbe un vantaggio per tutte e due le discipline. Noi intanto abbiamo messo quattro, cinque atleti nel mirino, speriamo almeno di averne due, sono nomi importanti quelli che ho in mente che se accettassero darebbero inizio a un lavoro fondamentale, diverso, a una linea da perseguire in futuro che farebbe bene sia al ciclocross che alla strada.
Dal punto di vista del sistema, dell'organizzazione e degli investimenti, quali difficoltà ci sono in Italia non dico rispetto a Paesi come Olanda e Belgio, ma più che altro a nazioni emergenti come la Gran Bretagna.
La cultura e i numeri non sono paragonabili ovviamente con Belgio e Olanda. Noi partiamo adesso e partiamo da zero. Tu citi bene la Gran Bretagna: nazione emergente ma che è partita con il suo programma una decina di anni fa e ci ha messo un po' di tempo per arrivare al punto dove si trova ora, e lo ha fatto con idee, con il lavoro e con strutture messe a disposizione dalla Federazione. Ecco questo è quello che abbiamo in mente anche noi: strutture che la Federciclismo ci metterà a disposizione, idee che ti ho annunciato, altre che svilupperemo nel tempo: un po' alla volta e a lungo termine questo ci permetterà di pensare in grande per il futuro.
A livello organizzativo questa crescita si è già intravista, dopo l'Europeo 2019, fra pochi giorni ci sarà una prova di Coppa del Mondo in Val di Sole.
La gara in Val di Sole sarà soprattutto uno spot importante per tutto il movimento a livello globale (anche se purtroppo giorno dopo giorno arrivano importanti defezioni tra diversi nomi di punta NdA) e poi l'idea interessante è quella di far correre con la neve che se non ci sarà verrà sparata artificialmente. L'obiettivo è capire (e far vedere) se un domani il ciclocross potrà diventare uno sport olimpico. Perché eventualmente questo potrà fare tutta la differenza del mondo sotto tanti aspetti, di investimenti e visibilità.
Quali argomenti si usano per convincere una famiglia e un ragazzo a scegliere il ciclocross, in Italia?
Sicurezza, innanzitutto: corriamo sempre in luoghi sicuri e “al chiuso”: parchi, campi, sterrati dove è molto più semplice non trovare traffico. Però ora scelgono da soli senza tante argomentazioni: la bici in strada è pericolosa. Se io avessi dei figli ci penserei su prima di fargli fare attività su strada, inutile girarci attorno. E poi l'aspetto tecnico e formativo del cx: è una base importante anche per chi corre su strada.
L'UCI nel frattempo spinge sempre di più nel promuovere eventi Gravel. Ci sarà persino un mondiale.
Vediamo come saranno le norme, ora è in fase embrionale. Io, però, credo che possa andare a braccetto con la nostra disciplina e si potrebbero fare anche tante cose interessanti assieme. C'è da capire come l'UCI svilupperà idee e regole. Siamo solo all'inizio.
Parliamo un po' invece di questo inizio di stagione: podio europeo di Paletti e poi podio in Coppa del Mondo di Venturelli sono già i primi segnali del vostro lavoro?
È troppo presto per dirlo. Noi sicuramente abbiamo portato una sferzata di novità; li supportiamo in ogni cosa e a chi arriva in Nazionale non gli manca niente. Ci interfacciamo con loro, con le loro squadre, per fare un programma condiviso per arrivare al meglio agli appuntamenti clou. Per esempio appena sono stato nominato, quando c'era il Giro d'Italia femminile, le ragazze sapevano già dove sarebbero andate a correre in autunno. La programmazione è fondamentale.
Abbiamo visto finalmente ottimi segnali da parte di Toneatti, corridore che oltre al ciclocross potrebbe dire la sua anche su strada: emblematico il fatto che da febbraio correrà con l'Astana Development.
