Il tempo di riflettere

Riflessioni sugli ultimi avvenimenti al Giro d’Italia.

Diciamolo chiaramente ed evitiamo pericolosi fraintendimenti: ogni persona che svolga il proprio lavoro ha il sacrosanto diritto di pretendere che siano assicurate misure di sicurezza adeguate. Se queste misure non sono garantite ha la possibilità ed il diritto di segnalare le mancanze ed, eventualmente, di agire, anche giudizialmente, affinché queste carenze siano rimosse. La salute è un bene troppo importante e non ci si può nascondere: la pandemia da Covid-19 la mette a repentaglio. Il punto non è questo ma un altro. Il punto è assicurarsi che quando si agisce con recriminazioni varie, in tutti gli ambiti della società ed anche nello sport e quindi nel ciclismo, lo si faccia veramente a tutela del bene salute e non prendendo a pretesto questa tutela per difendere altri interessi personali. Chi protesta per difendere il bene salute ha tutta la nostra approvazione, chi lo fa in maniera pretestuosa per altri interessi, invece, crediamo debba riflettere. Quanto meno sul fatto che, in questo modo, non ha rispetto proprio per quel bene di cui finge di farsi paladino.

Cosa vogliamo dire? Abbiamo parlato con diversi direttori sportivi e ci è stato assicurato che le misure di sicurezza adottate dall'organizzazione del Giro d'Italia, per quanto concerne gli atleti, sono assolutamente adeguate. L'organizzazione questo deve fare: garantire il massimo della sicurezza possibile. La sua è un'obbligazione di mezzi, non di risultato. Risulta evidente a tutti come i numeri dei contagi siano aumentati e il ciclismo, per quante bolle possano isolarlo, vive in questa realtà. Per questo motivo qualche contagio poteva esserci e purtroppo c'è stato. Ci spiace e auguriamo agli atleti coinvolti una pronta guarigione ma il rischio che loro hanno corso e corrono è il rischio che corrono tutte le persone che, nonostante questa situazione, continuano a svolgere il proprio lavoro. Un rischio che si auspica sempre più vicino al minimo ma che non potrà mai toccare quota zero. Al Giro, fino ad ora, sono state trovate positive al Covid-19 otto persone: due atleti e sei membri dello staff fra i 571 test effettuati tra l'11 ed il 12 ottobre. Ci pare che, al momento, non siano numeri che possano mettere a repentaglio lo svolgimento di una manifestazione sportiva del livello del Giro d'Italia. In questi giorni si stanno effettuando altri test e una nuova tornata di test a tappeto è prevista per il secondo giorno di riposo: aspettiamo i risultati e proviamo a mantenere razionalità ed occhio critico. Vale per tutti ed anche per gli addetti ai lavori della stampa che anche in questi giorni, in taluni casi, per la fretta di diffondere una notizia, sono stati parte di un'informazione approssimativa che altro non fa se non seminare panico e allarmismo. Soprattutto a causa dei titoli, studiati per attirare click e visualizzazioni.

Si veda la vicenda dei 17 poliziotti della scorta del Giro-E positivi al tampone per cui, per fare chiarezza, è dovuto persino intervenire il ministero degli interni.
A qualcuno non sta bene la situazione in corsa? Ci risulta che nessuno impedisca alle squadre di esporre lamentele, cosa peraltro fatta, oppure di meditare il ritiro dalla corsa. Vista la situazione, ci permettiamo di non condividere una simile scelta e di dubitare che le reali motivazioni che la accompagnano siano da ricercare nella tutela della salute. Dubbio nostro, sia chiaro. Ogni squadra però deve scegliere secondo ciò che ritiene opportuno: non volete più restare in corsa? Ritiratevi, nulla da obiettare, state perseguendo un vostro legittimo interesse. Quello che invece è intollerabile è pretendere che quel vostro interesse, che visti i dati non rappresenta una tutela della salute, debba inficiare l'intera manifestazione impedendole di giungere alla normale conclusione a Milano. In ogni decisione sarebbe auspicabile una attenta ponderazione e scissione, a mente fredda, tra quello che è l'interesse generale e quello che è invece un interesse personale. Non sempre le due fattispecie sono nettamente separabili, in particolare quando la tensione e la pressione aumentano. Servirebbe solo qualche pausa di riflessione in più prima di formulare richieste e suscitare polemiche. Proviamo a prendercela. Tutti.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Il numero 94, il numero 1 e altre storiellette

Fa freddo e c'è vento. È quasi buio pur essendo passato da poco mezzogiorno. Le mani sono intirizzite. Cerco di scaldarmele come posso e la possibilità migliore me la dà una vecchia osteria con i mattoni a vista che ha la fortuna di affacciarsi sul rettilineo d'arrivo.

So che i corridori passeranno almeno tre volte sul traguardo e quindi c'è tempo di bere qualcosa per provare sollievo e acclimatarsi per bene scambiando due chiacchiere e scattando pure qualche foto. Arriva un massaggiatore di una squadra che funge da vivaio per un team di professionisti. Anticipa il gruppo, entra nel bar e chiede di riempire le borracce con del tè caldo. La barista sgrana gli enormi occhi verdi ed esclama: «Abbiamo fatto fuori trecento bustine di tè!» gli dice «E non possiamo nemmeno muoverci da qui perché la strada è chiusa» alludendo al passaggio dell'ultima tappa del Giro del Friuli.
Perché se fa freddo per noi che siamo chiusi al caldo con la compagnia di un bicchiere di rosso della casa, immaginarsi chi sta in strada. C'è bisogno di qualche bevanda calda per i ragazzi e di ogni malizia. Ogni tanto vanno strigliati perché «oggi non ce la faccio» dicono, ma è stata una corsa dura e si chiude un occhio, e se qualcuno preferisce fermarsi questa non è la giornata per usare il bastone «perché nei momenti di sconforto vanno sempre supportati» mi raccontava un direttore sportivo proprio nei giorni scorsi.

