Mark Cavendish vuole sempre vincere

Per un velocista mancare l'appuntamento con la vittoria è come per un cantante trovarsi senza voce all'improvviso davanti a migliaia di persone, ed è per questo che Mark Cavendish appena può si schiarisce l'ugola e parla di successi. Perlopiù successi futuri. Perché è forte la paura della sconfitta quanto è meschino il mestiere del velocista.
La sua stagione è terminata male, decisamente peggio di com'era iniziata: alla Sei Giorni di Gent ha assaggiato il duro parquet - non che fosse la prima volta - e ha chiuso la kermesse vincendo un viaggio in ospedale; silenzio assordante per qualche istante, cheto frastuono, poi, con le frasi del suo team manager, Lefevere, che se le avesse dette qualcun altro le avremmo prese quasi come parole dolci e di conforto, ma uscite dalla bocca dal funereo team manager un po' mettevano i brividi, immaginandoci un sorrisino maligno a corredo e una sorta di risata diabolica da telefilm: «Ci sono prima altre priorità, l'ospedale non è di certo il miglior posto dove firmare un contratto. Mi piacerebbe che ci incontrassimo una volta che si sarà ripreso. Tanto ha promesso di non scappare». Lefevere: ma dove vuoi che vada Cavendish? Va bene che è veloce, ma il Belgio gli ha lasciato un timbro sullo scontrino con su scritto frattura di due costole e pneumotorace.
Negli anni Cavendish ha accumulato vittorie e sfighe, un premio alla costanza in tal senso, medaglie ai mondiali, medaglie ai Giochi Olimpici, Sanremo, tappe davvero ovunque e diagnosi sbagliate che poi era un brutto virus che non lo faceva più andare avanti; la depressione e poi quattro stagioni con due successi: 1 nel 2017, 1 nel 2018, nessuna nel 2019 e nel 2020 quando arrivarono le lacrime e l'annuncio di un ritiro imminente. Non otteneva alcun risultato, non riusciva a vincere: indispensabile per uno come lui. Incredibile che qualcuno potesse ancora credere in Cavendish. Stupefacente che lui potesse credere di averne ancora.
E la Quick Step (e il funereo) ci ha creduto e Cavendish pur di correre ha offerto di pagarsi parte del suo stipendio. E così quel "ma dove vuoi che vada" all'improvviso ce lo siamo ritrovati noi in bocca, inutile negarlo.
Poi quel giro di Turchia a smentirci: 4 vittorie (come poi saranno 4 al Tour) segnano la svolta decisiva, anche se Cavendish ci tiene a specificare di essersi accorto di stare di nuovo bene, al livello che conosceva anni prima, nella prima tappa, quella chiusa al quarto posto. Da lì la sua ballata è un crescendo che a livello mediatico ha il suo picco massimo al Tour de France, in particolare a Fourges: Cavendish tornerà alla vittoria nella corsa più importante del mondo dopo quasi 5 anni e quel ricordo lo accompagna e riesce in parte a seppellirne le amarezze. «Se chiudo gli occhi - racconta in una recente intervista - vedo il grande striscione rosso "Vittel" sul traguardo di Fourges. Si avvicina e nessuno mi sorpassa. Una sensazione incredibile».
«Immagina - sostiene poi ostinato Cavendish, alla ricerca di se stesso e della velocità perduta -, c'è un sentiero con un muro alla fine. Sto andando a tutta velocità, sperando che si apra una porta. Mi dico: quella porta o si apre, o sbatto la testa».
E quella porta è rimasta aperta da Fourges fino poche ore fa quando è arrivato l'annuncio del rinnovo (visto, caro Lefevere, che Cavendish non è scappato? anzi, ti aspettava); e a noi che vinca o perda interessa poco. A lui importa, anzi è vitale, come per ogni velocista che non perderebbe nemmeno in una volata contro un bambino.

Il prato ricrescerà o di Arnaud Démare

Non è stato un anno facile per Arnaud Démare. Lo ricordiamo a Tignes, nella nona tappa del Tour de France, mentre saliva la rampa finale ben oltre il tempo massimo. «Ci sono anni in cui gira tutto bene, altri in cui non funziona nulla. È frustrante, non sai più come rimediare, ma è così. Continuo a dare il massimo, posso solo fare questo». Aveva confidato all'arrivo, prima di tornare a casa appena dopo una settimana di Tour de France.