Negli Usa è andato forte, purtroppo all'Europeo è mancato nel momento clou, ma è giovane e ci sta. Poi ci sono anche Bertolini e Dorigoni, tra gli élite, e anche loro, rispetto al passato, non navigano più nelle retrovie, anzi. A Tabor sono finiti entrambi nei 10: un gran risultato da sottolineare. E Dorigoni è andato molto bene anche all'Europeo. Il livello delle corse è alto e ciò che stanno facendo non è scontato. Poi sicuramente interessanti Paletti tra gli junior e Venturelli che citavi prima, ma anche Corvi, ma sarei ingiusto a nominare qualcuno sì e altri no. Ma vorrei dire una cosa: c'è tanto materiale su cui lavorare, soprattutto tra i giovani, anche tra quelli che sono passati ora allievi. Io sono convinto che verranno fuori ragazzi su cui investire e che in futuro ci daranno grosse soddisfazioni.
Tra i nostri migliori talenti c'è Lorenzo Masciarelli, famiglia di corridori di un certo spessore, da un po' di tempo vive e corre in Belgio seguito da uno dei tuoi grandi rivali, Mario de Clercq.
È partito bene, poi purtroppo un guaio fisico lo ha rallentato: quando non sei al 100% nessuno ti regala nulla e a quell'età fai ancora più fatica. E poi attenzione al contesto: parliamo di un corridore giovanissimo: quando siamo andati a correre negli Stati Uniti qualche mese fa era ancora minorenne e ha disputato la gara tra gli élite difendendosi bene (28° nella prova vinta da Quinten Hermans NdA) contro corridori di spessore e esperienza.
Quali ambizioni possono avere in stagione Lechner, Realini e Arzuffi.
Realini tra le Under 23 può togliersi belle soddisfazioni. È sempre lì in zona podio ora e dopo un periodo di stacco spero che possa riprendere la brillantezza che aveva al Giro d'Italia femminile e negli Stati Uniti. Lechner e Arzuffi le conosciamo: da anni tengono alto il nome della nazionale. Ma c'è un altro nome che vorrei sottolineare.
Prego.
Silvia Persico. Sta arrivando. E quando imparerà un po' meglio la tecnica, quando imparerà a districarsi ancora meglio nelle difficoltà – cosa tra l'altro che sta già avvenendo – sarà una gran bella freccia al nostro arco.
Il Mondiale élite lo hai visto da vicino, sarà un affare tra i "soliti tre" - qualora saranno presenti tutti - o c'è spazio per l'inserimento di qualcuno?
Partiamo da una premessa, banale ma dovuta: loro tre li abbiamo lasciati come corridori superiori non di un gradino, ma almeno di tre gradini, rispetto alla concorrenza. Credo che rientreranno così e quindi sarà dura per gli altri. Poi vedremo. Il percorso del Mondiale lo abbiamo visto, sia con la pioggia che con il sole fa male, è molto impegnativo. Come Tabor: sembra che non sia dura, ma in realtà per un atleta è una delle gare impegnative: non hai un attimo di respiro.
E Iserbyt riuscirà prima o poi a batterli tutti e tre?
Ogni tanto David sconfigge Golia. A me i corridori piccolini piacciono, i lottatori, i grintosi: lui incarna bene questo spirito, è uno che non si dà mai per vinto. E poi c'è un altro corridore su cui spenderei due parole: van der Haar, fresco di titolo conquistato al Campionato Europeo. La gara però che ha vinto a Tabor per me è emblematica. Dico a tutti i ragazzi, ai preparatori e ai tecnici: guardate che gara ha fatto, analizzatela. Se vi chiedete che cos'è il ciclocross, van der Haar a Tabor vi darà tutte le risposte che cercate.
Natale in casa van Aert-van der Poel
25 Novembre 2021Storievan Aert,Ciclocross,van der Poel
Così come in foto ma nel ciclocross: van Aert contro van der Poel. Qui in azione ad Harelbeke, sull'asfalto, esattamente 8 mesi fa, affiancati: fra un mese li rivedremo (più o meno così) ma in mezzo al fango.
