Van Aert e il teorema dell'impossibile
3 Agosto 2022Approfondimentivan Aert
Quando è stata l'ultima volta in cui abbiamo creduto a qualcosa di impossibile? Meglio ancora sarebbe dire: quando è stata l'ultima volta che abbiamo iniziato a fare qualcosa nonostante sembrasse, a noi e forse soprattutto agli altri, impossibile? Perché, poi, il problema è spesso quello che sentiamo dire anche quando, magari, con un pizzico di incoscienza, quell'impossibile lo stiamo per affrontare. Pensate a Wout van Aert e poi pensateci, noi abbiamo fatto così.
Van Aert con l'impossibile ha un legame particolare: lui all'impossibile ha iniziato a pensare molto tempo fa e pensando all'impossibile è diventato l'atleta che è diventato. Una sorta di contemplazione della mente che l'ha portato alla sua risposta che poi dovrebbe o potrebbe essere anche la nostra: a forza di abituarsi al possibile a tutti i costi, talvolta allo scontato, la mente dimentica le possibilità più difficili, quelle che poi cataloga come impossibili. Lo ha detto van Aert ed è una risposta a tante cose.
La ricerca dell'impossibile, anche solo la sua possibilità, sfiorata, progettata è, di fatto, un'abitudine e una capacità e, come tutte le capacità, se non si esercita si perde. Van Aert la esercita spesso, la ricerca nel fango, nel tempo perduto, nelle strade che si arrampicano e in quelle che fanno a pugni col vento e con le leggi della fisica. Van Aert la ricerca nelle fughe che paiono senza senso e forse davvero un senso non l'hanno se non esplorare l'impossibile, conoscerlo, sapere che esiste.
Conoscere questa possibilità, perché anche l'impossibile è una possibilità, non bisogna scordarselo, ha apparentemente più svantaggi che pregi. La mancanza di comprensione, prima di tutto. Perché, ad esempio, una fuga a cento chilometri dal traguardo difficilmente viene capita, soprattutto se non va in porto. Non considerare l'impossibile significa anche questo: valutare tutto in base al solo risultato finale, dimenticando ciò che c'è stato in mezzo, ciò che l'ha provocato e ciò che è stato in grado di provocare.
Ma voler conoscere l'impossibile, applicarlo come un teorema o una formula matematica non offre garanzie di risultato, non può offrirle. Se le offrisse perderebbe di senso. A van Aert quelle garanzie non sono mai interessate . La sua mente non vuole escludere alcuna possibilità.
Sperimentare l’impossibile di van Aert serve. Per migliorare la propria persona nella ricerca o anche solo per sapere che esiste e avere il coraggio di osare anche se le voci attorno raccontano esclusivamente di chi non ci è riuscito. Provare, è questo il traguardo.
Mark Padun: vicino all'Ucraina
Nella mente di Mark Padun questo di Giro di Polonia non è come tante altre corse, anche se, in fondo, la gara è sempre la stessa e fa ciò che sempre fanno le gare di bicicletta: attraversano strade, fissano orizzonti, sfiorano confini, talvolta li oltrepassano. Per Mark Padun è tutto diverso perché diverse sono quelle strade, quei confini, perché dallo scoppio del conflitto tar Russia e Ucraina pensare a casa fa particolarmente male.
Casa è lì, poco oltre il confine e quando quel confine si allontana casa è in due colori: azzurro e giallo come la bandiera dell'Ucraina dove lui ha radici e origini. Padun quei due colori li ha sul casco come tanti altri atleti ma ancora più forte perché, si può essere ovunque, ma quando la propria terra sta male, soffre, lotta per la libertà ci si sente lì, si vorrebbe essere lì. Non è più come da ragazzo quando i genitori lo avevano fatto partire allo scoppio dei primi conflitti, non è più come da ragazzo perché oggi Padun sa bene cosa sta accadendo e niente può allontanarlo da quel pensiero.
È successo tutto quando ha saputo che il Giro di Polonia sarebbe comunque passato accanto a quei confini. Sarebbe arrivato a Zamosc, la città delle prime gare, dove era stato da giovane, dove aveva vissuto una settimana e conosciuto le vie, i piccoli dettagli che diventano ricordi. C'è nostalgia in Padun, c'è voglia di tornare anche se le cose per lui non sono mai state facili.