Demoralizzato, ma non completamente sfiduciato anche durante la Vuelta. Un episodio lo aiutava: nel 2018 riuscì a vincere una tappa al Tour de France e fino alla settimana prima stava malissimo. Quando le cose vanno male ti aggrappi a tutto, anche perché nel ciclismo può succedere di tutto, ma, soprattutto per un velocista, quando la vittoria non arriva, c'è poco da fare mancano tutte le certezze. Anche pensare a uno sprint è difficile e dubiti di cose che hai sempre fatto con apparente facilità. Lo sapevano in tanti, lo sapeva la sua famiglia.

Sul traguardo della Parigi-Tours, quest’anno, c'era suo padre Josuè. Arnaud ha raccontato più volte che papà è sempre andato a trovarlo alle gare, sin da giovanissimo, e mentre tutti gli altri genitori gridavano e si esaltavano, lui stava lì, tranquillo, a guardare. Qualche settimana fa è successo lo stesso, proprio mentre Démare, dopo tempo, tornava alla vittoria sul Viale di Grammont, dove ha trionfato Richard Virenque, idolo dei francesi, soprattutto dove l'ultimo francese trionfò quindici anni fa: era Frédéric Guesdon, oggi direttore sportivo dell'atleta della Groupama FDJ.
«Sono stati mesi difficili - ha spiegato a "L'Èquipe"- è stata una stagione difficile, grazie alla mia famiglia, però, ci ho sempre creduto ed ecco il risultato». Ritorna la famiglia, ritorna il ringraziamento alla famiglia e alla moglie Morgane, come primo pensiero, proprio da lui che sull'importanza della famiglia non ha mai avuto dubbi nemmeno nelle stagioni prospere e qualche parola per i propri familiari l'ha sempre avuta perché «la famiglia è fondamentale, sempre».

Pensare che quando, nel 2018, la corsa fu rinnovata e vennero inseriti tratti di sterrato e di pavé, Démare si mostrò stizzito, dichiarò di preferire il percorso classico e che sarebbe stato giusto mantenere quello. Invece proprio Tours gli ha riconsegnato la vittoria, in modo quasi rocambolesco, all'ultima gara della stagione, dopo aver inseguito a lungo la fuga di giornata e aver ricucito solo ai cinquecento metri dall'arrivo su Bonnamour e Stuyven. Proprio a Stuyven aveva pensato nei chilometri precedenti: a quanto fosse difficile andarlo a riprendere e anche solo provare a giocarsi la vittoria. Poi l'asso nella manica, il coniglio dal cilindro, il rapportone o semplicemente la classe dei velocisti e la vittoria.


