Benoît Cosnefroy e la foto ricordo

Non appena tagliato il traguardo del fu Gp de Plouay, oggi Bretagne Classic, Benoît Cosnefroy si è visto avvicinare da un ragazzo, in verità un uomo, con una maglia diversa dalla sua ma così rinoscibile in mezzo al gruppo. Con quel ragazzo-uomo, pochi minuti prima, quando mancavano una ventina di chilometri al traguardo, si era mandato a quel paese: «Che fai? Non tiri? Ci riprendono!». Ma Benoît Cosnefroy conosce lo spirito del terzo tempo e una volta finita la corsa dimenticherà tutto prendendosi pure i meritati complimenti.

Qualche anno fa a Montréal, Gp de Montréal, Benoît Cosnefroy si stava involando verso l'arrivo. C'era di nuovo quel ragazzo-uomo, stavolta con una maglia diversa, invece che bianca con quei cinque colori messi in cerchio come quella indossata a Plouay, tutta blu; lo riprese a poco dal traguardo; invece di tirare dritto gli si mise a ruota e ci fu una scena simile: Cosnefroy si girò e lo mandò diretto a quel paese, diritto di fronte alle telecamere.

Ci fu un belga che li riprese e li fulminò, quel belga aveva un casco dorato, figlio della vittoria ai Giochi Olimpici di qualche anno prima. Superato il traguardo, il ragazzo-uomo in tredicesima posizione, Cosnefroy poco più dietro, i due si chiarirono: «Non ne avevo più» disse uno. «Nessun problema» disse l'altro «D'altra parte, tu sei il mio punto di riferimento» sentenziò Cosnefroy. «Spero un giorno di poterti battere».

Qualche anno prima ancora, è il 2015, Cosnefroy era un dilettante di belle speranze, poco più di un bambino con gli occhiali. Dalla Normandia, dove vinse una corsa che portava il suo stesso nome - al Tour des Pays de Savoie. Un’auto entrò nel circuito e lo prese in pieno. Benoît ricorda poco o nulla di quella scena, se non di essersi ritrovato in un letto d'ospedale con un edema cerebrale. Una trasfusione per salvargli la vita. Cinquanta punti di sutura tra faccia e collo che si fermarono a tanto così dalla carotide. Sa di essere sopravvisuto per miracolo e ricorda le notti a svegliarsi all'improvviso («era il mio corpo che ricordava il trauma»), che per i primi mesi faceva fatica persino a pronunciare alcune parole, mentre il braccio pareva quasi inutilizzabile. Ricorda di essere ingrassato, che pensava solo a mangiare. Una volta tornato a correre e passato poi professionista lo iniziarono a paragonare a quel ragazzo-uomo che da lì a qualche anno avrebbe spesso incrociato lungo le strade di tutto il mondo (ciclistico).

Succede così domenica scorsa: Benoît Cosnefroy si ritrova testa a testa con Alaphilippe, ragazzo che si è fatto uomo, punto di riferimento di un intero movimento, idolo ciclistico di Benoît. I due arrivano assieme al traguardo, Alaphilippe non ha le gambe dei giorni migliori, Benoît, dopo i problemi accusati alla fine del Tour 2020, sì. Sembra quello che vinse un mondiale Under 23 nel 2017, quello che scattava a Montréal o che chiudeva secondo alla Freccia Vallone e alla Paris-Tours. Cosnefroy conosce bene il finale che porta a Plouay, ma sa che Alaphilippe è forte, veloce. È il favorito. Lo fa sfogare sul rettilineo, e mentre Alaphilippe digrigna i denti, lo salta via.

Superato il traguardo, tutto si dimentica. La maglia, l'agonismo, la rivalità - Alaphilippe gli si avvicina: «Sei stato il più forte - gli dice - te lo meriti». Cosnefroy si tiene stretto i complimenti, e alla domanda su cosa si provi a battere il suo idolo, ci scherza su: «È una sensazione speciale. La foto penso che la incornicerò. Forse non l'appenderò nel soggiorno, ma la terrò nell'album dei ricordi».


Il morso del Cobra

Lasciatecelo dire: vedere Sonny Colbrelli correre come ha corso oggi, a pochi giorni dagli Europei in Trentino, lascia spazio all'immaginazione. E poco conta che si tratti soltanto del Benelux Tour, dovremmo tornare a entusiasmarci senza fare le pulci a ogni emozione.