Quei due colori sono nelle bandiere, sono in quelle parole che esprimono parte del senso della gara: "Race for Peace". Correre per la pace che diventa la tua pace, come tua è la terra anche se non la possiedi, ma ti appartiene. Che diventa correre per la pace della tua gente e della tua famiglia che anche quando è al sicuro non è mai davvero al sicuro.
Quei due colori, giallo e azzurro, sono nei braccialetti al polso di tanti e in quello al polso di Padun. Forti per restare al polso e fragili perché insieme di tessuto, di fili. Ci sono foto in cui Mark Padun fissa quel braccialetto e pensa. I pensieri restano a lui, nonostante si possa comprendere quel che si prova ma il dolore, per quanti possano esserti vicini è di chi lo prova, di chi lo vive. Le parole sono superflue.
Quelle biciclette che attraversano strade, fissano orizzonti e sfiorano confini possono anche sembrare poca cosa in un momento come questo. In realtà, sono importanti e non siamo noi a dirlo ma Padun che, nonostante tutto, è fiero di questi giorni al Giro di Polonia.
Di bicchieri bevuti, pieni o a metà, di cerchi che si chiudono
31 Luglio 2022RitrattiJasper Philipsen
Il rumore che fa Annemiek van Vleuten
30 Luglio 2022CorseTour,Tour de Femmes,van Vleuten
Tutte se lo aspettavano, nessuna ha potuto fare nulla. L’attacco da lontano di Annemiek Van Vleuten era dato per certo da tutte le rivali: la prima frazione di montagna avrebbe sconvolto la classifica e la più forte scalatrice di questo secolo avrebbe dovuto recuperare dall’ottava posizione in classifica generale in cui si trovava. A circa 85 (sì, ottantacinque) chilometri dal traguardo, all’inizio della prima terribile salita di giornata, Van Vleuten attacca. Si porta dietro l’unica atleta in grado di spingere wattaggi simili, Demi Vollering. Presente e futuro del ciclismo olandese.
È un attacco che non vede nessuno, le immagini sarebbero arrivate una mezz’oretta dopo. Su Twitter il ciclocrossista olandese Jens Dekker si chiede, parafrasando un noto indovinello filosofico sulla percezione della realtà: se attacca nella foresta e non c’è nessuna telecamera a riprendere, Van Vleuten fa rumore? Il fracasso dev’essere stato troppo forte nelle gambe delle rivali: tutte le più forti tranne Vollering non riescono a seguire, si raggruppano indecise sul da farsi. Sono Juliette Labous, Elisa Longo Borghini, Cecilie Uttrup Ludwig, Evita Muzic, Kasia Niewiadoma e Silvia Persico, tra le altre. Queste ultime due erano seconda e terza in classifica generale, ma non hanno potuto fare altro che andare su col proprio ritmo.
Chi non ci sta e prova a recuperare sulle due olandesi è Elisa Longo Borghini. È una fuga strana, la sua, quasi una ribellione scriteriata. Rimane a lungo da sola, a bagnomaria, tra le due battistrada e il gruppo successivo di inseguitrici, che intanto inglobava altre atlete, come una terza FDJ – Suez – Futuroscope (Grace Brown) e una rediviva Urska Zigart. La prime due salite – nel bosco e sopra l’8% medio – sono davvero dure e pian piano l’inseguimento di Longo Borghini perde brillantezza.
Sembra una cronometro individuale lunga più di ottanta chilometri. Van Vleuten accelera sul secondo gran premio della montagna e si lascia Vollering alle spalle. Longo Borghini è ripresa dalle inseguitrici e staccata. Le prime venti terminano tutte in solitaria o a gruppetti di due. All’arrivo Elise Chabbey (decima in classifica generale) e la sua compagna di squadra Pauliena Rooijakkers (decima nella frazione odierna) dicono che sì, se l’aspettavano, ma che ci potevano fare? Van Vleuten ha reso una tappa di montagna una lotta alla sopravvivenza: che lei, ovviamente, ha vinto
Le gambe che scappano di Remco
30 Luglio 2022CorseRemco Evenepoel,San Sebastian
Nel ciclismo i segnali sono tutto perché lì resta l'attenzione. Così in un sabato qualunque, neanche una settimana dopo la conclusione di un Tour de France che è stato racconto e romanzo scivolato nella realtà, vedere la Quick-Step Alpha Vinyl in testa al gruppo alla Classica di San Sebastian, col traguardo ancora lontano, ha fatto tornare nella mente di chiunque stesse guardando le sensazioni dell'ultimo mese. Lo stupore costante è diventato abitudine, l'imprevedibilità una risorsa.
