Cos'è stata la Parigi-Nizza

La Parigi Nizza è stata le gambe di quello lì che pare un supereroe della Marvel e che a un certo punto della corsa ha smesso i panni da Capitan Belgio e si è vestito con la maglia verde come dovesse essere il suo costume ufficiale. «Cercherò di indossarla pure al Tour e portarla fino a Parigi».

Ieri ha deciso ci fosse da salvare Roglič che nel suo caso era come se fosse l'umanità in affanno, ha messo in gioco i suoi poteri, lo ha guidato, lo staccava, persino, in un tratto lungo il Col d'Èze tanto che doveva rallentare, ma poi grazie alla sua azione lo aiutava a ricucire su Yates portandolo al successo nella classifica finale che riparava quello che a un certo punto pareva essere l'irreparabile. «[Quando ci sono di mezzo io] alla Parigi-Nizza vince chi ha un compagno di squadra vicino. Quattro anni fa è successo con il Team Sky, oggi con la Jumbo Visma. Io ero solo e loro in due, ma mentirei se dicessi che sono partito per vincere la maglia gialla. Sono scattato per vincere la tappa». Testo liberamente tratto dalle dichiarazioni di Simon Yates a fine gara.
La Parigi-Nizza è stata vento, di quello che divide il gruppo in una parola più lunga, ma composta da meno corridori, gruppetti come diminutivo, se cercassimo un vezzeggiativo non troveremmo nulla, ma ci stupiamo una volta ancora a vedere Quintana così a suo agio nel saltare di ruota in ruota tra i passisti e in mezzo alle folate.

La Parigi-Nizza non è "La corsa verso il sole", ma è stata pioggia e malanni. A Nizza dicono che c'è il sole tutto l'anno, ma pare come i corridori arrivati fradici e infreddoliti al traguardo abbiano un'opinione differente. Come biasimarli. C'è stata una tappa in cui alla partenza non si sono presentati in 18: sempre Radio Gruppo sostiene ci sia “un'epidemia di bronchite”.
La Parigi-Nizza è stata Pedersen tirato a lucido, che scollinava persino le montagne quando un anno fa - di questi tempi – a volte si staccava sui cavalcavia. È vero, fidarsi di alcuni è bene fino a un certo punto, ma forse è meglio tenere le orecchie dritte. Toccherà, nelle classiche del Nord, annoverare il suo nome tra quelli dei corridori da battere. D'altra parte non sono tantissimi quelli che si possono vantare di essersi lasciati dietro van Aert in uno sprint dopo una tappa impegnativa e con l'arrivo che tira verso l'alto. Questo serve a ricordare anche come Pedersen non fu campione del mondo per caso.

La Parigi-Nizza è stata Daniel Felipe Martínez che non è solo una sorta di "corridore forte quasi dappertutto", ma da alti e bassi. Uno da vampata improvvisa e poi da luce spenta. Dall'anno scorso è un corridore affidabile, se c'è da aiutare un compagno, con il physique du rôle per l'alta classifica, Poi, siccome il destino in parte lo si crea, in parte, quando si sale su una bici, segue il caso, una foratura prima dell'ultima salita non gli permette di imitare Yates. E chissà che le cose non sarebbero andate diversamente per tutti con anche lui davanti. Nel suo caso la Parigi-Nizza non restituisce tutto quello che si è dato: ma quando mai la vita lo fa?

13/03/2022 - Paris Nice - Etape 8 - Nice / Nice (115,6km) - Simon YATES (TEAM BIKEEXCHANGE-JAYCO) - S'impose sur la derniere etape

La Parigi-Nizza sono le fughe di Gougeard che non vanno a segno, mentre quella di McNulty, sì, oppure il colpo risolutore di Burgaudeau, che in bici pare un Alaphilippe che c'ha dato dentro con la palestra e a 23 anni regala la prima vittoria World Tour della stagione alla TotalEnergies di Sagan: chi l'avrebbe mai detto?
La Parigi-Nizza è Simon Yates. Ogni tanto gli prendono quelle giornate che se facessimo un confronto col gemello Adam, saremmo senza pietà. La butta giù dura su quel colle sopra Nizza, rischia di vincere tutto, ma non fa i conti con l'eroe dei fumetti preferito e più letto a casa Roglič e di nome Wout van Aert - che speriamo non abbia preso troppo freddo in vista della Milano-Sanremo.

La Parigi-Nizza è stata ancora Roglič. Nel bene - la vittoria in punta di fioretto sul Turini - nel male, nel senso di sofferenza, di lato oscuro della sua forza, perché chi continua a fare paragoni con Pogačar è ancora più impietoso di chi lo fa tra i due gemelli della periferia di Manchester, perché al giovane sloveno gli viene tutto facile, mentre l'altro ha il suo campo, i suoi meriti, i suoi limiti.