Sonny Colbrelli solletica l'immaginazione come ogni ciclista che parte da solo in fuga quando al traguardo mancano ancora molti chilometri e gli altri si stanno studiando. Come ogni "uomo da solo al comando". La sua maglia è verde, bianca e rossa, avrebbe detto molti anni fa Mario Ferretti. Noi lo abbiamo pensato, ve lo diciamo.

Il Cobra che parte ai cinquanta chilometri dall'arrivo di Houffalize insieme al compagno Mohorič e allo svizzero Hirschi e forse potrebbe anche starsene tranquillo e sfruttare la superiorità numerica per portare a casa il risultato. Invece no, si volta verso il compagno di squadra e gli dice: "Uno scatto per uno e lo stacchiamo". Gioco di logoramento.

Lo svizzero non riesce a reggere la frustata di Colbrelli che, ai venticinque dal traguardo, sceglie la solitudine e saluta la compagnia. Hirschi subisce il gioco di Mohorič, un perfetto alleato del fuggiasco: dapprima rallenta il ritmo, provoca, innervosisce, poi, al rientro del gruppetto guidato da Tom Dumoulin rompe i cambi e favorisce l'assolo. Un assolo sudato, senza un attimo di tregua, col cuore in gola, perché dopo venticinque chilometri di fuga vuoi vincere.

"Non avevo mai fatto qualcosa di simile in vita mia. Me lo ricorderò sempre. Spero solo di recuperare per domani". Fra meno di ventiquattro ore avremo la risposta, ma non è ciò che più ci interessa. Già, perché quando Colbrelli decide di inventare non si ferma molto facilmente e giornate così possono solo contribuire ad accrescere l'immaginazione.
La sua e la nostra, perché tra pochi giorni c'è l'Europeo. Non dimentichiamolo.


Andrea ha scelto la libertà

Quel giorno di venticinque anni fa, alla stazione di Monza, Andrea Pusateri scappò dalle mani della madre mentre stava transitando un treno. Aveva solo tre anni e nell'impatto perse entrambi gli arti inferiori, sua madre diede la propria vita per salvarlo. Solo il tempestivo intervento dei medici ha permesso ad Andrea di recuperare la gamba sinistra. Mesi di ospedale e poi il ritorno a casa, dai nonni che l'hanno cresciuto. «Mi hanno insegnato che nella vita bisogna essere felici perché solo la felicità rende liberi. La libertà vera non esiste quando sei triste, deluso o arrabbiato. Devi essere felice per scovarla». Andrea ricorda bene che tanto i nonni quanto lo zio cercarono da subito di avvicinarlo allo sport e oggi capisce perché.

«Le discipline paralimpiche di fine anni ‘90 avevano quasi nulla a che vedere con quelle odierne. Portavano, però, la consapevolezza che nello sport gli ostacoli vanno superati e che non ottieni quello che desideri se non con la tua fatica e il tuo sudore, il tuo talento e il tuo merito». Una consapevolezza che si fa strada col tempo e si espande in ogni scelta. Andrea assiste alle gare in bicicletta di un amico: la bicicletta gli piace, ciò che fa il suo amico lo affascina e non capisce perché non possa riuscire anche a lui ad andare in bicicletta. Ripensandoci oggi ha chiaro come tutte le scelte più importanti della sua vita siano nate così, da un «perché non posso farcela anche io?».

Quella bicicletta nel tempo è diventata un lavoro, ma è alle origini che si spiega tutto. «Ho subito pensato che su una bicicletta, in un gruppo, succede come succede nella vita. Puoi avere tante persone accanto a te, amici o meno, ma, se non sei tu a decidere di salvarti, di concederti una possibilità, nessuno può fare qualcosa per te. Nemmeno la tua squadra, che è poi la tua famiglia, tutte le persone che vorrebbero aiutarti. Senza il tuo permesso, senza il tuo primo passo, non possono fare nulla». Allenamenti su allenamenti, nel 2008 la prima gara a Varese, e, nel 2014, con la prima medaglia in Coppa Europa, la sensazione di avercela fatta.