"C'è Remco Evenepoel" pensavamo tutti questa mattina. La presenza è un dato di fatto, ogni corridore, poi, riempie questo dato con quello che è, che sa, che gli piace. Il gusto dello stupore appartiene a Remco Evenepoel, lo sapevamo già, ma un sabato di fine luglio l'ha riportato in scena, quasi un temporale, quasi un'impressione. Un'impressione è naturalezza e istantaneità ovvero far sembrare semplice il difficile e farlo così, come si bevesse un bicchiere d'acqua.
Tutto questo è successo quando Remco Evenepoel è scattato ai quarantacinque chilometri dall'arrivo e solo Simon Yates è riuscito a tenergli la ruota, seppur per pochi chilometri. Con quella gamba avrebbe vinto anche stando assieme agli altri, magari portando via un piccolo gruppo? Probabile, a quelli come Evenepoel non interessa solo il risultato. C'è qualcosa dentro di loro che li chiama a divertire e divertirsi, a cercare il massimo grado di difficoltà, a lasciare qualcosa che va oltre i numeri, le statistiche. Un talento particolare. Ci ha colpito lo sguardo di un ragazzino sull'ultima salita: "Vorrei essere come lui". Quando si vede questo, quando si percepisce questo, si ha la netta sensazione che vada bene così, a prescindere da come va a finire.
Evenepoel ha vinto da solo, con la maglietta slacciata, con le gambe che scappano via come si dice nel ciclismo. Rende l'idea perché è come se le gambe fossero automi in grado di fare da sole, fregandosene del corpo. Invece restano lì, parte del corpo, nel corpo, e per andare così deve essere tutto perfetto, tutto in ordine, una sinfonia, un'armonia, uguale alla posizione di Evenepoel in bicicletta.
Più bello forse sarebbe stato solo con Pogačar a combatterlo, due ragazzi con lo stesso istinto, la stessa naturalezza. Invece Pogačar ha mollato prima, dopo le fatiche del Tour. Ci saranno altre occasioni e le aspetteremo guardando ai segnali come in questo sabato.
Mentre guardiamo Evenepoel esultare e ascoltare tutto quello che c'è attorno. Indica l'asfalto, indica la terra, dove tra venti giorni tornerà alla Vuelta a España. Non sappiamo cosa succederà, sappiamo però che non avere più nulla di scontato, non sapere più cosa aspettarsi, sarà ancora una volta bellissimo.
La storia di Gaudu e Madouas
30 Luglio 2022StorieTour de France,Gaudu,Tour,Madouas
Il Tour de France di David Gaudu e Valentin Madouas è un insieme di immagini, ricordi, lunghe istantanee, infiniti momenti passati assieme. «È come lo Yin e lo Yang - ha raccontato Gaudu ai giornalisti dopo il traguardo di Parigi, riferendosi proprio alla corsa francese - può farti paura e trasformarsi in qualcosa di catastrofico, ma ti sa anche dare una felicità incredibile».
C'i sono attimi in cui si arriva stravolti come sul traguardo di Peyragudes. Gaudu è accasciato a terra con un asciugamano sul collo, quasi sfigurato dopo essersi lanciato a tutta per rosicchiare qualche secondo a Quintana, rivale per un posto nei primi cinque in classifica, in un interminabile sprint in salita. Qualche minuto dopo di lui arriva Madouas, compagno di squadra e amico; Gaudu gli prende la mano, se la porta sulla fronte e poi vicino alla bocca e gli dà un bacio.