Ieri ha rischiato di perderla come, ma forse peggio dello scorso anno, affaticato da una giornata fredda, tirata, nella quale riusciva persino a sbagliare indumenti: «Al via ero stanco e infreddolito, mi sono vestito troppo e ho finito per cuocermi da solo. Quando mi sono svestito era ormai troppo tardi».
Poi il finale - lieto per lui - è quello che conosciamo. I meriti anche che vanno gettati addosso al supereroe di giornata e di cui Roglič ci illustra le peculiarità. «Cosa penso di Wout van Aert? Che è metà umano e metà motore. Lui può tutto e per me è un onore correre accanto a lui e imparare ogni giorno qualcosa». Tutto questo, ma forse anche di più, è stata la Parigi-Nizza.


Tornare a casa

La mattina di San Benedetto del Tronto è tutto uno scorrere di valigie sul lungomare. Per alcuni è il giorno in cui si torna a casa, per molti solo quello in cui si cambia corsa, senza nemmeno passare da casa. E, quando ci si saluta, si aggiunge sempre dove si andrà, si sa mai che ci si ritrovi. Ma anche se non dovesse essere così, sembra importante sapere dove saranno le persone che ti hanno aperto una transenna o indicato una strada. C'è chi parte subito e chi aspetta. Fra questi, chi trasporta le transenne che vanno a costruire i villaggi di arrivo, alcuni fra loro a San Benedetto sono arrivati ieri sera, dopo le undici. Chissà dove avranno cenato, chissà quante ore avranno dormito, visto che sin dal mattino presto quelle transenne sono legate ben salde a cambiare forma alla città.
"Se togli tutto questo da una piazza che hai visto solo così, farai fatica a riconoscerla" ci dice un vecchio suiveur. Sarà, sta di fatto che stasera forse anche loro finiranno presto e se qualcuno non abita molto lontano a casa arriverà prima.
Ma la casa di un ciclista non è solo quella che raggiungerà stasera o quella cui penserà su un altro volo. I ciclisti sono spesso lontani da quella casa, ma hanno radici profonde. Pensate che una domande a cui rispondono più volentieri è proprio quella relativa al loro paese, a quello che faranno quando torneranno lì. E talvolta sembra che a loro basti parlarne per tornare a casa.
Così, lontano, la casa di un ciclista è il luogo in cui si sente totalmente se stesso, che spesso più che un luogo è un modo di fare. Se è un luogo è in realtà l'attraversamento di un luogo, lo spostamento. La casa di un Tonelli, Boaro e Arcas è, in realtà, l'andare via di casa, dove casa è il plotone, la pancia del gruppo che protegge, che contiene. Per chi è bravo a limare, la casa è in uno spazio talmente stretto che ai più sembra invivibile. Ma non è lo spazio, è la capacità di starci dentro, di conoscerlo e gestirlo. Non a caso chi guarda la preparazione della volata dal traguardo ha continuamente la percezione di una caduta, come se ogni minimo sbandamento fosse un contatto. Chi è fuori, non conosce quello spazio, quella casa.
Casa è fatica, quella fatta per imparare a viverci, quella fatta per continuare a costruirla, a trovarsi bene come nei tempi migliori. Quella di Damiano Caruso che è un uomo al servizio sempre, oggi per Phil Bauhaus. E chi ha casa nella fatica ha un modo particolare di viverla, con dignità, col sorriso, anche se non ce la fa più.
Phil Bauhaus ha casa anche nel cognome. Un eco di qualcosa di lontano. L'ha nello sprint e in quella capacità di vivere la velocità come uno sprinter. La volata è l'apoteosi del concetto, è una casa che dura poche frazioni di secondo, un sentirsi a proprio agio che svanisce in qualche frazione di tempo. Perché non si fa il velocista, si è velocisti ed è questo essere a fare casa. Vale lo stesso per Tadej Pogacar che ha scherzato (chissà poi quanto) sulla possibilità di inventarsi qualcosa sulla Cipressa alla Milano-Sanremo. La sua casa è fantasia, qualcosa di bizzarro come il ciuffo che esce dal casco, quasi una ribellione agli spazi fermi, calmi.
Le valigie hanno lasciato posto ai primi camion che ora si spostano lentamente lungo l'arrivo. Si torna a casa. Ovunque sia, qualunque sia.


Il ritorno di Mathieu van der Poel

Ieri ci ha investito all'improvviso un po' di nostalgia. Era il momento in cui il gruppo - davanti la fuga, dietro i migliori della classifica, non fa differenza - stava facendo i conti con l'asprezza dei muri fermani. Zone tecnicamente esaltanti per chi del pedalare ne fa un mestiere, strade che, si è detto spesso, meriterebbero una corsa di un giorno nel calendario internazionale per giustizia, ma per fortuna la Tirreno-Adriatico spesso e volentieri si ricorda di passare di qui.