Questione di attimi, di illusioni perdute e ritrovate. Solo un anno dopo, mentre si allena, Andrea cade e sbatte violentemente la testa per terra. Un'altra corsa contro il tempo, una settimana di coma farmacologico e tutte quelle voci, quelle che per qualche attimo rischiano di farti credere che questa volta è davvero finita. Quasi che la tua storia, fino a quel momento, sia stata troppo bella per essere vera. Raccontatelo ad altri, non ad Andrea che tre mesi dopo, a Maniago, vince la Coppa del Mondo. «Non posso raccontarti quello che ho provato, posso dirti che quella felicità non l'ho mai più provata e mai più la proverò probabilmente. È la felicità di quando capisci che tutto ciò che ti avevano detto è vero, che, se vuoi, puoi farcela. Quasi sempre».
Proprio perché ha toccato con mano la felicità di cui parlavano i nonni, Andrea non accetta altro. Nel 2019 ha lasciato il ciclismo per dedicarsi all'Ironman. «Molte cose sono cambiate, migliorate, certamente. Ma il mondo del paraciclismo è un mondo che non può andare avanti così. Eravamo considerati sportivi di serie D, non so di chi sia la colpa, probabilmente di più persone e tutti dovremmo fare qualcosa per cambiare». Con la disabilità ha sempre avuto un rapporto sereno, forse anche per il suo carattere: ama ridere, scherzare e del giudizio degli altri si disinteressa. «Ogni persona è diversa e deve vivere la disabilità come crede. Il ciclismo, lo sport, possono aiutarti a tirare fuori quella parte di te che in certe situazioni resta schiacciata dagli eventi».

Tutto in una cornice relativa perché così è la vita, spiega sorridendo. Andrea lo ha capito guardando i suoi due cani: «Mi hanno cambiato perché ho visto che le cose che davvero contano sono poche. Certe volte, immersi nella quotidianità, ce lo scordiamo e finiamo per vivere male. Anche lo sport è una parte della vita e tale deve restare, senza esasperazioni».


Addio alle braccia

Lasciatecele scrivere ancora due parole su Fabio Aru e abbiate pazienza se ogni tanto sconfiniamo nel passionale. Oggi era la sua ultima tappa di montagna in carriera, e fa già effetto così a pensarlo, anche se troppo spesso, a volte troppo in fretta, si è intonato il de profundis alla sua carriera.

Quello che ha spinto Aru in questi anni, ma anche in queste settimane e in questi giorni, è stato l'amore per la bicicletta e la fatica, a prescindere poi dai risultati che, quando non arrivavano, a un certo punto gli sono stati rinfacciati.

Oggi Aru ci ha provato, ancora una volta, seppure senza risultato. È stato uno degli ultimi a cedere al ritorno del gruppo, alle spalle di un irrefrenabile Michael Storer.

Ancora una volta e per l'ultima volta, Aru ha scalato le grandi salite di una grande corsa insieme al gruppo, andando in fuga, provando a mettere il muso davanti per sentire il vento in faccia, la fatica opprimente, il gusto di sentirsi nuovamente in fuga, il piacere e l'ebrezza di stare davanti.

Quando Fernanda Pivano tradusse "A Farewell to Arms" di Hemingway, scrisse come quel titolo potesse essere tradotto non solo come "Addio alle armi", ma anche come "Addio alle braccia" intese come le braccia della propria amata. Similitudine ardita, è vero, ma oggi quello di Fabio Aru è stato l'addio alla montagna, almeno come corridore. Da lunedì per lui inizierà una nuova vita, ma oggi quella del corridore, che ancora gli appartiene per qualche giorno, se l'è goduta tutta, proprio come un abbraccio.