L'abbigliamento è importante mi dice il componente dello staff di un'altra squadra, anche lui passato al volo in quel bar chiedendo «Tè caldo, per favore!» per riempire qualche borraccia. «Se oggi sbagli qualcosa sei letteralmente fottuto». Testuale. E di quel gruppo di centoquaranta ragazzi, di fottuti, per usare il termine che mi frulla ancora per la testa, ne sono quasi la metà. «Vestirsi in modo adeguato è fondamentale, il problema però sono le gambe: scoperte e al freddo per tutto il giorno».

Arriva il primo corridore ritirato; lo avevo già notato alla partenza un paio di ore prima, si era staccato subito dopo il via mentre la pioggia era forte, quasi una bufera, sembrava bava appiccicosa. Poggia la sua bici, una Scott gialla con il numero novantaquattro, su una botte ornamentale fuori dall'ingresso dell'osteria. Entra battendo i denti, completamente grondante pioggia come una bistecca al sangue. Lo sguardo è perso, il viso assume tratti violacei. «Bevi qualcosa di caldo» gli faccio. «No, grazie. Fra un po' arriva l'ammiraglia» risponde lui. Un'ora dopo è ancora lì, impietrito verso la porta, continua a battere i denti come stesse parlando l'alfabeto della fatica e dello strazio e nel frattempo il bar continua a riempirsi di corridori. Ci sono i bulgari: si ritireranno tutti in un colpo dopo aver chiuso regolarmente in coda ogni tappa. Volevano onorare la corsa e lo hanno fatto, ma il livello è davvero alto. A loro importava soltanto esserci.

Arriva un corridore dietro l'altro; si fermano, cercano l'ammiraglia. Alcuni sembrano reduci, altri naufraghi: hanno diciannove, venti, ventuno, ventidue anni, alcuni anche venticinque o ventisei e persino più di trenta. Un ragazzo si è fermato, ha poggiato la bici e si è tolto gli scarpini. Ha i calzini fondi d'acqua e ora corre sul marciapiede in mezzo alle pozzanghere cercando qualcuno, forse un parente, un collega o forse scappa semplicemente perché non sa che fare come quando un ciclista va in fuga sapendo di essere ripreso. Sono spaesati, contriti, chi gliela fa fare? chiedevo giorni fa a un ex corridore. «La crudeltà di questo sport è che pedali con ogni tipo di clima, e fai fatica, fisica e mentale e poi non sai nemmeno se l'anno dopo continuerai a correre o se quello che stai facendo diventerà il tuo mestiere».

Il mestiere che sarà di sicuro quello del numero uno della corsa, un norvegese alto con i capelli rossi e le lentiggini, ha dominato e l'anno prossimo correrà tra i grandi mentre tutti bisbigliano: “è un predestinato”. A fine gara la sua fame non è placata nemmeno dalle tre maglie conquistate e dalle due tappe: divora una pizza in meno di cinque minuti.

Resta tempo per accennare alla storia di quel ragazzo che arriva terzo di tappa, illuso ed esultante convinto di aver vinto: un grido di gioia che se potesse tornare indietro strozzerebbe in gola o legherebbe ben stretto con un fil di ferro. La rabbia è la sua, la delusione è quella del secondo arrivato; ha gli occhi rossi di chi non ha smesso di piangere. E non smette di piangere nemmeno un altro corridore in maglia giallo fluo. Fermo per minuti che appaiono sia a me che a lui interminabili, dietro il palco delle premiazioni. La testa è retta dal palmo delle mani e ha una caviglia gonfia e fasciata. Eppure è venuto a prendere lo stesso il premio dei traguardi volanti.

Torno indietro e passo davanti al bar e il numero novantaquattro è ancora lì che aspetta. Sta cercando di farsi caldo strusciando le mani su tutto il corpo ancora mezzo scoperto. Indossa gli indumenti di gara e chiacchiera con un altro ragazzo, lombardo sembrerebbe dall'accento. Il viso ha preso un po' più di colore, forse l'hanno convinto a bere qualcosa. Entrambi continuano a sbattere i denti e forse si capiscono così. Io invece li guardo e non capisco, ma apprezzo e domandandomi ancora una volta chi gliela fa fare, non posso che provare empatia per chi fa questo mestiere disgraziato.


Elogio di Peter Sagan

Se Peter Sagan non ci fosse, bisognerebbe inventarlo perché di gente così il ciclismo ha bisogno. Forse, però, avremmo dei problemi, perché la persona più adatta per inventare qualcuno di simile a Sagan sarebbe proprio Peter Sagan. La fantasia non è per tutti e per inventare cose belle ne serve tanta. Sagan non ha problemi con l'inventiva ed oggi lo ha dimostrato, ammesso che ce ne fosse bisogno. Ha dimostrato che gli uomini hanno un unico modo per essere, e quel modo è il "nonostante". Tanto avrebbe potuto lamentare o recriminare, e sappiamo tutti quanto sia facile quando le cose non vanno, tanto avrebbe potuto dire, invece no. Peter Sagan ha scelto di usare la fantasia e l'inventiva: la salvezza che troppo spesso dimentichiamo di avere a portata di mano. Non quella che porta altrove, non quella che rifugge la realtà o i problemi, in cui comunque siamo calati, ma quella che si infila tra i problemi e prova a leggerli diversamente, a declinarli diversamente, a interpretarli mettendoci qualcosa che altri non vedono, che altri non capiscono. Gli altri certe cose non possono nemmeno immaginarle, forse non vogliono immaginarle perché immaginare un finale differente costa fatica.