Torniamo al punto, che è quel senso di nostalgia che ci stava prendendo vedendo il gruppo lungo l'asfalto marchigiano. La nostalgia di Mathieu van der Poel che qui avrebbe sicuramente provato a dare spettacolo, magari con un'azione efficace, magari invece con uno scatto dei suoi, quelli un po' ingenui, quelli tanto per, quelli per sentire il rumore delle sue gambe, per sgolfarsi; quelli che a noi semplici appassionati piacciono comunque da matti. E allora ci siamo ricordati di come, poche ore prima, venisse annunciato il suo ritorno alle corse.

Lo stiamo braccando sui social in questo periodo, seguendolo virtualmente in queste settimane nei suoi allenamenti in Spagna. Alterna lunghi con uscite brevi di qualità; correda spesso il tutto con foto di pausa caffè più dolce, oppure qualche immagine che vuole essere un po' poetica, un po' scanzonata, con i suoi compagni di viaggio vicino a un fiume, una cascata, un sorriso, un pollice all'insù; poi capita come qualche giorno fa che, di fianco al tipo di allenamento fatto, van der Poel metta una faccina abbastanza eloquente, forse perché poco soddisfatto del suo risultato, forse perché particolarmente stanco, forse perché, appunto, semplicemente è van der Poel: era la smile dell'omino che vomita.

Tuttavia, il suo ritorno sarà manna per gli appassionati, e sarà l'occasione per i suiveur italiani: dal 22 al 26 marzo lo vedremo alla Settimana Coppi & Bartali e terreno per qualche azione spettacolare ci sarà.

Poi, stando al calendario presentato, si virerà subito al Nord, su quelle pietre che ha già domato e dove si lancerà in una sfida che pare già epocale: 30 marzo Dwars door Vlaanderen, ma soprattutto La Ronde, il Giro delle Fiandre, del 3 aprile. La sfida sarà con Wout van Aert, Tadej Pogačar e Kasper Asgreen (una rivincita) e compagnia stellata.

Se tutto andrà come deve andare lo aspetteremo a tutta una serie di domeniche incandescenti: 10 aprile Amstel Gold Race e 17 aprile Paris-Roubaix, nulla da aggiungere. Una l'ha vinta con una delle azioni più spettacolari di questi anni, l'altra l'ha persa, pochi mesi fa, per mano di Sonny Colbrelli, ma è un'edizione che ha già segnato l'epoca. In mezzo la Freccia del Brabante, 13 aprile, anche lì ha già lasciato il segno nel 2019 e chissà. Una gara che sembra disegnata appositamente per i corridori à la van der Poel.

La prima parte di stagione non si sa come si chiuderà, prima di passare all'estate e probabilmente al Tour de France, perché si vocifera di come possa venire a correre il Giro d'Italia e basta solo il suo nome per alzare ulteriormente l'attesa - al momento lasciamo perdere discussioni su un suo ritiro a Giro iniziato: intanto non sarebbe male vederlo al via della Corsa Rosa.

Ora è tempo solo di segnarsi la data del suo ritorno e di dargli un bentornato. Come andrà andrà, anche se c'è da giurarci che lo rivedremo da subito competitivo, perché come ha detto van Aert «Se ha le gambe per tornare a correre significa che ha le gambe per fare da subito qualcosa». Nel ciclismo delle imprese e delle grandi firme, la sua a oggi, manca decisamente.


Capovolgimenti

Alla partenza di Sefro, Giulio Ciccone e Julian Alaphilippe hanno visto la bicicletta in maniera diversa dal solito. Che a un ciclista piaccia la bicicletta non è, poi, un mistero, che un ciclista, passando davanti a una bicicletta, possa dire "ma che bella" non è assurdo ma nemmeno così scontato. Sì, perché per lui pedalare è un lavoro e, quando diventa un lavoro, le cose possono cambiare. Invece no. Loro guardavano quella bici e commentavano, come fanno molti tifosi dietro le transenne. Passavano la mano sul manubrio, come fa qualunque ragazzo quando va a comprare la bicicletta nuova, quasi che toccarla permettesse di vederla meglio. La bicicletta non si guarda solo, si tocca anche. Quando vedi due professionisti farlo, come lo hanno fatto Ciccone e Alaphilippe qualcosa si capovolge.

"I muri rallentano i ciclisti e se vanno più lenti li vedi meglio, per questo la gente va sui muri". Ce lo hanno detto mentre osservavamo quanto poco bastasse alla gente per saltare su una salita. Quanta poca salita servisse per fare ciclismo. Ovvero per fare grida, scritte sulla strada, birra e anche qualche spinta. E c'è chi dice che qualche ciclista, tempo fa, ebbe la lucidità per dire: "Grazie, oggi mi serviva". I muri non sono piacevoli, non per i ciclisti almeno. Per la gente sì, non solo perché può succedere qualcosa, ma perché c'è lentezza, c'è modo di vedere meglio, nonostante tutti vogliono andare veloce, nonostante anche quegli applausi e quelle grida sono una spinta ad andare veloci. Una realtà capovolta.