Quando tutto cambia

Ci sono giorni in cui tutto cambia. Lo scenario, le sensazioni, le gambe. E allora inizi a salire (e poi inevitabilmente a scendere, e poi di nuovo salire) e c'è la pioggia che cambia tutto.
E ci sarebbe da raccontare di un'impresa. Perché partire a 61 km dall'arrivo non è che sia roba che si vede tutti i giorni, figurati in una Vuelta che sin qui aveva lasciato (un po') a desiderare.
E ci sono da raccontare gli opposti: come Roglič e Bernal. Sono loro che si cimentano nell'azione, che se non l'avete vista, cari lettori, vi invitiamo in qualche modo a rimediare.
Perché in salita si andava forte, ma c'era la pioggia che se ti alzavi di sella scivolava pure la ruota dietro. Perché mentre Roglič e Bernal andavano, Eiking saltava, ma non naufragava, cadeva persino in discesa, ma si rialzava: a cedere con onore non sono bravi tutti, lui lo è stato, come è stata un'audace maglia rossa.
E allora ci sarebbe da raccontare di Rochas che spinge forte per Martin per provare a inseguire una chimera rossa, ma mentre si risale verso i Laghi di Covadonga, salita simbolo della Vuelta, Martin, stoico e non ce ne voglia, si infrange. Ha dato tutto.
Ci sarebbe Poels che rischia tutto in discesa per Haig, una discesa che dava i brividi con tutte quelle foglie a terra; Mäder che più se ne mette dietro e più soldi darà in beneficienza; la Movistar che all'improvviso torna a essere la buona, cara, vecchia Movistar e non si sa bene cosa dovrebbero fare; Meintjes che non andava così forte da almeno mezzo secolo; Adam Yates con il viso solcato da pioggia e fatica che più che ricordare il gemello, sembrava il nonno; Kuss imbrigliato: il giorno che proverà a fare il capitano forse sarà meno forte di così. A sensazione.
Ci sarebbe da raccontare di quando a Roglič sudavano pure le sopracciglia in salita, che si è dovuto togliere gli occhiali e lasciava trasparire in mondovisione tutta la sua fatica. E poi il suo opposto, Bernal in maglia bianca che stamattina lo aveva detto: "Oggi ci provo: o tutto o niente". E oggi è andata così, c'ha provato, ciclisticamente così bello, poi è saltato, ma se la vittoria di Roglič ha un sapore particolare il merito è (anche) di Bernal.
E allora ci sono giorni in cui tutto cambia, la classifica, i protagonisti, da una curva all'altra, da un metro all'altro. Resta l'impressione di una giornata indimenticabile, grazie a Roglič e alla sua irresistibile accelerazione nel finale e ai 61 km di cavalcata. Grazie a Roglič e ai suoi opposti. A Bernal che cede, a Martin naufrago, alle crepe della nave di Eiking che non affonda.


Cinque istantanee dalla Val di Sole

I Mondiali di mountain bike in Val di Sole sono stati tante cose: le vittorie di due "grandi vecchi” come Schurter e Minnaar, le consacrazioni di Evie Richards e Christopher Blevins, la stupenda quasi-medaglia di Marika Tovo. Da giornate così frenetiche è difficile ricavare certezze; una forse: una rassegna iridata è di chi la vive. Queste cinque cose sì che me le ricorderò:
1. Due chiacchiere con Faranak Partoazar. È l’unica ciclista iraniana della manifestazione, nessuna federazione l’ha sostenuta nella trasferta e non ha alcuna carta di credito con sé. La incontro mentre sta lavando, asciugando e ingrassando la propria bici. Di meccanici neanche l’ombra, ma dal tendone di una famosa marca di lubrificanti per catena esce Robin, un californiano di origine iraniana. I due iniziano a parlare in persiano: è la prima volta per entrambi che possono ricordare la loro terra in un contesto del genere.
2. I colori. Daolasa è stata invasa da persone provenienti da tutto il mondo, con tante maglie diverse (la maglia della nazionale lituana di downhill sembra fatta con le bombolette da graffiti) e acconciature pazze (un rider neozelandese: chioma bionda e una cresta blu di dubbio gusto). Miglior abbinamento divisa-bici: l’azzurro e il bianco della casacca israeliana di Eitan Levi, che saltava le rocce sulla sua Trek rosa.
3. La professionalizzazione del downhill. Disciplina a sé stante, ad alto tasso di adrenalina e palesemente pericolosa, il downhill non consiste più nel lanciarsi alla cieca giù da una montagna pieni di birra, come poteva essere fino a vent’anni fa. Ora gli atleti sono seguiti da professionisti fin dall'adolescenza, si allenano di più e meglio, prendono sul serio quello che fanno. Queste cose le sostengono tanti atleti, ma anche due tecnici della Nazionale italiana, che - coi suoi tempi - ha dato più attenzioni al downhill. Sulla Black Snake, una di queste due persone chiede all’altra come sono andati alcuni atleti nelle prove. Sapendo di dover fornire un'analisi tecnica, la risposta è stata: «una scopa nel culo».
4. Al risparmio. È l’unico modo in cui tantissime persone possono permettersi di essere qui. Solo nei trecento metri che separano il parcheggio riservato ai media e il paddock, si vedono tende da campeggio, camper, famiglie intere che al mattino si lavano i denti nelle fontanelle pubbliche. È la vita che fanno anche atleti stessi: Izabela Jankova, vincitrice del titolo mondiale di downhill tra le juniores, si diceva pronta a fare la sua parte per guidare le sedici ore necessarie per tornare in Bulgaria. Lei farà il primo turno, così riuscirà a dormire la notte, mentre guida il padre. Svegliarsi un minimo riposata è necessario: il giorno dopo ci si deve allenare.
5. I tifosi. Tantissime persone hanno sostenuto gli atleti a fianco delle piste della Val di Sole. Facendosi a piedi la Black Snake, si può incontrare per esempio la famiglia di Giacomo. È un amante del downhill di oltre quarant’anni, che partecipa a varie competizioni riservate ai master, con la sua squadra, il Team Reunion. Si chiamano così perché si radunavano spesso assieme, ma - e questa è la storia più assurda che sentirete quest’anno - «un nostro compagno di squadra ci è andato veramente, a una gara di downhill all'isola Reunion. Ha detto che è semplice: si parte dalla cima di un vulcano e si arriva al mare. Non ha figli, può permettersi un viaggio del genere, non è sposato ed è matto come un caco: sai cosa ti dico? Ha fatto bene ad andarci».