Forse Sagan intendeva questo quando ha detto: «Finalmente ho vinto come piace a me. In che modo? Dando spettacolo, no?». Sagan che ha vinto a Tortoreto Lido dopo 471 giorni di digiuno e ci dicono avesse gli occhi lucidi dopo il traguardo. Non ha vinto come tante altre volte perché non ha fatto come tante altre volte, con intelligenza e lungimiranza. Arnaud Dèmare in volata è più veloce, non solo di lui, di tutti in questo momento. Non ci si può far nulla. O meglio: si può fare di tutto ma niente cambierà questa realtà. La realtà la cambi con ciò che realtà non è o almeno con qualcosa che realtà non è ancora. Non è realtà quando la pensi, quando la immagini, quando sei tu l'unico a crederci. La cosa peggiore è che realtà potrebbe non diventare mai: se la squadra di Dèmare insistesse ancora qualche chilometro, se tu non avessi più le forze o la fiducia per insistere ancora, se quei secondi ti sembrassero troppo pochi, se gettarti in discesa in quel modo ti incutesse qualche paura, se pensassi di accontentarti dei punti per la maglia ciclamino, se ti tornassero in mente quelle voci che hai sentito e non ti sono piaciute, di più, ti hanno ferito. Anche se non lo dai a vedere, anche se hai sempre il sorriso sulle labbra e la battuta pronta.

Le realtà immaginate si sbriciolano proprio in quel momento: quando ti fossilizzi sulla realtà che c'è invece che su quella che ci sarà o che potrebbe esserci. Come a dirti: «Se non ci credi più tu, cosa facciamo?». Tu devi crederci a qualunque costo. Peter Sagan non ha mai avuto dubbi su quel sogno sognato, non oggi almeno. Lui sa che si vive e si vince sempre "nonostante". Il che non significa arrendersi, non significa adeguarsi, non significa rinunciare. Significa vedere chiaramente ciò che c'è e cercare tanto e ovunque ciò che vorresti ci fosse. Con l'ostinazione dei sogni e con la concretezza della realtà.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Caro Mark, il futuro è importante

«Vorrei incontrare il me stesso del passato per dargli un consiglio. Gli suggerirei di vivere con maggiore serenità. Di prendere la vita ed anche il ciclismo con leggerezza. Non è poi così importante essere il migliore del mondo, puoi anche vincere qualche corsa in meno. Puoi, nessuno te lo impedisce. Sei tu a impedirtelo. Cerca di essere la versione migliore di te stesso. Solo quello». Lo ha detto Mark Cavendish, solo qualche anno fa, quando tante cose erano già accadute ed il futuro non era più quel tempo a cui correre incontro ad ogni costo. Anzi, il futuro, quel futuro lì, faceva paura. Anche ieri Mark Cavendish ha avuto paura del futuro, quando, dopo una giornata all'attacco, giunto al traguardo della Gand-Wevelgem con oltre sei minuti di ritardo dal vincitore Mads Pedersen, ha dichiarato piangendo: «Potrei aver corso l'ultima gara della mia carriera». E chi avrebbe mai immaginato qualcosa di simile da Mark Cavendish? Mark Cavendish abbiamo imparato a conoscerlo in altro modo, con quel fare a tratti "arrogante", ma chi vince può permetterselo perché Cav è stato davvero il migliore velocista al mondo per alcuni anni, con quella sicurezza inscalfibile che anche di fronte alle sconfitte gli consentiva di affermare di non aver sbagliato niente e che, in fondo, gli avversari erano stati fortunati, con quelle esultanze scenografiche condite da parole al vetriolo indirizzate a chiunque avesse dubitato del suo talento o delle sue capacità. Sì, Mark Cavendish è cambiato e non ne ha fatto mistero. Si è messo a disposizione degli altri, suscitando l'ilarità degli sciocchi o degli offesi: «Non mi interessa nulla di tutta quella merda che riversate sulle pagine dei vostri giornali o sui social. So bene cosa significhi fare il gregario, cosa credete? Quando Wiggins ha vinto il Tour, tiravo in salita. Ma di cosa parlate?».