Evenepoel di capovolgimenti ne sa qualcosa. Lui che ha attaccato e si è trovato in coda, lui che ha girato la testa e chiunque può immaginare cosa abbia pensato, cosa abbia detto. Lì vicino c'era una casa, c'era un balcone. Chi aspetta il ciclismo ha pazienza. Sa tenere gli occhi fissi verso un luogo per tanto tempo perché il gruppo che passa è un attimo e se ti distrai, se giri la testa, se perdi quell'attimo non ha più senso. Beh chi guardava da quel balcone, da quella casa, ha avuto qualche secondo in più. Chi guardava da quella casa, quasi fuori dal percorso, ha visto qualcosa in più. Ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Essere nel posto sbagliato, non è stato così sbagliato questa volta. Capovolti.

La fuga stessa per Warren Barguil è un capovolgimento. Perché è la sua realtà a cambiare attraverso la fuga e perché ce lo dice subito: "Non ho mai creduto di poter vincere un Tour de France". Sì, perché oggi che Barguil è tornato a vincere si è tornati a parlare della sua generazione, dei corridori francesi che con lui hanno condiviso talento e fantasia. A molti fa piacere, a lui no. Lui prende ciò che accade per quello che è. Scattare è questo, scattare è prendere un momento e proiettarlo in avanti. Mentre tutti aspettano il momento giusto, chi scatta lo cerca.
A scattare si impara, perché potresti fare altre scelte. Chi scatta a cento chilometri dall'arrivo tendenzialmente viene ripreso: chi vince, spesso, va via all'ultimo. Barguil ieri ci aveva provato e aveva patito proprio la stessa sorte. Oggi la fuga non volevano proprio lasciarla andare via e proprio lui è tornato in fuga. Ha vinto. Si potrebbe dire molto, noi ci fermiamo qui, mentre Barguil va via e tutto ciò che è capovolto sembra perfettamente a proprio agio.


Un marchio di fabbrica

Quando uno degli allenatori più conosciuti del ciclismo americano lo notò, Brandon McNulty, da Phoenix, Arizona, era un ragazzo già alto, ma estremamente magrolino. Longilineo con gambe lunghe da fenicottero, aveva appena diciassette anni e, come (quasi) tutti i suoi coetanei, non era per nulla formato fisicamente. Lasciava, però, sulla strada prestazioni da far strabuzzare gli occhi.

Stracciò la concorrenza in una gara a cronometro di categoria: si dice che macinò una media di 380 watt per 30 minuti, con una normale bici da corsa, numeri superiori a chi prima di lui, Phinney e Van Garderen, venivano considerati tra i migliori talenti del ciclismo americano. Un tecnico della nazionale di atletica dopo aver visto quei dati pensò che il misuratore di potenza fosse rotto.

Attirò l'interesse di importanti squadre del Vecchio Continente, ma scelse di rimanere a correre con squadre americane per crescere con calma, senza lo stress e la tensione dei circuiti europei, e lo fece per altre tre stagioni rifiutando la fretta che a volte si mette addosso a chi, precocemente, mostra già di saperci fare nel proprio campo.

Suo padre, ingegnere del software, lo ha sempre definito come «all'apparenza timido, quasi schivo, ma in realtà è perché è un tipo super concentrato». I tecnici che lo hanno avuto per le mani: «il miglior talento del ciclismo a stelle e strisce dai tempi di Greg Lemond». A chi chiedesse un confronto con Adrien Costa - considerato il più forte corridore della sua generazione ma che abbandonò il ciclismo prima di passare professionista e di perdere una gamba in un incidente in montagna - si vedeva rispondere sempre la stessa cosa: «McNulty diventerà più forte».

Piccolo intermezzo per capire qual è sempre stato il suo terreno di gioco fino a questo 2022: le prove contro il tempo. A cronometro ha messo assieme, tra il 2015 e il 2019, 4 podi su 5 partecipazioni ai Mondiali (bronzo e oro tra gli juniores, argento e bronzo tra gli under 23). Meticoloso: prima di conquistare il titolo nel 2016 a Doha invitò a casa sua i compagni di nazionale Garrison e Stites. I tre occuparono per diversi giorni il garage di casa McNulty e con stufe calde e allenandosi con asciugamani bagnati cercarono di simulare l'afa che avrebbero trovato in Qatar. «Sono arrivato a un punto in cui pensavo di morire», raccontò McNulty all'epoca, ma lo disse, pare, accompagnando tutto con una fragorosa risata.
Vinse quel titolo iridato tra gli junior con un tempo che gli sarebbe valso il podio anche tra gli Under 23 davanti a gente come Asgreen, Cavagna, Pedersen e Ganna. Ma i tecnici con lui continuarono a usare la cautela: «Solo perché un bambino va forte come un adulto, non vuol dire sia già maturo». Fine intermezzo.

Passato nel World Tour nel 2020, McNulty in queste prima settimane di corsa sembra aver dato una definitiva sistemata allo scossone che ti prende quando fai il salto di categoria. Ha già conquistato tre corse, tutte allo stesso modo: attaccando da lontano e su tracciati duri.