Il fuoco di Evie Richards

Al secondo giro dei Campionati del Mondo di Cross Country-Mountain Bike, Evie Richards avrebbe potuto andare in crisi. Sarebbe bastato ascoltare quella voce che la annunciava in seconda posizione, dietro a Pauline Ferrand Prevot. Richards non vedeva già più la rivale e questa distanza avrebbe potuto metterla in crisi. Se solo avesse ascoltato quella voce. Invece l’ha sentita, certo, ma non l’ha ascoltata. C’è una sottile differenza.
«Normalmente avrei iniziato a pensare che ormai era finita - ha raccontato a Cyclingweekly - e avrei iniziato ad accusare la stanchezza. Questa volta ho fatto la mia gara, mi sono detta: “Se la riprendo, la riprendo. Altrimenti va bene così”». È importante il fatto che Richards abbia ripreso Ferrand Prevot e abbia vinto la maglia iridata, ma ancora più importante è il racconto di questa debolezza su cui spesso si è confrontata con la sua psicologa. Il coraggio di parlare delle proprie paure e delle proprie delusioni.
Una è abbastanza recente: l’Olimpiade di Tokyo. Quando Richards ha saputo che sarebbe stata rimandata al 2021, è stata delusa, ma anche fiduciosa perché c’era più tempo per lavorare. In quei giorni di attesa, però, si è sfinita, facendo di tutto, dai lavori in casa, appena comprata, a un allenamento molto rigido, al punto di non riuscire quasi più a scendere le scale. Qualcuno, vedendola, glielo ha chiesto: “Ma cosa ti stai facendo? Perché?”. Aveva bisogno dell’umidità e del fango per ritrovare se stessa.
Forse anche per questo, all’Olimpiade è arrivata stanca, distrutta mentalmente prima che fisicamente, e quando gareggi in queste condizioni in mountain bike, dice Evie Richards, sai che cadrai. Così è successo e ha concluso in settima posizione.
Poteva essere un sogno rovinato perché aveva sempre desiderato di andare alle Olimpiadi, fin da ragazza. Poteva ma non è stato così. Quando Richards è arrivata al ciclismo non aveva quasi mai visto una gara, non sapeva come fosse fatta una bici, dove mettere le mani in caso di foratura o di incidente meccanico, eppure, a soli venticinque anni, è diventata campionessa del mondo. Non si butta via tutto per una sconfitta perché, col tempo, Richards ha capito che la sconfitta non tocca il valore di una donna o di un’atleta. Accade e passa, come le vittorie, in fondo.
Sua madre le invia un messaggio prima di ogni gara. Non sappiamo cosa le avesse detto prima dell’Olimpiade, forse qualcosa che ha a che vedere con il cogliere ogni occasione per imparare ed essere felici anche se impari da sconfitto. Sì, perché ancora oggi Richards è orgogliosa del risultato di Tom Pidcock, suo connazionale, ed è certa che se ha vinto il mondiale è anche perché ha visto lui gareggiare e ha avuto la pazienza di guardare e imparare, nonostante si sentisse triste e scoraggiata. Anche prima del Mondiale sua madre le ha mandato un messaggio “Il cielo sopra di me, la terra sotto di me, il fuoco dentro di me” e ci viene da pensare che avesse visto bene dentro Evie perché, nonostante le sconfitte e le delusioni, quel fuoco non era ancora spento e aveva solo bisogno di nuova legna da ardere.


Sentirsi uno dei migliori

Si potrebbe definire Eli Iserbyt oramai quasi un gigante di questa disciplina e come a tutti quelli che vanno forte anche la fortuna gli dà una mano.
Mentre pedala nel fango verso il traguardo del quinto dei sei giri della prova di Coppa del Mondo a Besançon, guarda la ruota posteriore del suo avversario Aerts.

Poi succede qualcosa, la faccenda già la conosciamo pur essendo un popolo smemorato a dismisura. Aerts va lungo e cade, rialzandosi sembra persino tentare uno sgambetto – un colpo a metà tra il tackle e la arti marziali di cui Aerts, col fisico che si ritrova, potrebbe esserne un degno rappresentante. Ma nessuno può conoscere con sicurezza le vere intenzioni, anche analizzando il fotogramma o chiedendo lumi ai santoni del VAR; bisognerebbe chiedere consiglio a chi sa leggere la mente per capire cosa ci fosse in quel gesto che magari era semplicemente un modo per fare leva sul suo corpo su un terreno fangoso e scivoloso, per poi rialzarsi.

Dopodiché sarà stato il puro caso o per una questione di spazio e tempo, Eli Iserbyt passava di lì in quel momento esatto e lo evitava, fate voi come chi. Quando si è bravi, quando si sta per diventare giganti, tutto fila liscio, persino la Signora Fortuna tende a stare dalla tua parte.

Beh comunque, intervento difensivo di Aerts e fortuna a parte, Iserbyt va forte, e tutto gli va dritto ciclocrossisticamente parlando, a prescindere da quello che è successo.

Nemmeno elenchiamo il palmarès, ma stiamo sull'attualità: 12 (dodici!) vittorie in questo inizio di stagione che è roba proprio à la van der Poel (Alamathieu). Avversari? Van Aert è tornato e li ha già messi in croce; Aerts è sempre lì, ma non basta, a Sweeck manca sempre qualcosina, sarà per quella faccia da tenerone, Ronhaar è esaltante se non altro perché la carta d'identità fa impressione, mentre van der Haar dà spettacolo a intermittenza come la luce di una vecchia insegna al luna park. E il luna park è quell'enorme sagra paesana del ciclocross, un fatto viscerale per i belgi, di folklore, tradizioni e campanili. Ci sono state sfide selvagge a dir poco, mentre oggi tutto appare più tranquillo. Una passione che va oltre tanto che «quando vai per strada la gente ti riconosce perché d'inverno tutti guardano il ciclocross» racconta Iserbyt. Ciclocross che riversava in altri momenti migliori per l'umanità fiumi di birra e quintali di grasso dentro tendoni con musica folk dance - mentre ora, ahinoi, si ricominciano a vedere le gare a porte chiuse.