Alcuni offesi, specie quelli che hanno un potere, un potere di penna in questo caso, sono come i virus, direbbe Cavendish che con l'Epstein-Barr ha combattuto e combatte, o come il futuro, diciamo noi. Non ti sfiorano nemmeno fino a quando sei all'apice ma appena crolli ti mordono con tutti i denti che hanno. Cavendish da uomo imbattibile, in un batter d'occhio, si è ritrovato uomo solo: «Nessuno mi credeva, nemmeno gli amici. Pensavano tutti fossi scomparso perché non volevo più correre, perché non volevo più combattere. La gente voleva il vecchio Cavendish, voleva che il ragazzo di oggi sfidasse il virus e lo controllasse per restituire il ragazzo di ieri. La realtà è che combattere con un virus è molto difficile. Non puoi prevederlo, ti può annientare. Se nemmeno chi hai accanto ti crede, come puoi pensare di farcela?». Cavendish è cambiato quando ha dovuto affrontare la sofferenza e l'incomprensione. Quando guardando avanti non ha più visto vittorie e successi ma ansietà e paure. Puoi evitare di guardare, ma sai che stai andando in quella direzione e negli occhi hai l'orrore: inizi a non riconoscerti più, inizi a sentirti debole, e non solo di volate si parla, inizi a riconoscere che hai bisogno di tutti. Che da solo proprio non vai: «Ammiro molto mia moglie. Se i nostri bambini sono cresciuti come stanno crescendo lo devo a lei, è una mamma eccezionale. Bada a loro, non facendogli mancare nulla e poi bada anche a me. Ho più di trent'anni, è vero, ma sono ancora un bambino».

Anche questo non lo avremmo mai detto perché Cavendish sembrava così distante da tutto quello a cui ora è così vicino. Ora ha imparato a ricredersi, per esempio, e ad ammetterlo: «Quando sono arrivato in Bahrain e ho incontrato Roger Hammond, il direttore sportivo, ho subito pensato che da lui non avrei avuto mai niente da imparare. Non riuscivo a capire cosa avrebbe potuto insegnarmi. Evidentemente non avevo capito nulla: da Roger Hammond ho imparato tanto come da Rod Ellingworth. Il loro "esserci" mi ha salvato molte volte». Mark Cavendish, in realtà, ha imparato anche tante altre cose che sicuramente lo hanno reso un uomo e un padre migliore. Un padre di cui i figli possano dirsi fieri. Un padre che sa che, talvolta, nella vita è necessario mollare la presa se non si vuole essere travolti. C'è ancora una gara a cui Cavendish risulta iscritto, la Scheldeprijs di mercoledì. Chissà se la correrà. In molti se lo augurano. Qualcuno, ieri sera, ci ha detto: «Se smette anche Cav, avranno smesso quasi tutti gli atleti di quando ero bambina. Fa tristezza». Sì, certe volte crescere e guardare avanti fa tristezza ma abbiamo il dovere di farlo, riscoprendo una semplice verità, sepolta in mezzo a qualche chiacchiera della società. Il futuro non è solo roba per sognatori, per poeti e navigatori. Il futuro non è solo lo scenario prediletto delle avventure dei bambini, non è qualcosa di minore da lasciare alle storie e alle favole. Loro lo hanno già capito, ora dovremmo capirlo anche noi. Il futuro è importante.

Foto: Marco Trovati/Pentaphoto


Alice Maria Arzuffi, oltre un attimo di fatica

Per Alice Maria Arzuffi sarà stato come tornare a casa, dal fango e dalla terra. Quella che Alice conosce talmente bene da prevederne caratteristiche e qualità. Quella "del Belgio" come dice lei e in quell'appartenenza del fango c'è già tutto: «Quando ti togli i vestiti, quando ti togli le scarpe e le metti da lavare, vedi uscire terriccio e fango mescolati. Fatichi a distinguerli ma li senti fra le mani quando strizzi le magliette. Serve una settimana per purificare completamente gli abiti, servono più lavaggi. La sabbia, perché quella belga è sabbia, filtra ovunque. Non riesci a spiegarti da dove provenga, sembra quasi che si rigeneri tra i tessuti». E sembra di sentire quella particolare sensazione del fango che schizza e ti ricopre la pelle, quasi una crosta in più strati che solidifica secondo dopo secondo per tornare a colare al primo contatto con l'acqua, arriva ovunque, anche in viso e perfino sotto gli occhiali che indossi per proteggerti. Non puoi nemmeno aiutarti con le mani, intanto perché sono ricoperte da guanti di fango e poi perché quei granelli, che trasudano umidità, screpolano la pelle e bruciano a contatto con gli occhi. Devi stare ferma, devi pedalare, serrare la bocca con tutti i muscoli per evitare che la terra finisca pure lì e pensare solo a far scorrere quelle ruote, che ora pesano più che mai, nella terra. La doccia del dopo corsa laverà l'inferno o almeno quello che per molti è inferno. Per Alice no, per Alice quella è fatica, tanta, passione, altrettanta altrimenti non sarebbe lì, volontà di interpretare e inventare ma soprattutto è un ricordo. Un ricordo d'infanzia.

«Sai, quando le mie colleghe mi chiedono stupite come faccia a correre in queste condizioni, tutta sporca, non so cosa rispondere. In realtà io sto bene quando faccio ciclocross. Forse anche per questo nel tempo ci ho pensato, ho pensato all'origine di questa passione. Credo di averla rintracciata in una abitudine che avevo sin da bambina. Dico sempre che mi piaceva "sporcarmi le mani", intendo che mi piacevano tutti i giochi in cui ci fosse da mescolare, da impastare, creare con le mani. Giocavo con la farina, cucinando, con il pongo e anche con le tempere. Ecco, per esempio, mi piaceva colorare con i pennelli ma preferivo colorare direttamente con le mani. Immergevo le mani nel colore e poi lasciavo le impronte sui fogli. Talvolta anche sul muro, sono sincera». Sarà quella fisicità ciò che Arzuffi ritrova nei percorsi del Belgio mentre, là fuori, l'odore delle patatine fritte si mescola a quello della birra e la fuliggine autunnale nasconde i contorni di una natura morente. Forse, poi, in questo periodo di distanze forzate, quella tangibilità sarà ancora più preziosa, sarà come ritornare a sintonizzarsi con tutto quello che c'è attorno. Alice Maria Arzuffi che da bambina danzava e avrebbe voluto imparare ad andare a cavallo. Al ciclismo è arrivata grazie alla cugina, Maria Giulia Confalonieri, che si è iscritta ad una squadra proprio in quei giorni. Così, oggi, Alice e Maria Giulia vivono di sguardi che parlano la stessa lingua e di parlare non hanno nemmeno bisogno. Uno sport che Arzuffi definisce «futurista, come una sorta di opera di Giacomo Balla per dinamismo e vivacità delle sue componenti». Proprio grazie al ciclismo ha imparato a fronteggiare l'altra sua anima, quella estremamente emotiva, quella retta da una mente che non si ferma mai.