Foto: Giacomo Podetti


Pauline Ferrand-Prevot e... i leoni da tastiera

Torniamo sul rapporto tra social network e atleti professionisti, dopo il post di qualche giorno fa sulle dichiarazioni di Chris Froome. Non prendeteci per ripetitivi, nemmeno per ossessionati. Semplicemente riteniamo che il rispetto della persona venga prima di tutto, prima del tifo e delle aspettative di prestazione.
È per questo che ci piace dare voce agli atleti che provano ad opporsi a questa brutta deriva. Magari il messaggio arriverà a poche persone, ma se riuscisse ad ingenerare un piccolo cambiamento, sarebbe già un successo.
Dopo le gare dei Mondiali di MTB della Val di Sole, Pauline Ferrand-Prevot, vera superstar del settore (nel 2014/15, a soli 23 anni, ha indossato la maglia iridata di campione del mondo in tre discipline ciclistiche diverse contemporaneamente, prima volta nella storia del ciclismo maschile e femminile), affida ai suoi canali social un messaggio di risposta ai numerosi attacchi ricevuti a seguito di quelle che sono state ritenute dai suoi fan delle prestazioni deludenti ai recenti Campionati del Mondo di Mountain Bike.
«La vita non ha a che fare solo con la vittoria o la sconfitta.
La vita di una persona ha piuttosto a che fare con l’essere o meno felici.
Non ho letto i commenti delle persone sulla mia gara di ieri perché non voglio che qualcuno possa decidere come mi devo sentire. Quello che posso dire a tutti è che sono molto felice della mia vita, anche se non ho vinto la medaglia olimpica e se non indosso la maglia iridata, e non ho alcuna intenzione di cambiare la mia vita per vincere un titolo olimpico o un mondiale.
La mia famiglia, i miei amici, la mia piccola Mauricette ed io siamo in salute.
Mi guadagno da vivere facendo ciò che più amo al mondo, correre in bici, e ho la fortuna di non definire tutto ciò ‘un lavoro’. Ho il privilegio di viaggiare per tutto il mondo, conoscendo nuove persone e potendomi confrontare con culture diverse dalla mia.
La vita non ha a che vedere solo con le vittorie o le sconfitte.
La vita ha a che vedere con l’imparare qualcosa, con i tentativi andati male ma con la possibilità di riprovarci.
Io vivo per raggiungere gli obiettivi che mi sono posta e non credo di averli ancora raggiunti tutti. Potrò sbagliare e potrò fallire, ma questo non mi impedirà di provarci ancora. Fino a quando non li avrò raggiunti».
Foto: Red Bull Content Pool


Il cammino di Santiago o fare la prima mossa

Forse nemmeno Eiking immaginava di trovarsi alla vigilia dell'ultima settimana - o meglio, degli ultimi 5 giorni di corsa, in maglia rossa. In carriera fino adesso ha ottenuto come miglior risultato tra Giro, Vuelta e Tour un 77° posto proprio in Spagna nel 2016. E da una Vuelta fu cacciato per motivi disciplinari - era il 2017, ma questa è una storia che abbiamo già raccontato.
Forse Roglič, ma anche una Movistar di nuovo tirata a lucido come non si vedeva da tempo (ah, i cari bei vecchi tempi!), mai si sarebbero immaginati di dover inseguire un norvegese a cinque tappe dal termine. O comunque non Eiking, ecco.