È il suo modo per complimentarsi e rendere merito per quello che ha fatto Madouas (anche) quel giorno. Madouas è davanti in fuga, e, una volta staccato, diventa fondamentale nel supportare il suo compagno di casacca. «Devo ringraziare la squadra per come mi è stata vicina, ma in particolare devo ringraziare Valentin. Ogni volta mi salva il culo».
Madouas è così, un piccolo guerriero lo definisce Marc Madiot, colui che guida la Groupama-FDJ. Come chiamereste un corridore che, da neopro e più giovane al via, arriva 20° alla Strade Bianche? Era il 2018 e quell'edizione la ricordiamo per la pioggia e il fango e persino per la neve caduta il giorno prima: va in fuga (uno dei suoi motti è «Attaccare sempre!» mentre uno dei suoi riferimenti in gruppo è Nibali: «impressionante, fantasioso, formidabile per come si adatta a ogni situazione in corsa»), va in fuga tutto il giorno e rimane, fino alla fine, in scia ai migliori.
Ma la storia che raccontiamo è quella di entrambi, di Gaudu e Madouas e che parte da quando i due sono bambini, in Bretagna, e sono speciali per quanto vanno forte in bicicletta. "Le Telegramme" li definisce " le due pepite d'oro del ciclismo bretone".
Rivali («gli altri lottavano per il 3° posto, io arrivavo quasi sempre 2° e Valentin, quasi sempre, vinceva» ricorda Gaudu), se si può parlare di rivalità a quell'età, amici e poi inseparabili al Tour 2022. «Negli ultimi mesi ho passato più tempo con lui che con qualsiasi dei miei familiari» sempre Gaudu.
Se l'intreccio di Valentin, figlio di Laurent, 12° al Tour del 1995, con la corsa francese, parte da quando, ancora in fasce, insieme a sua mamma andava a trovare il papà corridore al villaggio di partenza, quello di Gaudu inizia nel 2008 quando i due, appena dodicenni, si sfidarono sulla Grand'Rue di Brest in un torneo di bici che in premio dava una divisa Cofidis e un biglietto per assistere all'ultima tappa del Tour de France a Parigi. Vinse (rarità) il più piccolo fisicamente («Gaudu era piccolo e fragile, mio figlio era già pronto, quadrato e potente» racconta papà Laurent), e quella differenza oggi è rimasta. Insomma, Gaudu vinse allo sprint, nella finale a due, e 14 anni dopo Valentin e David si ritrovano a sfilare per i Campi Elisi, stavolta dall'altra parte della barricata, a festeggiare il 4° posto in classifica dell'occhialuto scalatore e l' 11° del fedele compagno di squadra, premiato a fine corsa anche per essere stato "il miglior gregario della terza settimana".
«Una 4X4» definisce così Madiot Valentin Madoaus. «Per le mani - sostiene l'anziano team manager francese, vincitore di due Roubaix nel 1985 e nel 1991 - non ho mai avuto un corridore così completo». Quest'anno è finito sul podio del Giro delle Fiandre, quel giorno si faceva la corsa per Küng, ma nel finale Madouas stava meglio e piombò insieme a van Baarle sul duo di testa - van der Poel e Pogačar - cogliendo un incredibile podio. «Da lì si è come sbloccato dopo una stagione difficile», parola di David Han uno dei suoi allenatori. «Ma nessuno si sarebbe aspettato questo rendimento un salita. Ha dimostrato nella terza settimana di essere uno dei dieci migliori scalatori del Tour». Anche David, parlando del suo amico e compagno di squadra: «Me lo aspettavo davanti nelle tappe miste, ma quello che ha fatto in montagna è stato incredibile».
Il rapporto tra David e Valentin è fatto di ricordi, non solo strettamente legati al rendimento e ai risultati, non solo la mano portata sulla fronte e poi baciata, ma anche qualcosa successo quando avevano solo 9 anni: «Valentin attaccò e mi staccò. Lui primo, io secondo, ma ciò che mi rimane impresso ancora oggi fu il momento in cui tirammo fuori dalle tasche una merenda e ci fermammo a mangiarla davanti a un recinto pieno di animali. Poi siamo tornati a casa».
La storia di di Gaudu e Madouas è un insieme di immagini, ricordi, di lunghe istantanee, di infiniti momenti passati assieme. E altri ancora ce ne saranno da raccontare.