«La mia testa è in continua azione, non ho quasi mai un attimo di tregua. Ragiono su quello che è accaduto, progetto quello che accadrà, non senza ansie e nervosismi. Maria Giulia, scherzando, dice che sono sempre arrabbiata. Non sono arrabbiata ma, spesso, sono tesa. Ed è questa ansia, questa tensione, a togliermi serenità e a penalizzarmi in corsa. Per fare bene il proprio lavoro serve tranquillità, serve serenità. Devi avere la mente sgombra per affrontare lucidamente le difficoltà che ti troverai davanti». In quei momenti in gara la sfida è anche una sfida mentale: «Quando facciamo fatica, troppa fatica, tutti ci sentiamo impotenti. Sai perché? Perché, in quei momenti, non riusciamo a vedere il momento in cui la difficoltà finirà, in cui arrivando in vetta torneremo ad alleggerire il rapporto e a distendere i muscoli. Quel momento invece c'è e non te lo porterà via nessuno, a patto di resistere per quell'attimo. Il segreto è superare quell'attimo. Poi ce la fai. Questo non lo penso solo quando sono in salita o in mezzo al fango. Lo penso anche quando devo fronteggiare i sacrifici che la vita da ciclista impone. La fatica è temporanea, ricordiamocelo. il mio primo allenatore, Daniele Fiorin, ce lo diceva quotidianamente. La vita da ciclista non durerà per sempre, non sarà sempre così. Stringete i denti e resistete oggi. Datevi motivazioni per non mollare oggi, vi aiuteranno anche domani».

Foto: Bettini


Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Daniel Felipe Martínez non è una fisarmonica

La vita di Daniel Felipe Martínez non assomiglia all'elogio di una triste fisarmonica. In lui non c'è, come scriveva Gabriel García Márquez a proposito di quello strumento “un’adolescenza dissipata, oscura, fitta di albe turbolente. I suoi migliori anni si sono dipanati nell’angolo anonimo, greve di vapori di una taverna tedesca”. Malinconico come una fisarmonica lo è piuttosto il luogo da cui proviene.

Soacha, dove nasce Dani Martínez ventiquattro anni fa, è diventata nota per il dramma legato alle “Madri di Soacha”. Nel 2008 in un paese a nord della Colombia venne ritrovata una fosse comune con quattordici corpi. Erano ragazzi spariti tempo prima da quella zona povera nei sobborghi di Bogotà, uccisi perché apparentemente coinvolti nella guerra del narcotraffico. Era tutta una messinscena, una copertura portata avanti da diversi anni per far vedere che la lotta al terrorismo funzionava. Erano i “falsos positivos”. Così riporta La Stampa: «I ragazzi venivano sequestrati o reclutati da un intermediario con la falsa promessa di un lavoro. Poi erano portati a settecento chilometri di distanza, vicino alle roccaforti delle Farc, e consegnati ai militari. Lì venivano freddati e fatti passare per guerriglieri. Con montature piene di incongruenze: l’uniforme immacolata non aveva traccia dei fori di proiettile; gli stivali, simbolo dei guerriglieri, erano infilati nei piedi sbagliati; ai cadaveri veniva messa una pistola in mano, sempre nella destra, anche ai mancini. Human Rights Watch stima che i casi di «falsos positivos» siano stati oltre tremila».

Martínez ha dodici anni all'epoca, vuole giocare a calcio e sogna di diventare l'attaccante della sua squadra del cuore, l'Atlético Nacional. «Mamma se vuoi regalarmi qualcosa, regalami un pallone» diceva. Si immagina vestito di biancoverde mentre simula le urla dei suoi tifosi raschiando il fondo della gola; lo stadio Atanasio Girardot è lo scenario e a ogni marcatura parte il grido: “Dani! Dani! Dani!”. Nella sua illusione tutti provavano per un attimo a dimenticare gli orrori che la Colombia viveva in quei decenni.

Perché a Soacha nel 1989 – Martínez non era nemmeno un pensiero – Escobar fece uccidere Luis Carlos Galan, candidato presidente. E poi c'è tutto quello che conosciamo: sequestri, ritorsioni, e ancora omicidi legati a corruzione e narcotraffico. Questo è il contesto.
Dani Martínez è ancora un bambino quando si ammala. Lo ricoverano a causa dei “nacidos” ovvero una sorta di foruncoli causati da batteri che gli si formano in tutto il corpo come una mappa delle stelle. Viene curato con antibiotici che gli fanno perdere moltissimo peso. Sua mamma dirà: “E dove sono finite le sue guance?”, racconta un giornale colombiano.