Forse Mas e López hanno in serbo qualcosa per i due arrivi in salita che rimangono tra Lagos de Covadonga e Altu d'El Gamoniteiru, mentre Roglič ha un tesoretto niente male da spendere l'ultimo giorno nella crono di Santiago de Compostela; e non ci sarà Pogačar a fargli venire gli incubi, né si presume ci saranno avversari capaci di un clamoroso ribaltone come quello de La Planches des Belles Filles al Tour. «È il campione olimpico contro il tempo - si mormora in gruppo con fare sincero - chi mai potrebbe fargli paura?». Già.

Nemmeno Martin, uno che fa dell'imprevedibilità il suo archetipo, che nella sua ciclosofia racconta: "pedalo, dunque sono", e che quando corre, corre spesso in coda, ma poi risale sempre, curvo sulla bici come se sembrasse dover cercare qualcosa per terra. Forse qualche risposta.

Dicevamo: nemmeno Martin (Guillaume, e alla francese, mi raccomando) probabilmente si aspettava di essere lì, secondo, grazie a una fuga, lui che in fuga ci sta sempre bene, che quella fuga da gentile concessione giorno dopo giorno si sta trasformando in pesante fardello per chi deve inseguire, e chi deve inseguire sembra non abbia forza/voglia/fantasia: eventualmente scegliete voi la parola giusta. A Mas non gli sono uscite benissimo in questi giorni: «Il percorso non era abbastanza favorevole da permettere una lotta tra i favoriti», verrebbe da pensare l'opposto, ma tant'è.
E forza, intesa come condizione, gambe, detto terra terra, fantasia, sembra ciò che manca totalmente alla Ineos in questo momento: Bernal fatica a rispondere agli scatti, Adam (Yates) qualche punturina la molla qua e là, ma ha provocato giusto un po' di bua - nulla di che. Carapaz si è fermato, Sivakov è ormai carbone da locomotora.

Spazio ci sarà per provare qualcosa dopo una settimana che ha raccontato belle storie - Cort Nielsen, Storer, Bardet, Majka, il confronto tutto adrenalina Jakobsen-Sénéchal, Aru eccetera - come in uno di quei romanzi di Kent Haruf dove sembra non succedere mai nulla, ma da cui non riesci proprio a staccarti. Però è lì su, dove si sogna la vittoria, ci si dimena e si dibatte, dove osano le aquile, che è stata calma piatta come una giornata al mare. È in classifica che ci si aspetta qualcosa: se non oggi, domani.

Il cammino verso Santiago è ancora lungo, ma non troppo: è tempo anche che qualcuno faccia la prima mossa. Il resto - magari quei fuochi d'artifici che aspettiamo da giorni - arriverà di conseguenza.

Foto: ASO/Luis Angel Gomez / Photo Gomez Sport


La tempra di Jay Vine

Non si sarà portato a casa il combativity prize alla Vuelta Jay Vine, come molti di noi si sarebbero aspettati, ma dobbiamo ammettere che lo spirito del giovane corridore australiano della Alpecin-Fenix ci piace un sacco.
Dopo la rocambolesca caduta dell’altro giorno, mentre tentava di recuperare una borraccia dall’ammiraglia, ed il terzo posto di tappa con una rimonta all’insegna della determinazione, Jay ha raccontato sui suoi canali social di essersi sentito ferito più nell’orgoglio che nel corpo: «È tutto così strano. Senza l’incidente sarei al settimo cielo e ora starei scrivendo un altro tipo di post. Racconterei di quanto sia stato fantastico salire per la prima volta sul podio in un Grande Giro, ma in questo momento mi sembra che il mio successo sia leggermente offuscato dall’imbarazzo per come è avvenuta la caduta».
Vine, che dopo l’incidente e i relativi controlli da parte del medico di corsa, è rimontato senza esitazioni in sella, ha detto di aver avuto l’impressione, nelle interviste post gara, che i giornalisti fossero alla ricerca di una qualche particolare pillola di saggezza da parte sua: «C’era questo giornalista che mi ha chiesto come mai fossi tornato in sella dopo la caduta. Credo che si aspettasse una risposta che fosse d’ispirazione e d’esempio per gli altri, ma io in realtà mi sentivo solo molto stanco e con la mia solita schiettezza ho risposto: “E perché no?».
Insomma, ci pare di capire che al giovane australiano non manchi sicuramente il carattere per far parlare di sé.