Prendiamo solo a margine la polemica di Nys: secondo lui non è proprio giusto, no, no, pagare van der Poel e van Aert per partecipare alle gare di Coppa del Mondo (ma d'altra parte l'attenzione gira tutta intorno ai due re della pista da ballo, e lo diciamo a scanso di equivoci che le vittorie di Iserbyt sono arrivate senza la presenza dei due); mentre a Iserbyt diamo quello che è di Iserbyt, e non sono solo bici e guanti, casco e premi, o un bacio come ha fatto la sua ragazza subito dopo il traguardo l'altro giorno. Diamo a Iserbyt i suoi meriti.

Sentendolo parlare non è proprio uno di quelli banalissimi, ma nemmeno uno che staresti ore a sentirlo discutere, diciamo una bella via di mezzo come è giusto per un ragazzo di 24 anni che va in bici: Iserbyt dice di se stesso di non poter mai arrivare all'altezza di van der Poel - tanta franchezza ci mancava.

Se qualcuno volesse conoscerlo fuori dalle corse sappia che arriva da Bavikhove, Fiandre occidentali, ha due cani e parla quattro lingue, che giocava a calcio, ma il suo primo amore (pensiamo in senso sportivo) è stato il ciclocross che praticava inizialmente per diletto quando lo vedeva in televisione nei week end. Su strada sarebbe valido e (come tutti, grandi e piccini) sogna di partecipare al Tour de France, ma servirebbe solo qualcuno che glielo facesse correre, anche in funzione ciclocross: dal punto di vista del motore, forse, potrebbe essere la svolta della sua carriera.

Iserbyt, che per caricarsi ascolta musica dance, per coricarsi non sappiamo, non sempre corre con i guanti e si considera forte, sì, ma soprattutto: uno che dà sempre il massimo (beh!). In una recente intervista afferma come intorno a lui «tutto sembra diventato più grande, ma nonostante le vittorie non mi sento il migliore al mondo. Cerco solo di vincere il più possibile». Onestamente, Iserbyt.


Van Aert e il primo amore

Può sembrare scontato parlare di maschere di fango in una gara di ciclocross ma non si può fare altrimenti. Almeno oggi, almeno per il Superprestige di Boom dove Wout van Aert è tornato ad assaggiare il fango. Talmente tanto da sembrare quasi sabbie mobili che assorbono le ruote, che ti trascinano a fondo, perché non si limitano a farti cadere, a immergerti nella terra, ma ti assorbono, quasi a lasciare un’impronta, uno stampo da cui è difficile uscire. Prede nella tela del ragno, sono così oggi gli atleti.

Van Aert aveva parlato a “L’Èquipe” in questi giorni. Aveva detto che gli faceva piacere tornare e sperava facesse freddo e ci fosse il classico fango belga. Che a una gara di ciclocross è come l’odore di umido e il profumo di patatine fritte che evapora. Essenza dell’inverno e delle nebbie.

Un assolo quello di van Aert, proprio dopo la scivolata di Toon Aerts, prima della sua scivolata e della rincorsa con la bici in mano, alzata da terra per sfuggire all’attrito, al risucchio. Solo stamani i quotidiani ricordavano i tempi in cui i giovani van Aert e van der Poel duellavano nel cross, quasi con una lieve nostalgia. Che è voglia di ritorno, infatti van Aert torna e tutti se ne accorgono.

Ha raccontato che quando ha scelto di dedicarsi alla strada molti suoi tifosi del cross non l’hanno presa bene, quasi un abbandono. Ma lui non voleva questo: «Avevo già vinto diversi titoli, uno in più non cambiava nulla se non avessi provato la strada». E sulla strada ha messo la stessa grinta che serve per uscire indenni da quei sentieri melmosi. Riguardate la Sanremo del 2020 o il Ventoux al Tour 2021, fra le altre cose e sentirete ciò di cui parliamo. Quella scossa che ha che fare con il modo in cui si batte e, spesso, vince. Qualcosa di primordiale.