E Daniel Martínez anche a causa di quel problema si mette a fare sport per recuperare il tono muscolare, mentre a scuola si distingue come studente modello. È il primo della classe e oggi racconta che se non avesse fatto il corridore avrebbe studiato Marketing Internazionale all'Università. Lavora come commesso in un negozio e arrotonda vendendo a scuola i dolci che i genitori gli regalano. Con i pesos guadagnati un po' alla volta, si comprerà l'attrezzatura per correre in bicicletta andando a sostituire la sua vecchia monareta, una sorta di piccola Graziella che gli aveva dato suo fratello maggiore.

Ma prima di salire su una bicicletta l'episodio che cambia la sua vita. Insieme al suo amico di sempre, con il quale combinavano guai da ragazzini e grazie ai quali si riuscivano a tirare fuori dai veri problemi legati alle gang e alla droga, devono presentarsi l'ultimo giorno utile per iscriversi alla scuola calcio di quartiere. Il suo amico, però, manca l'appuntamento. Martínez è talmente deluso che scappa via piangendo. Suo fratello lo porterà a correre in bicicletta quella sera, e da lì, Dani Martínez non smetterà mai più di intonare la sua musica iniziando a trovare conforto e ispirazione proprio da chi, prima di lui, andava in bici. Quel qualcuno era proprio Yeyo, suo fratello. Hanno solo una bici e Yeyo la presta al piccolo Dani il giorno delle gare. Dani abbassa il sellino e poi batte tutti nelle kermesse di quartiere.

La sua prima gara vera e propria, invece, è un disastro. Partecipa a un criterium vicino Bogotà con un mezzo imprestatogli da un autista di autobus appassionato di ciclismo che nei suoi viaggi aveva sentito quel ragazzino blaterare di ciclismo per ore e ore, finendo per diventarne un suo tifoso – e pare lo sia ancora. La sua corsa termina dopo poche centinaia di metri. Cade, Martínez non è abituato a una bici di quel genere: ha persino i cambi!
E da lì prosegue dritto per la sua strada, un cammino che lo porta a vincere ogni settimana un trofeo sempre più importante, e con i soldi guadagnati facendo lavoretti, oltre alla bici si compra una divisa dell'Astana: Alberto Contador è il suo secondo idolo, dopo il fratello maggiore.
Lo chiamano Correcaminos, Dani, l'uccello che noi conosciamo come Roadrunner, “Beep beep”, il nemico di Willy il Coyote. Ed effettivamente è difficile da prendere quando va via. Piccolo, ma non uno scricciolo come tanti altri scalatori colombiani; teso come una corda di violino, ma sempre sorridente, Dani Martínez è uno dei corridori più riconoscibili in gruppo.

Gomiti larghi e appuntiti, schiacciato sulla sua bici, appena arrivato in Europa ha corso per un periodo in Italia con la squadra di Luca Scinto. In sordina rispetto ad altri suoi connazionali giudicati dotati di maggiore talento, Martínez ha sempre avuto la nomea di corridore perfetto per le corse a tappe. E lo dimostra la capacità di vincere sia a cronometro che in salita – proprio come Contador.

Nel 2018, mentre si allena sulle strade italiane a inizio stagione, un'automobile lo butta a terra. Martínez reagisce mandando a quel paese il guidatore che scende dalla macchina e lo massacra di botte: finirà in ospedale con un trauma cranico.

Oggi Dani Martínez è un puzzle quasi completo, porta con sé i diversi episodi della sua vita ed è uno dei più forti corridori in gruppo. Vola in salita e plana a cronometro, ma prima di vincere il Criterium del Delfinato e poi una tappa al Tour poche settimane fa, durante il lockdown ha vissuto un momento drammatico. Stava pedalando per la prima volta fuori di casa dopo due mesi. Non ce la faceva più di rulli, Zwift e tutto il resto: aveva bisogno di ributtarsi in strada, riassaporare l'avventura, l'aria, il vento. Salendo verso l'Alto de Las Palmas, un po' per far fatica un po' per godersi la vista panoramica sopra Meddelin, inizia a stare male. Vertigini, freddo, vedeva tutto nero: stava andando in ipotermia. Pensava di doversi fermare e chiamare sua moglie per farsi venire a prendere e invece resta in sella per altri settanta chilometri e torna a casa. Da lì, di nuovo, non si è mai fermato come quando suo fratello lo portò in bicicletta per la prima volta. «Non puoi pedalare e preoccuparti allo stesso tempo. Non avresti pace e tranquillità per fare ciò che ti piace di più» ama ripetere. Più che nostalgico e malinconico come una fisarmonica, è calmo come una vista su quella sua meravigliosa terra.

Foto: Bettini


Parlate di psicologia, senza paure

Chi comunica, giornalista o meno, deve fare una scelta: raccontare ciò che la gente vuole sentire oppure raccontare ciò che sente e crede giusto, aldilà dei momentanei riscontri del pubblico. Chi fa la prima scelta arriva in anticipo, chi fa la seconda impiega più tempo e spesso non viene compreso. Il punto è: cosa ti interessa? Se ti interessano facili applausi e altrettanto facili riscontri non devi avere dubbi, scegli la strada del consenso ad ogni costo, dì quello che tutti vogliono sentire e ometti ciò che la gente teme o non capisce. Se invece, come auspicabile, prima del consenso e del riscontro delle persone che ti ascoltano o che ti leggono, poni un’idea del circostante, un tuo personale credo o semplicemente una certa onestà intellettuale, in questo caso la via giusta da prendere è la seconda. Quella che si preoccupa di trasmettere qualcosa di proprio e di vero, giusto o sbagliato si vedrà. Qualcosa che, almeno in quel momento, ritieni giusto comunicare perché ci credi, perché credi nella giustezza e nella forza di quel messaggio. Detto questo ognuno compie la scelta che ritiene giusta e se ne assume le responsabilità.