È vero, la stagione del CX ha già ripreso da un po'. C'è stata la trasferta a Fayetteville, Stati Uniti, per un assaggio del circuito che ospiterà i mondiali a fine gennaio; c'è quel folletto di Iserbyt che da settembre a oggi ne ha sbagliata una, massimo due. C'è stato il ritorno al successo dopo oltre un anno di Worst.
Ci sono gli azzurri che crescono bene sotto la nuova guida, ci sono volti nuovi e volti noti, rinascite e cedimenti, ma niente attira di più mediaticamente - ma non solo - dell'esordio stagionale dei due corridori in foto - ma certo non ci dimentichiamo che c'è anche Pidcock!
Così come in foto ma nel ciclocross, allora li aspettiamo, l'uno contro l'altro il giorno dopo Natale: rientreranno a dicembre entrambi, ma a Santo Stefano ci sarà il primo scontro diretto.
Se i loro programmi saranno confermati - e non dovrebbe essere altrimenti - saranno intanto cinque le sfide (le scriviamo per memorizzarle) a partire da Dendermonde (26 dicembre), passando per Diegem (29 dicembre), Loenhout (30 dicembre), Hulst (2 gennaio) ed Herentals, a casa van Aert, il 5 di gennaio.
Altro che Una Poltrona per Due o The Blues Brothers, altro che boxing day, o visite parenti, altro che panettoni e pandori: l'appuntamento per le vacanze di Natale sarà un nuovo capitolo della saga van Aert contro van der Poel.
Seduti sul divano con la pancia piena, oppure appena ritornati da un bel giro in bici per smaltire i bagordi natalizi sintonizziamoci per guardare come sgasano quei due. Jouissance: e chi vincerà poco importa.
L'altra faccia di Primož Roglič
Come Chris Froome, anche Primož Roglič ha iniziato a suscitare le simpatie dei tifosi quando si è mostrato nel suo lato più vulnerabile, quello più umano che sportivo, quello che, per molto tempo, era quasi rimasto nascosto dietro l'apparenza del campione che, pur arrivando tardi al ciclismo, stravolge ogni pronostico e vince. Non che l'avesse chiesto Roglič, se l'era ritrovato addosso quel pregiudizio, il suo carattere poi, a tratti freddo, imperscrutabile, aveva fatto il resto.
Le persone, però, si scoprono quando le cose vanno male e nel caso degli sportivi questo vale ancora di più. Perché, quando resti lì a osservare qualcuno che non vince, che anzi si stacca, patisce e arriva al traguardo a minuti dai primi, stai cercando qualcosa che va oltre il gesto atletico. Roglič, nel dolore fisico e psicologico delle cadute (lo ricordiamo tutti all'ultimo Tour de France), ha notato come lo guardavano i tifosi, ammirati e stupiti, quasi non si aspettassero questa umiltà della sofferenza. «Non sono un Terminator del ciclismo, non sono così» ha recentemente dichiarato in un'intervista a Cyclingnews.
E noi vogliamo ribadirlo proprio oggi: lo sloveno è un uomo e un ciclista forte, ma non tanto o non solo perché vince. Forte perché in ogni problema che gli si pone davanti cerca l'opportunità o la soluzione, senza lamentele. Se possibile in silenzio perché è da sempre convinto che gli esseri umani abbiano la possibilità di cambiare ciò che li circonda con i fatti; le parole e la visibilità sono invece un di più. Dice che in molti, arrivati al ciclismo da altri sport, hanno dovuto imparare i fondamentali di un nuovo sport, lui ha dovuto imparare a soffrire.
«Tornerò al Tour de France - spiega - per provare a vincerlo, ma non finirà il mondo neppure se lo perderò. Sarò sereno con i risultati che avrò ottenuto». Forse ha sempre pensato così, forse ha imparato a pensare così dopo la pandemia, quella che, a suo avviso, ha ricordato a tutti come si debba provare a vivere e a lui che prima di tutto desidera essere felice.