Oggi ha fatto lo stesso, davanti a Toon Aerts e Van der Haar, Iserbyt quarto, Pidcock settimo. E non è finita qui perché dicembre è una vigilia continua, non solo di feste. «Se dovesse arrivare il giorno- ha aggiunto- in cui mi mettessero nella condizione di scegliere tra cross e strada, sceglierò. Ma sarà un colpo al cuore perché il ciclocross è il primo amore e credo sia compatibile con l’attività su strada. Fino ad allora in inverno tornerò nel fango». Basta nostalgia. Si vive il presente.


Qualcosa è cambiato

Qualcosa è cambiato ma non tutto negli ultimi due anni di Heinrich Haussler. A fine 2019, di questi tempi, scopriva la bellezza del ciclocross. Si sarebbe preso a botte in testa per non averlo scoperto prima, sognava di non farsi doppiare da van der Poel al Mondiale e restava a bocca aperta guardandolo passare nelle ricognizioni dei percorsi.
Qualcosa è cambiato ma non tutto; quest'anno, come quello prima, Haussler deve fare i conti con un budget che dipende da quello che ha in tasca. Paga lui: bici, trasferte, persone che lo supportano e lo aiutano e quelle persone spesso sono amici e tifosi.
Lo prendono per pazzo per come riesce a portare avanti il suo amore per lo sport ma è che solo così riesce a stare concentrato e sopportare i sacrifici; a Tabor, un paio di settimane fa, è caduto, si è ferito, sanguinante ha chiuso la gara, finita la gara non ha nemmeno fatto la doccia e ha guidato per sette ore ed è rientrato a casa alle 2 di mattina.
Ama freddo e pioggia e - sappiamo bene - corre le classiche del Nord senza guanti. Pare sia questo che lo abbia spinto a provare il ciclocross. Gli inverni che passa gareggiando, sostiene fermamente, lo aiuteranno ad avere una carriera più longeva. 37 anni, ha avuto alti entusiasmanti e sbandate che potevano costargli più che una semplice fine anticipata della sua vita agonistica.
La storia nell'ultima stagione lo ha raccontato di fianco a Colbrelli, presente con profitto alla Roubaix (1° Colbrelli, 10° Haussler), lo ha abbracciato in lacrime tagliato il traguardo: era stato fermo due mesi in estate per preparare al meglio l'Inferno del Nord.
Qualcosa è cambiato: «Sto invecchiando e il ciclocross mi aiuta a mantenere la forma d'inverno». Lo aiuta a stare sul pezzo e ad allungare la sua vita da corridore anche, o soprattutto, su strada.
Se gli chiedono cosa gli piace del ciclocross dice che è così bello che non sarebbe descriverlo a parole. Così bello che una volta disse che se un giorno i suoi figli gli dovessero chiedere di correre in bici, lui sarebbe persuaso di mandarli a praticare questa disciplina.
Questa parte finale l'abbiamo già raccontata tempo fa, ma meritava di essere ricordata. Perché qualcosa è cambiato in Heinrich Haussler, ma non tutto.


La prima volta della BORA-hansgrohe alla Cape EPic

Quando, qualche settimana fa, Lennard Kämna e Ben Zwiehoff, atleti del team Bora-Hansgrohe, sono partiti per il Sud Africa, per la diciassettesima edizione della Cape Epic non l’hanno detto quasi a nessuno. A frenarli, forse, lo spirito competitivo, sviluppato nel loro percorso nel ciclismo professionistico su strada. Non si erano preparati per questa gara e qui pensare di competere ad alti livelli senza un’adeguata forma fisica è praticamente impossibile visti i 700 chilometri e i più di 16.000 metri di dislivello suddivisi in sette tappe, nell'arcigno Western Cape del Sud Africa. Due partecipanti per ogni squadra e l’obbligo per ciascuno dei due di completare la corsa.