Già, perché ci sono grosse responsabilità. Sia quando dici qualcosa, sia quando lo ometti o vorresti farlo. Per esempio bisognerebbe riflettere quando si dice «non parliamo di psicologia perché alla gente fa paura», come accaduto ieri durante una trasmissione televisiva. Sarebbe grave anche non volerne parlare per un proprio gusto personale (perché bandire certi argomenti?) ma ancor più grave è rifiutarsi di parlarne per i gusti o le idee della gente. L'assunto non è errato. C'è della verità: purtroppo, ancora oggi, le persone hanno paura di parlare di psicologia o psichiatria. Sapete perché? Per quel vizio, deprecabile, di inscatolamento dei fatti e delle persone che purtroppo fatichiamo a perdere. Così le persone devono essere perfette, di successo, vincenti e, possibilmente, sempre felici. Gli uomini devono essere virili, forti, fisicati, senza dubbi o paure. Guai a piangere o ad ammettere qualunque debolezza. Le donne devono avere un fisico perfetto, misure da modelle, mai un capello fuori posto, devono sposarsi entro una certa età, possibilmente con uomo di un certo tipo, e avere figli. E via discorrendo in una lunga serie di assunti che nulla significano se non la chiusura mentale di colui che afferma. Assunti che sono alla base di grosse sofferenze psicologiche da parte di chi non vi si riconosce e spesso, per questo, viene scartato da un certo tipo di società come una caramella cattiva. Ecco, la psicologia prova a risolvere questo problema. Prova ad allungare una mano verso chi sta male "dentro", come la chirurgia fa con il dolore fisico. Il problema è che, per questo incasellamento sociale, andare dallo psicologo significa essere deboli, avere problemi, non avere certezze, non essere realizzati, avere paturnie o fisse. Tutti termini assegnati come condanna a chi soffre. Tanto a giudicare siamo tutti bravi.

Noi vogliamo dirlo forte e chiaro: si parli di psicologia. Se ne parli sempre di più, in ambito sportivo e non. Se ne parli come si parlerebbe di qualunque altro argomento. Chi si rivolge a uno psicologo non è un debole, non è un fallito, non è una persona "problematica". Chi si rivolge a uno psicologo sta soffrendo e ha tutto il diritto di farlo. Chi soffre e lo ammette ha coraggio, coraggio da vendere. Non bisogna avere paura delle proprie debolezze, sono queste a farci belli, a farci uomini e donne. Sono queste da coccolare e da ascoltare. Se chi comunica deve scegliere di omettere qualcosa, per tempo o volontà, scelga di omettere gli stereotipi, le frasi fatte, i modelli sbagliati e un certo modo di rivolgersi al mondo e agli altri, quello della faciloneria e della presunzione, che, per quanto possa riscuotere consensi e applausi, fa paura. Quello fa paura e deve far paura, non la psicologia. Punto e basta.

Foto: Bettini


Michele Scarponi, l'Etna e quel ciclismo infinito

Michele Scarponi voleva che tutto fosse perfetto per quel Giro d'Italia 2011. Per questo, a primavera, scelse insieme ai suoi direttori sportivi, Roberto Damiani e Orlando Maini, e alla sua squadra, la Lampre, di andare ad allenarsi all'Etna. "A Muntagna" come la chiamano lì, quella stessa montagna da cui si vedono le alture ma anche il mare. A dire il vero, qui sopra si vede solo nero, tanto nero: sono le pietre laviche bruciate. Sembra quasi di percepire l'odore acre del fuoco che divora lentamente la sua preda, non potendola consumare con un'unica fiammata. Fuoco che mangia altro fuoco; questo sono i vulcani. Scarponi, però, guardava altrove, a quel lontano 15 maggio che, assegnando la prima tappa con arrivo in salita, avrebbe stravolto la classifica generale. Alberto Contador, il Pistolero, e Vincenzo Nibali, lo Squalo dello Stretto, sarebbero stati lì e lui doveva essere con loro, anzi, davanti a loro. Marco, fratello di Michele, lo spiega molto bene: «Michele voleva vincere. Quando a Natale giocavamo assieme a carte, se non vinceva, ad un certo punto iniziava a scherzare, a ridere, a prenderti in giro. Poi buttava il mazzo sul tavolo e se ne andava. Se giocavamo a ping-pong e perdeva mi tirava la racchetta. Grazie a quella bicicletta, al tempo, alle tante vittorie e alle tante sconfitte, Michele è cambiato, è cresciuto. Diventato padre, Michele ha capito che oltre alla vittoria c'è qualcosa di molto più importante. Lui lo aveva capito e stava cercando di donarlo a tutti». Passano giorni, settimane, mesi ed arriva il Giro d'Italia. Arriva la nona tappa, 169 chilometri: da Messina all'Etna.