Le storie dei sogni
29 Luglio 2022CorseTour,Tour de Femmes
Silvia Persico ci ha provato. Sapeva bene che la frazione tra Saint-Dié-des-Vosges e Rosheim era l’ultima di possibile calma prima delle montagne, ma voleva prendere la maglia gialla già oggi. È la capitana di una piccola squadra, la Valcar, ma incredibilmente si trova al secondo posto della classifica generale del Tour de France Femmes. Quindi tanto vale provarci, consapevole di non essere una scalatrice pura. Persico ha messo davanti tutte le compagne di squadra con l’obiettivo di tenere a bada la fuga numerosa e far staccare qualche velocista. La più forte di tutte, però, non si è staccata.
Marta Bastianelli arrivava da un paio di giorni difficili. Ne ha parlato anche nella quarta puntata di “Cherchez les Femmes”, il podcast di Alvento che segue il Tour dalla Francia; dopo la quinta tappa, era in lacrime dal dolore dopo una caduta. Oggi si sentiva meglio perché ha provato a recuperare sulle quattordici fuggitive da sola. Il gruppo l’ha riassorbita, ma lei non si è persa d’animo e ha tenuto la scia delle migliori in salita. Nella volata di Rosheim, è stata scaltra a tenere la ruota giusta. Un solo problema: era la ruota della più forte di tutte.
Lorena Wiebes, la velocista più forte del mondo, ha provato a rimanere con le migliori. Poi cade e con lei Alena Amialiusik Lotte Kopecky. Sono all’esterno di una curva nel bosco: Kopecky riuscirà ad alzarsi e a rientrare, Wiebes no. Era al secondo posto nella classifica a punti, dopo la volata di ieri: vincendo oggi, la più forte di tutte ha chiuso il discorso maglia verde.
La storia di Marianne Vos, la più forte di tutte, può essere raccontata anche tramite le storie dei sogni e degli obiettivi delle rivali, che continuamente e irrimediabilmente spezza. In questo primo, rinato Tour de France, non è ancora arrivata oltre la quinta posizione. Domani vestirà la maglia gialla per il sesto giorno consecutivo. Non si tratta di lascia il segno sulla corsa, si tratta di prendersi tutto. Domani giura che non riuscirà a tenere il primato, ma chi sarebbe davvero sorpreso, in caso contrario?
Quei pomeriggi ordinari
29 Luglio 2022CorseTour,Tour de Femmes
È la prima tappa di questo Tour de France Femmes in cui non succede nulla. Si tratta di una definizione esagerata - più di una cosa è successa anche oggi, ovviamente - ma per la prima volta la cronaca degli eventi è abbastanza asciutta, tutto è andato secondo le aspettative, sprint doveva essere e sprint è stato. Lorena Wiebes era la favorita e Lorena Wiebes ha vinto.
Le dinamiche di corsa e il livello di drama cala improvvisamente rispetto a ieri. Dopo una tappa in cui quattro settori di sterrati ci hanno tenuto col fiato speso per un’indicibile quantità di chilometri, quella di oggi era adatta a tifosi bradicardici. Una frazione lunghissima, piatta, con un finale su stradoni larghi e anonimi; con tante persone sulle strade ad applaudire e far casino al passaggio del gruppo nonostante le atlete sfrecciassero davanti a loro ai 40 km/h.
Una tappa in cui c’è stato un tipico tira-e-molla tra fuga e gruppo: diversi attacchi nelle battute iniziali di corsa, il gruppo che seleziona chi può e chi non può provare ad allungare, la luce verde che arriva solo quando il drappello di attaccanti è composto da poche atlete (solo quattro, contro centoventisei) e nessuna pericolosa per la classifica generale. La meglio piazzata è Victoire Berteau, diciannove minuti di ritardo dalla maglia gialla. Berteau non ha ancora ventidue anni, è al primo anno con la Cofidis e deve ancora centrare la prima vittoria da professionista.