«Chi vuole vincere - spiega Ben Zwiehoff - si prepara tutto l’anno per questa gara, è totalizzante, non puoi affidarti all’improvvisazione. Ho corso in mountain bike, so cosa significa. Sono venuto qui per provare e anche per ritrovare una mia vecchia passione». Il punto, probabilmente, è proprio trovare la capacità per raccontare questo divertimento spensierato da parte di chi abbina da sempre ciclismo e risultati. «È una sensazione strana - prosegue Kämna - perché noi viviamo la competizione e quindi la scorgiamo ovunque. Riuscivamo a vedere la competizione fra gli altri ma allo stesso tempo eravamo sereni, pensavamo solo a goderci il momento. È strano».

Nel mezzo catene montuose gigantesche, dirupi vertiginosi, foreste selvagge, vigneti intatti, coste da togliere il fiato e città sconosciute ai turisti. Ma anche, e soprattutto, per gli atleti la polvere riarsa dal sole delle strade, le rocce delle salite e le insidie delle discese, per non parlare degli attraversamenti dei corsi d’acqua.
Dopo il primo giorno, Kämna è stanchissimo, vorrebbe arrivare alla fine ma, per come si sente, non riesce nemmeno a immaginare altri giorni così. «Mi faceva male ovunque, non ero abituato a tutti questi su e giù. Il segreto è avere la pazienza di aspettare il giorno successivo e provare a ripartire». Al mattino va meglio, riparte e proprio perché non ha nulla da perdere si gode il momento, il paesaggio. Nonostante il mal tempo e quella polvere che diventa maschera, che ricopre il viso e, seccandosi, quasi pietrifica la pelle.

A vincere, per la cronaca, sono Jordan Sarrou e Matthew Beers, concludere la corsa, però, non ha a che vedere con il numero del tempo o del piazzamento, bensì con la possibilità di mostrare qualcosa di nuovo nel suo genere. Che cos’è il ciclismo? Kämna e Zwiehoff rispondono. «Di certo il ciclismo non è solo il ciclismo su strada. Ci sono molte forme di ciclismo e altrettanti modi di viverlo. È sempre ciclismo, ma declinato in una maniera diversa».

Per Kämna, in fondo, è qualcosa che ha a che vedere con l’apertura mentale, senza il bisogno di incasellare sempre tutto in specifiche categorie che finiscono poi per limitare. Divertirsi può bastare. Per Zwiehoff è qualcosa che riguarda il volto dolce e gentile dell’Africa, la sua accoglienza e le sue possibilità. Per entrambi è solo e semplicemente ciclismo.