Dopo la caduta al Tour non poteva fare molto, era evidente a chiunque lo vedesse e a lui in primis. Per questo non trova particolari meriti nell'aver saputo fermarsi e aspettare, perché per un ciclista e forse per un uomo era l'unica cosa da fare, a meno di lasciarsi andare all’auto-commiserazione. Ha ripreso ad allenarsi non molto tempo prima delle Olimpiadi di Tokyo e in ogni viaggio sul pullman della squadra in Giappone ha avuto crampi e dolore al muscolo piriforme, nella zona del plesso sacrale. Dall'hotel alla partenza delle prove, alcune volte, ci sono tre ore di trasferimento, una tortura per Roglič che non riesce nemmeno a pensare a cosa possa essere una prova contro il tempo in quelle condizioni.
Il dolore, quello fisico, però questa volta lo sorprende perché, proprio prima della gara olimpica a cronometro, sta bene, sembra non avere più nulla. Si va a prendere l'oro, poche settimane prima di conquistare la Vuelta a Espana, una gara a lui più che mai congeniale in cui è al terzo successo consecutivo.
In questo percorso di ripresa dall’infortunio un grazie Roglič lo dice anche all’altro grande talento sloveno, Tadej Pogačar, nonostante un certo dualismo, forse più mediatico che reale di cui si parla spesso, perché con i suoi risultati lo spinge ad essere la miglior versione di se stesso e lo convince, ancora di più, a non fermarsi perché in definitiva l’importante nella vita, come nello sport, è continuare a tentare di migliorarsi.
Per essere un velocista: intervista ad Alberto Dainese
23 Novembre 2021StorieAlberto Dainese
Alberto Dainese, 23 anni, nella prossima stagione al terzo anno tra i professionisti, ha un cruccio: quello della vittoria. «Mi do ancora due, tre anni per vincere, poi eventualmente capirò cosa fare, se andare a giocare a bocce oppure tirare le volate agli altri» ci racconta ironizzando su sé stesso, con disarmante sincerità. «Per un velocista conta solo la vittoria. Poco da girarci intorno». Secondo Dainese un velocista «con la v maiuscola è tale quando conquista almeno 6/7 corse all'anno» e lui che le braccia al cielo le ha alzato così poco di recente (ultimo successo a febbraio del 2020) si definisce «un "corridoretto velocino" al momento, nulla di più». Testuale.
Dainese passò professionista nel 2020 in maglia Sunweb (ora DSM) dopo aver conquistato, nel 2018, tra le altre corse, una tappa al Giro Under 23, e una, ottenuta in modo spettacolare, al Giro del Friuli, mentre chiudeva il 2019 conquistando la maglia da campione europeo sulle strade di Alkmaar - quel giorno sfruttò a meraviglia il lavoro di squadra e dimostrò che in quanto a punte di velocità nelle categoria giovanili aveva pochi rivali.
Fisico compatto, a metà tra le misure di Ewan (piccoletto) e quelle di Merlier (ben più alto) Dainese sin dagli esordi in bicicletta si era distinto per la capacità di andare a segno come un bomber di razza, diremmo, se fosse un calciatore. «Ma un conto è vincere nelle categorie giovanili un altro è fare il salto e confermarti da subito tra i professionisti. Il nostro sport è pieno di ragazzi che si perdono e la differenza tra le altre categorie è abissale. Personalmente sento di migliorare stagione dopo stagione, è vero, ma nel 2022 devo iniziare a raccogliere qualcosa».
Le prime due stagioni da professionista sono state complicate, lo scorso anno partì forte, vittoria in Australia all'Herald Sun Tour, podio alla Race Torquay, dietro Bennett e Nizzolo, poi vari intoppi tra cadute, corse cancellate per il Covid e via discorrendo.