È già tanta roba per lei essere riuscita a centrare la fuga giusta. Com’è tanta roba per Emily Newsom riuscire a fare questi sforzi per svariate ore nonostante abbia problemi di stomaco. È la più anziana delle quattro in fuga e avendo fatto estenuanti corse gravel è particolarmente adatta a queste distanze. In gruppo si va con una flemma blanda, tanto che riescono ad evadere per qualche chilometro altre tre atlete: Grangier, Biriukova e Christie. Tre delle cicliste meno in evidenza del gruppo a caccia di gloria. Niente da fare, riprese non appena le squadre delle velociste hanno iniziato a fare sul serio.
E poi di cose ne sono successe ancora. Elisa Longo Borghini all’interno dell’ultimo chilometro ha sbagliato strada e ha perso nove secondi (che le sono poi stati condonati). Marianne Vos è arrivata sul podio per la milionesima volta in carriera. Rachele Barbieri si è confermata una delle più veloci del mondo. In tutto questa tranquillità, un’azione sola è sembrata di una violenza sovrumana: la volata di Wiebes, potente e dominante, è stata uno squarcio nella tela di un pomeriggio affascinante perché ordinario.
Meglio Vingegaard o Pogačar?
29 Luglio 2022ApprofondimentiPogacar,Tour,Vingegaard
Cercare Bernal
C'è poco da fare. Chiunque faccia il mestiere del ciclista ha un suo modo di pedalare, di scattare o prendere una borraccia, di vincere o perdere tutto ed è questo modo che riconosciamo e cerchiamo. Quando individuiamo un corridore senza vederne il numero, da lontano, ma siamo certi che sia lui. Anche solo per come muove la testa, per dove tiene le mani sul manubrio. Cerchiamo e, se non troviamo, avvertiamo la mancanza che altro non è se non desiderio di altra ricerca.
Dal 24 gennaio, dal suo incidente vicino a casa, da quando tutto sembrava perso, tutti abbiamo iniziato a cercare Egan Bernal. Esattamente dall'istante dopo, anche se sapevamo che ci sarebbe voluto tempo, tanto tempo. Lo cercavamo, lo ricercavamo, ovvero cercavamo qualcosa che avevamo già trovato e ci aveva già emozionato. Se non trovavamo quel modo di fare il ciclista, cercavamo qualcosa di lui, una notizia, una parola solo per sentire quel modo più vicino. Perché, per quanto sembri assurdo, ma all'interno del gruppo gli stili dei vari corridori sono simili alla composizione di un brano musicale. Chi di musica se ne intende, spiega che è possibile non cogliere il suono basso quando c'è, ma se manca si avverte subito. Così per i ciclisti.
Per esempio, cercavamo lo sguardo al momento dello scatto. Tutti guardano davanti, voltandosi talvolta. Ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Cercare Bernal ha significato cercare quel tipo di sguardo rivolto verso le montagne nella fatica. Cercare Bernal dentro e fuori la corsa. Cercare ciò che avrebbe potuto succedere se Bernal fosse stato in corsa, pensare a duelli già adrenalinici ancor più adrenalinici.
Cercare Bernal su una strada del Giro d'Italia, da un furgone in corsa, come è capitato a noi e riconoscerlo dalla forma della pedalata, dalla posizione che è l'altra forma di un uomo che pedala, che è inconfondibile, quasi il tratto di un pittore noto o meno noto, non conta, ma fatto solo e solamente da quel pittore, da quel ciclista. Cercare Bernal, come cercare qualunque altro ciclista, è cercare una diversità.
Sapere che Bernal sta per tornare è un insieme di tutto questo. Già vederlo tornare a pedalare aveva suscitato riflessioni, sensazioni. Vederlo di nuovo in gruppo sarà diverso, ancora meglio. Dicono sarà alla Vuelta a Burgos, il direttore della Vuelta a Espana afferma che correrà anche lì. Suggestioni e realtà, talvolta un confine stretto, di certo uno spazio per continuare a cercare.
In questo tempo di ricerca, Bernal ha parlato di paura, di fare anche ciò di cui si ha paura, forse proprio per questo timore. Ha parlato e scritto di Roma, di come non sia stata costruita in un giorno e per questo sia così bella. Succede qualcosa di simile con la ricerca: il tempo che abbiamo usato per cercare sarà poi il senso di ciò che troveremo quando rivedremo Bernal in gruppo. Il luogo da cui parte un ciclista per andare lontano.