Il record del mondo di Christoph Strasser

Cosa può significare stare ventiquattro ore in sella a una bicicletta? Cosa senti dopo dieci o venti ore a pedalare? Fin dove arriva l'acido lattico e quanto tira ogni singola fibra dei muscoli? Qual è la linea di confine tra il piacere, il dolore e la resistenza? Christoph Strasser, trentotto anni, tra il 16 e il 17 luglio, presso la base aerea di Hinterstoisser a Zeltweg, in Austria, è stato raggomitolato su una bicicletta per ben ventiquattro ore, sotto una pioggia battente, ed ha percorso 1026,2 chilometri alla media di 42,75 km/h, stabilendo il nuovo record mondiale. Strasser è stato il primo ad andare oltre i 1.000 chilometri in questa prova. E non si fa per dire, perché, a conti fatti, Strasser ha davvero pedalato 24 ore, solo due minuti di inattività, quelli del cambio gomme.
Strasser non è nuovo a prove di questo tipo. Dopo aver corso la Race Across America, nel 2011, aveva provato a stabilire il nuovo record del mondo di distanza nelle 24 ore a Berlino in Germania e ce l'aveva fatta, ma non era del tutto soddisfatto perché non aveva raggiunto il suo obiettivo, all'epoca 900 chilometri. Era tornato a provarlo in pista, in Svizzera, per avere le condizioni ottimali, e c'era riuscito, per la seconda volta: 941 chilometri, sempre, però, lontano dai mille. Ma c'era il suo allenatore a dire che era possibile andare oltre ai mille chilometri e che lui era l'uomo giusto per farlo.
Quel giorno di luglio era tranquillo, perché il suo tentativo ufficiale sarebbe stato mesi dopo, in Colorado, in fin dei conti quella era solo una prova per verificare a che punto fosse la sua preparazione. Le prime ore sono sempre le più difficili perché la posizione aerodinamica che sei obbligato a tenere per aumentare la velocità crea dolore ovunque; Christoph lo sa, dopo le prime due ore andrà meglio, bisogna proseguire e tentare di non pensarci: «Quante volte può capitare qualcosa del genere nella vita di un atleta? Quando pensi di mollare devi ricordarti che potrebbe non succedere più, perché certe possibilità non ritornano».
Anche il circuito sembra fatto apposta per portare fuori velocità: pianeggiante, 7,58 chilometri a tornata, curve veloci. La parte più difficile è forse quella più affascinante: “pedalare attraverso la notte” come dice lui. Non c'è particolare segnaletica e talvolta, nelle curve, le ruote vanno a toccare la parte di brecciolino a bordo strada. E Strasser si mangia le mani: «Perderai trenta secondi per volta ma è molto fastidioso». Quanti metri potevano starci in quei secondi?
La pioggia che cade è come il tempo. Quando le gocce si fanno più dense, più fitte, pensi di non farcela, poi l'acqua rallenta e tu riprendi a sperare. Solo alla fine è diverso, perché come il traguardo si avvicina quasi non senti più la pioggia e quel tuo body inzuppato che ti rallenta, che pesa come non mai. Non puoi mangiare, così tutto l'apporto energetico lo trai da ciò che bevi. E continui, senza pensare, spingendo solo sui pedali.
«Quando ho passato le ventitré ore ero sfinito, ma come ho oltrepassato i mille chilometri tutto ha lasciato spazio alla felicità». Il luogo è particolare perché a pochi chilometri da lì c'è il posto in cui Strasser ha provato il primo record sulle ventiquattro ore, soli, si fa per dire, 400 chilometri, l'inizio di tutto. Un cerchio che si chiude o che si apre e fa spazio a tutto ciò che può ancora accadere. Ad attenderlo ci sono circa trecento persone che restano lì nonostante la pioggia in una pazza giornata d'estate. Lui arriva, scende di bici, guarda verso il cielo, quasi a sciacquarsi il viso dal sudore con quell'acqua. Sorride e scherza: «Dopo questa giornata, penso che abbandonerò il ciclismo». Strasser ce l'ha fatta, il suo allenatore, tanti anni fa, aveva ragione.