Quest'anno la sua stagione è stata a due facce a tratti quasi paradossale con punte di accanimento. «La prima parte tutta a inseguire: le corse che dovevo fare da capitano sono saltate, quelle dove ero a disposizione del treno di Bol sono filate lisce e a giudicare da fuori pareva che fossi diventato l'ultimo o il penultimo uomo del velocista di punta. Poi, certo, non mi considero mica un fenomeno che non si mette a disposizione degli altri: per crescere, per essere un velocista serve fare anche quello». Ma lui giustamente si sente finalizzatore. È come, tornando alla metafora calcistica, se all'attaccante gli strappassimo dai piedi il pallone o gli vietassimo di calciare in porta.
Da agosto in poi le sue carte se l'è giocate (quasi) alla grande. «Dalla Vuelta tutta un'altra musica. È vero non ho vinto, ma per quello conta anche un po' di fortuna». Ha iniziato a prendere le misure e a battagliare con i migliori velocisti del World Tour. «Philipsen e Jakobsen sono fortissimi, difficili da superare ma anche solo da affiancare, ma quello che è veramente impressionante secondo me è Merlier. Mi ricorda il miglior Petacchi, ha una potenza e una rapidità senza eguali. Al momento lui è il velocista più forte del mondo, superiore anche a Ewan».
Dainese studia gli avversari, ma per essere un velocista sempre più forte quest'anno ha cambiato un po' il metodo di lavoro: «La prima stagione abbiamo puntato tutto sulle volate e sull'esplosività, ma poi si finiva di arrivare allo sprint senza energie. Quest'anno invece abbiamo impostato un lavoro più sulla resistenza e si sono visti i primi frutti». Fondamentale, dice, arrivare freschi al traguardo anche a costo di perdere il picco massimo di velocità: «D'altra parte la coperta per noi velocisti è sempre un po' corta»
Dainese ci spiega come ci si muove in gruppo a quelle velocità, con tutti quei rischi tra gomitate e spallate, ruote sfiorate e rischi assurdi, ci indica qualche trucco del mestiere, per essere un velocista, e che da fuori è impossibile conoscere. «Sì è vero, bisogna essere un po' matti, ma è anche divertente. Io gara dopo gara a furia di prendere bastonate nei denti sto imparando come ci si muove, sto acquisendo abilità e consapevolezza, ma anche guadagnando il rispetto dai miei avversari. Capita di trovarti a ruota di Ewan o Philipsen e se non sei nessuno magari ti becchi anche la spallata che ti sposta, ma se inizi a farti conoscere a suon di risultati allora ti lasciano lì a giocare le tue carte».
A chiudere Dainese, un po' Cavendish e un po' McEwen per il modo di stare in bici nelle volate, ci parla di un rammarico e di una speranza. Il dispiacere è legato al Giro del Veneto dove andò forte dimostrando di non essere solo quel velocista puro che credeva, ma di poter tenere duro anche su percorsi impegnativi. «È vero, ma ci sono anche un insieme di cose: intanto disputare un Grande Giro ti cambia il motore, ti dà brillantezza, ti permette di pedalare a certi ritmi e io aveva appena corso la Vuelta. Poi al Giro del Veneto il livello era alto sì, ma non certo quello del mondiale». Quel giorno tanto fecero le motivazioni. «Si arrivava letteralmente davanti a casa dei miei e c'erano anche gli amici a tifarmi. È stata una giornata indimenticabile. Peccato essere arrivati terzi».
Mentre la speranza appare scontata: «Ritornare a vincere, altrimenti che velocista sarei?».