E se la prima volta può sembrare un caso e la seconda ti fai qualche domanda, la terza, ieri alla Parigi-Nizza, la prendi come fosse diventato il suo definitivo marchio di fabbrica: «Mi piace vincere arrivando in solitaria» ha detto. Quasi 60 km al Trofeo Calvia, ma siamo letteralmente alle prime gare di stagione; quasi altri 30 un paio di settimane fa alla Faun-Ardèche Classic: partito dopo che a fare la selezione si erano messi Alaphilippe e Roglič.

Ieri, il classe '98 della UAE Team Emirates, verso Saint-Sauveur-de-Montagut, tappa con qualche colle da spezzare le gambe (chiedere a van Aert per esempio) e disputata sempre nella regione dell'Ardèche («mi viene da pensare che salite e discese di questa zona si adattino particolarmente alle mie gambe») ha fatto sfoggio delle sue armi migliori: doti sul passo, coraggio, capacità di guida, piacere nel stare faccia al vento in solitaria.

Ha attaccato subito dopo il via con altri corridori e a 39 dall'arrivo se n'è andato tutto solo con una sparata irresistibile. Così come da solo è arrivato. A fine tappa ha detto: «E pensare che stamattina ero convinto di non partire».

Quello che hai, quello che puoi

Quello che hai e quello che puoi. Anche oggi, anche a Bellante, è stata tutta e sempre questione di quello che hai e quello che puoi. Non solo davanti, non solo per Tadej Pogačar che ha vinto, per ognuno, in ogni tratto di strada. Partendo dal fondo, dove la corsa sembra lontana, dove la calma può arrivare a tramutarsi in noia per chi aspetta: in realtà è dolore per chi può appena stare davanti al veicolo di fine gara, per chi si sente atteso, sente che anche l'appassionato che ha provato, per gioco, a seguire la vettura scopa andrebbe più forte di lui. La chiamavano scopa perché non lascia indietro nessuno. E l'abbiamo visto spesso: basta un cenno, un minimo segnale con la mano, il guidatore scende, apre la portiera e carica la bici. Quello che puoi e quello che hai: talvolta solo la possibilità di salire in macchina.

Talvolta solo la noia. Allora, chi è in fondo al gruppo, al seguito della corsa, si saluta, quando l'andatura rallenta picchia sul vetro della macchina più vicina, chiede come vada, fa una battuta. Un modo per andare avanti. Capita che qualcuno scenda dalla macchina e, nei tratti in cui scorge qualche borraccia, la raccolga. La butta in auto, non la guarda nemmeno perché non si può. Non c'è una sacca in cui metterla, non c'è nulla. Magari ce ne sono tre, quattro vicine, se ne raccoglie appena una e si va via. C'è una cadenza, un rito stabile: i frecciatori che tolgono le indicazioni stradali: un'auto dietro il fine corsa, che cancella i segni della gara. Lascia solo il ricordo, può solo quello.
Quello che puoi e quello che hai, intrecciati dalla partenza dove due atleti francesi si chiedono di Giovanni Visconti. Ci pensano e non sono gli unici. Quando un ciclista smette l'effetto è questo, perché non può più e fa strano a pensarlo. Sai che finirà, prima o poi, hai questo punto fermo ma quando succede fa strano, perché il mondo fuori da qui è diverso. È diverso ciò che hai, è diverso ciò che puoi. Non puoi tornare, ad esempio, e questo ti spiazza. In bicicletta, vada come vada, puoi tornare, puoi riprovare.

Ieri avevamo parlato dell'orgoglio di Evenepoel: potevamo solo immaginarlo, oggi l'abbiamo visto, oggi sappiamo di cosa è fatto. Dei cartelli dimenticati bordo strada: «Attacca adesso, Remco. Per favore». Puoi chiedere, hai solo quella possibilità, perché le gambe non sono tue. Puoi chiedere per favore, lo fai.
Poi c'è Pogačar che, in questi giorni, sembra potere e avere tutto. Tutto ciò che serve per riuscirci. Tutto ciò che serve perché sembri facile e le cose difficili sono belle proprio quando sembrano facili. Non è difficile per il percorso, non per la salita di Bellante, che anche ripetuta è digeribile. È difficile perché non sarebbe la tua tappa, non sarebbe la tua giornata, nemmeno il tuo percorso. Eppure ti arrangi con quello che hai. Che poi arrangiarsi non è il verbo giusto per quello che fa Pogačar. Il suo predicato è costruire, mettere assieme, unire il tempo. In secondi, in minuti. Guarda gli altri, li provoca, li stuzzica. Forse li illude anche, pensiamo a Victor Lafay che un colpo simile se lo era già inventato al Giro lo scorso anno, e poi decide quale carta buttare sul tavolo.