Foto: Luis Angel Gomez / BettiniPhoto©2021


La felicità diversa dei fratelli Hayter

Al Tour of Norway, qualcosa è scattato nella mente di Leo Hayter. Classe 2001, team Dsm, fratello minore di Ethan, giovane talentuoso di casa Ineos Granadiers, Leo ha a lungo patito, silenziosamente, la scelta di mollare tutto per dedicarsi allo sport, come se nella vita non ci fosse nient'altro. Un lungo processo di accettazione, per ritrovare la felicità di pedalare. Il 21 agosto, l’ha scritto su suo account Twitter: «La giornata di oggi mi ha ricordato perché lo faccio. Finalmente ho avuto la sensazione di gareggiare e non solo di essere un’appendice della corsa. È la prima volta che mi succede dal 2019».

Ethan e Leo hanno condiviso ogni cosa sin da ragazzini. Fin da quel pomeriggio in cui i genitori li accompagnarono a un centro estivo nei pressi di un Velodromo: una scelta casuale per permettere ai ragazzi di divertirsi e tornare al lavoro. Ethan aveva già la fisionomia di un ciclista, Leo no e, a dire il vero, nemmeno gli interessava. Racconterà anni dopo che, fino a quel momento, tutti i pomeriggi della sua infanzia li trascorreva sul divano, mangiando e giocando alla play station. Non aveva il fisico da ciclista, tanto meno la mentalità. Avrebbe solo voluto essere un ragazzo qualunque.

Una scelta non scelta che dopo qualche anno inizia a portare i primi risultati. Leo Hayter vince la prima corsa da junior, ad Assen, e subito pensa ad un colpo di fortuna. «Ho sempre creduto che, se non fossi arrivato da solo, non avrei mai vinto nulla. Sarebbe stato un gioco da ragazzi per chiunque battermi» spiega a The British Continental. È lui il primo a non credere nelle proprie possibilità, forse perché non ha la grinta che serve per primeggiare, forse perché le persone al suo fianco non ci credono. Nella British Cycling Junior Academy, fino a quel momento, per tutti, è “il fratello minore di Ethan”. Quest’etichetta pare non infastidirlo e lui stesso ammette che Ethan ha capacità superiori alle sue, ma le scelte di vita, spesso più delle parole, rivelano davvero ciò che sentiamo.

Tutto inizia da un volo per partecipare a un training camp con il Team Sunweb: Leo mangia qualcosa e subito dopo inizia a stare male. Ciò che sembrava non interessargli diventa importante: vuole dimostrare di valere e non dice nulla di quel malessere. Fa due giorni di prova mangiando solo pane scondito e si sente in forma, in salita pedala come non mai. Scelta scellerata: nel suo fisico c'è qualcosa che non va, solo qualche settimana dopo, in un allenamento, cadrà a terra completamente svuotato.

Per guarire serve tempo, ma quei giorni hanno cambiato qualcosa in Leo. Ha la certezza di volere qualcosa in più e sa che nell'Accademia britannica sarà condannato a restare “il fratello minore di Ethan”. Sa di non avere il fisico ideale per lavorare in pista e dice ai genitori di voler passare nel team Dsm. Difficile convincerli, come se quel figlio fosse sempre troppo giovane per decidere in autonomia, come se la sua strada dovesse essere per forza quella di Ethan, come se il suo fosse un destino già scritto. Ma per la prima volta Leo Hayter sceglie la strada che davvero desidera e improvvisamente non è più solo “il fratello minore di Ethan”.

Non è mai stato facile e mai lo sarà, anche se la Coppi e Bartali corsa assieme dai due fratelli ha risvegliato l'entusiasmo del pubblico e degli addetti ai lavori, come le storie a lieto fine. Quella di Leo e Ethan Hayter non è una storia a lieto fine perché, forse, le storie a lieto fine come tutti le immaginiamo nemmeno esistono. Nemmeno quando Ethan vince il Tour of Norway e Leo ritrova se stesso. La storia dei fratelli Hayter è la storia di chi ha capito che non bisogna credere a chi cerca di convincerci che se non siamo i primi non valiamo nulla. Non è vero per lo sport e, soprattutto, non è vero per la vita. Non hanno senso i paragoni o i confronti perché siamo completamente diversi, anche da un fratello, e nessuno può cambiare questa realtà. Ma la felicità se ne frega dei confronti e arriva lo stesso. Chiedetelo a Leo Hayter.

Foto: Bettini