Kenny De Ketele: un attore nelle Sei Giorni

Probabilmente non doveva andare proprio così ma chi va in bici è abituato ai cambiamenti e agli imprevisti. Ti cade qualcuno davanti? O sei un funambolo o il più delle volte finisci a terra. Buchi una ruota nel momento meno opportuno? Uno dei grandi classici. (Ma poi esiste un momento opportuno per una foratura? No, non facciamoci ridere dietro; forse appena usciti di casa, ma non succederà mai, è molto più facile che bucherai quella volta che ti sarai dimenticato tutto il necessario per cambiare o riparare la ruota e avrai il telefono scarico e sarai nel punto più lontano della terra rispetto a casa tua a o qualsiasi altra abitazione, ma questa è un'altra storia).
Non doveva andare così per Kenny De Ketele - nome bellissimo, sfido a trovarne dieci che suonano meglio - presenza immancabile su pista per almeno una dozzina di anni. Non c'era americana senza Kenny De Ketele, non c'era Sei Giorni senza Kenny De Ketele, spesso non c'è stata nemmeno corsa a punti, o, più di recente, omnium, senza Kenny De Ketele. Insomma: presenza costante, quasi asfissiante.
Non doveva andare così per Kenny De Ketele ma chiariamo da subito: mica gli è andata male, anzi. L'ultima volta che ha corso ha vinto e non una garetta qualunque. La Sei Giorni di Gent, la "sua" Sei Giorni. Una di quelle corse un po' folli da sembrare irriverenti, tutta pathos ed ebrezza. Piena di colori e dove i suoni arrivano dal pubblico sugli spalti che esulta e poi trattiene il fiato, e dove tutto appare un eccesso di aggettivi enfatizzati.
Quelle che Rino Negri diverso tempo fa raccontava così: "Sono un circo, con la differenza che non c'è la puzza degli elefanti, dei cammelli, delle fiere, dei cavalli e degli orsi".
“Perché Folli?”, si chiedeva ancora retoricamente Negri nel suo "I Folli delle Sei Giorni", “per esigenze di spettacolo i seigiornisti sono tenuti a fare gli acrobati e a volte i clown. E corrono rischi che fanno accapponare la pelle. Quindi folli in senso buono, simpatico”. I tempi sono cambiati, è vero, ma in una Sei Giorni non manca mai agonismo ai limiti del gran varietà.
Kenny De Ketele (ripetiamo: quanto suona bene questo nome?) si inserisce a pennello nel contesto se non altro per qualità e fiuto: 22 Sei Giorni vinte, l'ultima pochi giorni fa a Gent (per la quinta volta, staccando, fermi per sempre a quota 4, Van Steenbergen e Merckx), nel velodromo Kuipke, dove è praticamente nato, in coppia con Robbe Ghys. Al termine di una rimonta che ha fatto impazzire il pubblico rimasto col cuore in gola per la brutta caduta che mandava Cavendish gambe all'aria e in ospedale.
Ma non doveva finire così: De Ketele ha salutato una parte del circus che lo ha omaggiato (e Ghys piangeva sotto casco e occhiali), ma avrebbe voluto farlo pochi giorni dopo in maniera definitiva, a Rotterdam, nell'omonima Sei Giorni in coppia con Terpstra. «Sarà la prima volta che correrò con lui - diceva -, ma lo conosco bene: meglio correrci assieme che contro» un concetto che intorno al passista olandese hanno espresso spesso diversi corridori. Ma nulla da fare: corsa annullata, niente congedo finale. A Gent ha salutato il suo pubblico, a Rotterdam voleva farlo con il resto del suo mondo seigiornistico, il concetto spiccio.
36 anni, nato in Belgio, De Ketele (ma che bel nom... ok basta) di cui 17 passati da professionista, specialista (si capisce) della pista, la prima volta che ha corso in un velodromo si dovette arrangiare. Era una gara omnium per ragazzi di 14 anni, proprio a Gent proprio al Kuipke, ma c'erano così tante persone iscritte che fecero una crono di 500 metri per selezionare il numero giusto: non riuscì a superare la qualificazione.
Ha attraversato un pezzo di storia della specialità sfidando Risi, Cavendish, Mørkøv, ha fatto coppia con il meglio della pista belga degli ultimi 20 anni, ha vinto medaglie mondiali ed europee e miliardi di titoli nazionali. Sostiene che i rapportoni esagerati siano un po' un rischio per i seigiornisti, ma che aumentano lo spettacolo.
E a proposito di spettacolo: ha annunciato che una volta sceso dalla bici vorrà provare a recitare nel cinema, ma nel frattempo è il maggiore candidato a diventare nuovo commissario tecnico della pista belga.
C'era qualcuno che sosteneva fossero matti, dei clown, sicuramente uno di loro potrà diventare un attore e se tutto andrà per il verso giusto pure selezionatore della nazionale. È andata come doveva andare, Kenny De Ketele. A proposito: bel nome.


Pidcock al Giro?

Forse. Almeno questo è il suo desiderio. Certo sarà un lungo periodo caotico e dovrà ricordarsi di cambiare bici - a meno che non si metta in testa di correre il Giro con una mountain bike o di provare a vincere l'Amstel con la bici da ciclocross, ma non divaghiamo.
Questo fine settimana lo vedremo all'esordio stagionale nel fango e poi in primavera a lottare con i soliti noti nelle classiche, e lui potrà puntarle tutte: da quelle italiane a quelle fiamminghe, pietre o colline poco cambia quando si va forte.
E poi vorrà correre in Italia e c'è quel desiderio espresso di fare il Giro: saranno squadra e forma ad avere l'ultima parola. Noi ci sfreghiamo le mani all'idea di Pidcock dalle "nostre parti", se fosse necessario potremmo pure raccogliere delle firme: "Pidcock al Giro". Tuttavia terreno per dare spettacolo ne avrà a patto di non arrivarci troppo stanco dopo l'intensa attività cross-classiche.
Oltretutto potrebbe essere anche un esempio da dare a quelli che, tanti, puntano sulle gare di un giorno in primavera e poi ricaricano le energie nel periodo che casualmente prende quelle tre settimane di maggio.
Ogni tanto un po' di partigianeria non guasta soprattutto se si parla di Corsa Rosa e di corridori che possono dare un valore aggiunto. E allora forza Tom, ti aspettiamo.