Qui aspettavano Alaphilippe, perché è lui e perché il Campione del Mondo che vince nella tua città fa sempre un certo effetto. Qui aspettavano Giulio Ciccone, perché siamo in "terra d'Abruzzi" e tutti lo chiamano per nome, che fa casa, che fa uomo, ragazzo di queste strade prima che ciclista. Qui hanno applaudito Quinn Simmons che ha attaccato tutto il giorno e, appena ripreso, si è messo a lavorare per i compagni. Quello che hai, quello che puoi, ma anche quello che non hai e non puoi più, quello che senti di dovere. In fondo quello che sei.
Un ciclista. Come Magnus Cort Nielsen che è arrivato con quasi ventidue minuti di ritardo, davanti a quella vettura che non abbandona nessuno, che segue e aspetta. L'unica cosa che si poteva fare oggi con Cort Nielsen, una delle poche che si possa fare con la sofferenza, col dolore. Gli hanno detto: "Dai che ce l'hai fatta". Ce l'ha fatta davvero, con quello che ha e con quello che può. In testa, in coda, persino su un'ammiraglia dopo il ritiro, è sempre tutto lì.


L'irrésistible

In Francia, tra ieri oggi, oltre a fargli i dovuti complimenti si domandavano, più o meno ironicamente: "Fino a quando Wout abuserà della nostra pazienza? Fino a quando mentirà sul suo stato di forma?"
La tesi, più o meno: van Aert sostiene di non essere al massimo, continua a dire di essere alla Parigi-Nizza per trovare la migliore condizione, eppure in 5 giorni di gara ha un ruolino di marcia del tutto pogačaresco, tanto che a sentirlo parlare a fine corsa pare gli si allunghi sempre più il naso. «Sono qui per trovare la gamba migliore. La parte di settimana che mi interessava ora è finita - raccontava ieri dopo la vittoria nella cronometro - il prossimo obiettivo sarà passare la maglia di leader a Roglič». C'è chi dubita pure su quest'ultimo passaggio, e in caso di annullamento sabato dell'arrivo sul Col de Turini, la salita più importante di questa edizione della corsa, c'è chi inizia a puntare seriamente su un suo successo finale.

In 5 giorni di gara, disputati tra Omploop Het Nieuwsblad e Parigi-Nizza, il belga ha ottenuto 2 vittorie, 1 secondo e 2 terzi posti. In Belgio ha staccato tutti sul Bosberg, alla Parigi-Nizza è il titolare della maglia gialla e di quella verde, se fosse più giovane (basterebbe poco, tre anni) avrebbe vestito anche la maglia bianca, se si fossero incontrate più salite forse pure quella a pois.
Uno di quei terzi posti è arrivato perché lui e Roglič hanno voluto omaggiare il compagno di squadra Laporte; il secondo posto - a Orléans - l'ha ottenuto alle spalle di Jakobsen, considerato il numero uno al mondo o poco ci manca, delle volate, in una giornata in cui van Aert cade e poi si dà decisamente da fare nei ventagli contribuendo a selezionare il gruppo. E a questo non vogliamo aggiungere ciò che nei pochi ciclocross stagionali ha messo vicino? Saremmo sgarbati come quelli che gli danno del bugiardo: 9 vittorie su 10 cross, con un quarto posto arrivato dopo un incidente meccanico con recupero dalle ultime posizioni.

Di cosa stiamo parlando dunque? Dell'irresistibile per antonomasia in questo momento. Almeno oltre le Alpi. Se alla Tirreno-Adriatico a Pogačar bastano pochi e semplici gran premi della montagna (e KOM su Strava) per stuzzicarne la voglia, alla Parigi-Nizza il computer di bordo di van Aert non appena vede il traguardo si mette in modalità Pac-Man divorando tutto quello che trova attorno.

Più che raccontare bugie, van Aert appare fisicamente tirato a lucido come non mai e si sente così bene da suppore di avere ancora margini di miglioramento; appare leggero mentalmente, carico - a differenza del finale di stagione 2021, con polemiche e débâcle che lo consumarono psicologicamente abbassandone di conseguenza le prestazioni.
Ora non vediamo il momento di gustarci una bella sfida tra lui e Pogačar e basta attendere a poco: la Milano-Sanremo è sempre più vicina. Come, si spera, anche la vera primavera.