Le speranze sono tante, la realtà non è quella desiderata. Quel giorno Scarpa non c'è. L'arrivo è situato a pochissimi metri dall'albergo dove la squadra ha effettuato il ritiro pre-Giro; il luogo peggiore che possa esserci, quello dove i ricordi e le aspettative si mescolano all'amarezza per una situazione che delude tutti. Michele si chiude nel silenzio, non vuole parlare con nessuno e per giorni non sembra nemmeno un lontano parente del ragazzo che tutti conoscono. Roberto Damiani se ne accorge e ne parla con Orlando Maini: «Michele soffriva. Tutti lo raccontano come un ragazzo allegro, simpatico, divertente, se vogliamo. Scarpa era così ma dentro aveva un animo estremamente sensibile, un animo da maneggiare con cura e delicatezza. Decidemmo di aspettare qualche giorno, confidavamo nella cura del tempo per quella delusione». Quando la terza settimana di Giro si avvicina, Michele è ancora con il morale a terra. Quasi rinunciatario. Damiani va in camera da Maini: «Scarponi non può continuare così; fa male a lui ed anche a noi. Deve scrollarsi di dosso questa sofferenza e, se decide di continuare il Giro, deve farlo con la convinzione dei primi giorni. Bisogna parlarci. Tu lo conosci meglio, sai meglio come trattarlo, ci parli tu?». Orlando Maini bussa alla porta di Michele quella stessa sera.

Si siede sul letto accanto a lui, lo guarda negli occhi pensando a come impostare il discorso. Poi decide di andare dritto al punto: «I discorsi preparati non mi sono mai piaciuti, gli dissi ciò che sentivo. Iniziai così: «Michele, cosa succede? Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto per arrenderci così? Molliamo tutto, molliamo tutti e andiamo a casa in questo modo? Sei sicuro di volere questo?». Michele era molto critico verso sé stesso quando non raggiungeva il traguardo che si era prefissato. Avevamo un gruppo di lavoro forte e coeso. Michele aveva bisogno di metabolizzare. Quel discorso andò a toccare il suo orgoglio. Servivano semplicità, delicatezza, sensibilità. E lo vedevi che si riaccendeva, che iniziava a farmi domande. Sono tornato in camera in brodo di giuggiole dalla contentezza. Lavorare con Michele è stato un privilegio. Sappiamo tutti come finì quel Giro: davanti a Nibali, un successo importante. Fino a che, con la squalifica di Contador, il Giro d'Italia venne assegnato proprio a Michele».

E, riguardando le immagini della tappa di ieri, noi ripensiamo a ciò che ci disse Marco Scarponi qualche tempo fa: «Il ciclismo è infinito, ricordiamolo sempre».
Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Primož Roglič: il mondo in un istante

Nel momento in cui tagliava il traguardo della cronometro de La Planche des Belles Filles al Tour, Primož Roglič aveva una faccia che non poteva generare alcun tipo di malinteso. I suoi pensieri non li potevamo conoscere, ma erano facili da intendere; la faccia non mentiva, mentre saliva a fatica, brutto da vedere sulla sua bici, come non si era mai visto prima, e non serviva essere dentro la sua testa – per altro coperta a fatica da un casco antiestetico che pareva andare da tutte le parti - per cercare di interpretarlo.

Il mondo, quello sportivo, pareva essergli crollato addosso in un istante. Tutto, insieme alle sue certezze e a quelle della sua squadra, sembrava assumere contorni nebulosi. Una scampagnata nei Vosgi trasformata in un martirio. Soccombeva a chi arrivava prima di lui al traguardo; dopo di lui, in una presunta linea temporale di nascita, a pochi chilometri di distanza, se invece tutto ciò vogliamo ridurlo a una storia di provenienza.
Una settimana dopo, Primož Roglič si batteva come poteva: dalla Francia a Imola, avremmo potuto intitolare. Pogačar, quel ragazzo più giovane e descritto sopra in poche righe, gli apriva la strada; lui cercava di tenere il ritmo dei migliori, chiudeva sesto, beffato in corsa e umiliato da fischi e critiche da chi, dal Belgio, ripeteva: «Ma come si è permesso di non aiutare van Aert dopo quello che van Aert ha fatto per lui al Tour?» E niente, forse per qualcuno lo stato delle gambe non contava, ma va beh.

E contavano, invece, gambe e facce, e tutto sembrava uno scritto occulto, ieri, sul traguardo di Liegi. Alaphilippe? Una saetta ubriaca. Scartava da tutte le parti con quel suo modo sempre febbrile di interpretare le corse, quelle sue sceneggiate in bicicletta che sono forza, ma a volte anche limiti. Metteva giù la testa, e quasi in modo metaforico sembrava puntare una bandiera slovena sventolante a bordo strada. A destra, poi a sinistra rischiando di far cadere “tutti”. Sul traguardo alzava le braccia per godersi quel momento e farlo suo, soltanto suo, ingannando se stesso e fotografi, ingannando una corsa che da oltre un secolo bacia la primavera belga – e per una volta fa l'amore con l'autunno.

Alzava le braccia, Alaphilippe, spadaccino infilzato da Primož Roglič che non aveva compreso la portata di quell'istintivo colpo di reni. “Istant Karma”, lo ha definito Tylor Phinney prendendosi gioco di Alaphilippe, pochi minuti dopo il verdetto dei giudici che declassavano il francese al quinto posto.
Dalla Francia al Belgio passando per Imola e dagli sberleffi belgi, quel destino ci ha messo un po' di tempo prima di ingraziarsi nuovamente il talento di Primož Roglič. Uno che faceva altri sport, che faceva l'amatore, che sembrava non avere nulla a che fare con il ciclismo: scambiato per sgraziato oppure per inscalfibile. Per una volta, dopo interminabili settimane, nuovamente cavaliere di ventura e col mondo ai suoi piedi.

Foto: Bettini