La filosofia di Marlen Reusser
22 Novembre 2021RitrattiMarlen Reusser
Marlen Reusser è felice, ma, in realtà, la felicità non le interessa nemmeno più di tanto. È capitato anche alla trentenne svizzera di sentirsi infelice, nonostante il ciclismo e le vittorie: andava tutto bene, ma il morale era a terra. Non c'è alcuna difficoltà ad ammetterlo. «Non è obbligatorio essere felici. Puoi esserlo oppure no» ha raccontanto in un’intervista a Procycling. «L'importante è che tu impari a conoscerti, a sentire il tuo corpo e a capirlo. Una volta che lo hai imparato ti servirà in ogni circostanza, in qualunque lavoro, io lo sto imparando correndo in bicicletta». Questo ragionamento l'ha sempre aiutata nella sua prova prediletta: la cronometro.
Nel tempo, molti le hanno chiesto quale sia il suo approccio mentale alla cronometro e lei ha sempre risposto che non c'è una regola, semplicemente perché la nostra mente fa ragionamenti nuovi e ci sottopone una realtà diversa ogni giorno, quindi è inutile proporsi di vedere le cose in un determinato modo, perché quel giorno potresti non riuscirci. Quando ti sveglierai, saprai chi sei in quel momento e con quello dovrai fare i conti. Regola aurea visti i risultati di Reusser contro il tempo nel 2021: argento alle Olimpiadi di Tokyo, oro agli Europei di Trento e ancora argento ai Mondiali delle Fiandre.
Marlen Reusser approda relativamente tardi al ciclismo professionistico, a causa di un infortunio. All'inizio, forse, nemmeno le piace molto pedalare, però le viene facile, estremamente facile così qualcuno le suggerisce di provare a farlo come lavoro. Oggi dice che, se non ha mai mollato, è solo perché, in fondo, le cose che non le piacevano del ciclismo erano meno di quelle che le piacevano, per esempio quello stato costante di imprevedibilità, la possibilità di conoscere luoghi e persone e, qualche volta, di sentirsi meglio perché sai che qualcuno è interessato a te, anche se fai fatica, piove e fa freddo.
Probabilmente, proprio per questa facilità innata, anche se non lo ha mai detto, Reusser ha sempre creduto alla possibilità di fare bene nel ciclismo. «Può sembrare arrogante dirlo, ma non lo è. Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma per emergere devi lavorare sodo e io l’ho fatto. Mi sono posta degli obietti e mi sono impegnata al massimo per raggiungerli: prima o poi i risultati dovevano arrivare». Una delle più grosse difficoltà è stata riuscire a stare in gruppo nelle gare su strada, quelle in cui se non hai qualcuno che ti aiuta, di cui ti fidi e che si fida di te, difficilmente riesci a fare bene perché stare nella pancia del gruppo è davvero difficile. Lei ha imparato provandoci, con una tranquillità di fondo, però: «Se non ci fossi riuscita, probabilmente avrei smesso di gareggiare su strada. Che senso ha continuare a fare una cosa che non ti diverte?».
La Reusser ha le idee chiare, per prossimo ha voluto fortemente l'approdo in Sd-Worx, una squadra di campionesse. Ma fra loro non c'è rivalità, bensì apprezzamento. «Non credo sia un bene che in una squadra ci sia un solo campione e tante seconde linee che gli girano attorno. Non mi piacerebbe neppure se la campionessa fossi io. Per avere la possibilità di correre al meglio ogni gara occorre che tutta la squadra sia di alto livello».
Per il futuro, Reusser ragiona come per la felicità. Arriverà comunque e non ha nemmeno senso farsi tante domande. Lei è dottoressa e prima di dedicarsi al ciclismo lavorava in ospedale, è appassionata di politica e le piace impegnarsi per aiutare gli altri. Il ciclismo, per Reusser, è fatto di traguardi, ma la vita porta tante cose e fra quelle bisogna scegliere. Così, se è vero che vorrebbe vincere un titolo mondiale a cronometro, è anche certa di non voler invecchiare nel ciclismo: «Annemiek van Vleuten ha trentotto anni, Mavi Garcia trentasette. Non credo che continuerò così a lungo. Voglio fare molte altre cose nella vita, ho ancora troppe cose da imparare».