Chi viene da lontano

È il giorno di chi viene da lontano. Prendete Davide e Mattia Bais, ad esempio. Loro sono abituati a venire da lontano, lo è chiunque abbia scelto la fuga come interpretazione del ciclismo. Di più, si viene da lontano e si prova ad andare lontano. E quell'andare lontano attrae e respinge nello stesso tempo. Andare lontano è croce e delizia, perché lontano si può trovare qualcosa o perdere tutto. Taco van der Hoorn lontano ci è andato non solo in bicicletta e lì ha trovato più di quanto abbia lasciato: lo ha fatto con ciò che aveva, un vecchio Volkswagen e il necessario per dormire, ma anche del buon caffè, per gustarsi quella lontananza. Sì, la lontananza scegli se ricordarla o dimenticarla ma se sei un ciclista, in un modo o nell'altro, l'hai dentro.
La lontananza potrebbe spiegarla Tadej Pogačar che tutti pensavano si fermasse dopo lo scatto per il traguardo volante e invece ha continuato e in Piazza a Terni ci si chiedeva dove sarebbe andato. Sì, in piazza, come si fa con i fatti del giorno, come si fa aprendo il giornale al mattino e commentando le notizie. Oggi per Terni non c’è lontananza. Quella che può spiegare Alaphilippe che, in quello scatto, c’è stato. Non solo fisicamente, anche mentalmente. Non solo per provarci, non solo per un segnale, per riuscirci. E ci sono le transenne che fremono, sì perché ve la immaginate una tappa così con all’attacco Pogačar e Alaphilippe? Qui l’hanno vista e mentre ci pensavano non tenevano ferme le mani. Il freddo? Non solo. Le stesse transenne a cui si è appoggiato Evenepoel e chissà a cosa pensava, con quello sguardo in avanti, a cercare qualcosa. Sembra abbia detto che attacchi come quelli di Pogačar per i traguardi volanti sarebbero stati anche pane per i suoi denti. Un tempo, oggi non più. Chissà domani, chissà l’orgoglio.
Invece la lontananza ce la spiegano, a Murlo, due signori americani che in Italia sono arrivati per pedalare e per la Strade Bianche, ma hanno cambiato il volo aereo appena hanno scoperto che un’altra gara sarebbe passata. Che in italiano dicono quasi solamente “ciao” ma conoscono i vini, i vigneti e anche alcuni fra i nomi che indicano le vie, che sono amici di Toms Skujiņš che viene dalla Lettonia, un altro mondo rispetto a loro. Sono lontani e lontano vogliono restare, almeno per ora. Perché ad allontanarsi ci si può prendere gusto.
Lontano come è lontano Caleb Ewan. Perché viene dall’Australia, dall’altra parte del mondo, perché ha gli occhi a mandorla, quasi una forma differente di visione del mondo che ti resta addosso. E perché per un velocista la lontananza è un mondo da esplorare. Loro che in volata lasciano appena spazio all’aria. Vicini, sin troppo. Senza toccare i freni. Con la costante tentazione di allontanarsi, di quel tanto che basta per alzare le braccia e sentirsi liberi. Lontani e ritrovati.


Duro Pedersen

Qualche tempo fa, Mads Pedersen spiegò: «Quando ero ragazzo conoscevo solo un modo di correre: mettermi davanti, fare selezione e poi battere tutti in volata». Non erano nemmeno tantissimi anni fa quando Pedersen correva in quel modo, perché, pur essendo professionista da qualche stagione, sembra abbia ancora margini da scoprire e confini poco marcati rispetto a tanti della sua generazione di corridori, o forse sarà quel titolo mondiale vinto quando doveva ancora compiere 24 anni - il più giovane dai tempi di Freire - che ci ha lasciato di lui un'impronta di eterno ragazzo.
Da junior, era il 2013, vinse la Paris-Roubaix: è vero, nulla a che vedere con quella dei grandi – basta vedere il terzo posto di Geoghegan Hart- , ma fa capire quanta tempra e quali desideri si manifestino nella mente del corridore nato 26 anni fa a Tølløse, Danimarca.
Mostrò da subito la stoffa del duro da corse dure. Più una gara ti macerava dentro e più lui spiccava. Non sono un caso quei pochi giorni nel 2018 tra Dwars door Vlaanderen e la successiva Ronde. Alla Dwars arrivò quinto, giornata ghiacciata, giornata di pioggia, chiuse stremato in fondo al gruppetto che vide la vittoria di Lampaert non senza aver provato a mettersi davanti nel finale “per fare la selezione e battere tutti in volata”.
Al Giro delle Fiandre fu secondo alle spalle di Terpstra che tutto solo si involava verso Oudenaarde. Pedersen andò in fuga da lontano per fungere d'appoggio ai suoi capitani, Degenkolb e Stuyven, ma, sorpresa delle sorprese, staccò i suoi compagni d'avventura e fu l'ultimo a resistere a un irresistibile Terpstra. «Il Fiandre è una corsa di sopravvivenza – disse a fine gara – e non importa come ti chiami o quanto forte tu sia».
Lo dimenticammo. Per un po'. Un anno e mezzo dopo Mads Pedersen divenne famoso, pure in Italia e ci giuriamo anche a casa Trentin, per la vittoria nel Mondiale di Harrogate. Una corsa durissima, di quelle che piacciono a lui. Bagnata, di quelle che lui adora, con un gruppetto che (quasi) congelato arrivò a giocarsi la maglia iridata dopo aver lasciato per strada il grande favorito del giorno, Mathieu van der Poel che, sei anni prima, nel Mondiale categoria juniores disputato a Firenze, arrivò primo proprio davanti al danese.
Lo conoscemmo bene ad Harrogate. Lo approfondimmo. Ci fece un po' arrabbiare, per partigianeria - sfidiamo chiunque a sostenere di non aver provato tantissima amarezza quel giorno - , ma lo perdonammo. Per quel suo viso pacioccone che ispira simpatia, per quel suo modo discreto di apparire - come ieri - fortissimo, o scomparire - come spesso nel 2021 - mesto, appesantito e in fondo al gruppo.
Vestito con la maglia iridata fece un po' di fatica, lui che, spunto veloce, quasi velocissimo, vinse una spettacolare edizione della Gand-Wevelgem nel 2020, la vittoria più importante conquistata da campione mondiale in carica.
Ieri, mentre il gruppo si lanciava a tutta verso il traguardo di Dun-le-Palestel, alla Parigi-Nizza, Pedersen, che lo puoi riconoscere facilmente dalle bandine iridate sui bordi della sua divisa, è partito lungo per il suo sprint battendo un gruppo che ancora portava le cicatrici dei ventagli del giorno precedente.
Partito lungo, con quel miscuglio di potenza e sfrontatezza che spesso ci chiediamo come mai spicchi solo a intermittenza, come la luce difettosa in una sala. «È stata una giornata abbastanza buona, oggi». Semplici parole, mentre le gote rosse pulsavano e a malapena riusciva a nascondere l'entusiasmo.
Ha aggiunto che salterà la Milano-Sanremo perché quella è la corsa di Stuyven, capitano, suo capitano, vincitore uscente della Classicissima e ieri artefice in buona parte della vittoria del compagno danese con una trenata che fa suonare un campanello d'allarme nella testa degli avversari che vorranno provare a vincere la grande classica ligure.
Pedersen, invece, una giornata ancora migliore la cercherà nella corsa dei suoi sogni, la Roubaix, quella per uomini duri come lui. «Se dovesse piovere alla Roubaix? Sarebbe meglio per gli spettatori, sarebbe meglio per i giornalisti, sarebbe meglio anche per me». Raccontava, quando ancora la stagione doveva aprire i battenti.


Come formiche

Non c'è molto di diverso tra quello che è accaduto a Camaiore stamattina e quello che è capitato a Sovicille questo pomeriggio. Una partenza e un arrivo, certo, ma, a parte questo, si parla sempre, come dicono da queste parti, a Sovicille per l'appunto, di "una corsa di biciclette". Che poi, a ben vedere, a correre è l'uomo più che la bicicletta ma, nei vecchi paesi, si dice ancora così, come si aspetta la "partita di pallone".

Non c'è molto di diverso ma in realtà è tutto diverso. A Sovicille ci sono le domande, fuori da un vecchio bar, col sole radente, e un piatto di crostini neri, fegato e milza. Qualcuno vuole che gli si spieghi bene perché un gregario fa tutta la fatica che fa, perché quei cinque corridori sono scattati stamattina senza alcuna possibilità, altri cercano di capire di che nazionalità è un corridore dalla lingua che parla. Accade anche a noi, mentre un giornalista francese cerca di spiegarci perché segue il ciclismo e, per dire che lo segue per ciò che gli permette di sentire, poggia una mano sullo "stomaco". Ecco, a Sovicille a questa cosa non erano abituati.

Non sappiamo spiegare neanche noi lo scatto di Pogačar al traguardo volante, se non col fatto che sta bene, che, comunque, ha guadagnato un secondo, che punta a vincere questa Tirreno. Sappiamo spiegare il fatto che Cavendish si stacchi su una pendenza per nulla rilevante: se la gamba non c'è, non c'è. Tutte cose su cui riflettiamo noi e chi "le corse di bicicletta" le vive quotidianamente, per chi non è abituato tutto questo è estremamente naturale, mentre le spiegazioni si cercano per le cose che, col tempo, sembrano semplici, forse scontate, che poi, talvolta, non sono nemmeno così semplici. Per esempio quante borracce ha una squadra all'inizio di una gara come questa.

Anche per una volata accade così. Chi attraverserebbe campi e campi con semplici scarpe da ginnastica, anche graffiandosi, per una volata? Spettacolare quanto vuoi, ma certe cose, nel ciclismo, accadono sopratutto in salita. Come tante formiche per i campi, le persone. Ci dicono che qui vicino c’è un paese talmente sperduto da non essere conosciuto quasi da nessuno: Castiglion che Dio sol sa. Qualcuno sarà arrivato pure da lì.

E non solo per vedere Merlier vincere, per molto di più. Per fare attenzione a ogni movimento di un ciclista dopo l’arrivo: “Guarda quello che si è seduto sul muretto. E adesso cosa fanno? Ah lo coprono. Ma hanno la Coca Cola in mano, la bevono dopo il traguardo?”. E così via.

Mentre Merlier vince e Ganna resta in maglia azzurra. Mentre Merlier cerca dall’altra parte delle transenna la compagna e non gli interessa nulla del fatto che lo stanno aspettando alle interviste: certe cose vanno dette subito, altrimenti le perdi. Ed è un bene che sia successo, qui, a Sovicille, dove le persone, quando ti conoscono ti accompagnano a vedere un’incisione di un uomo che caccia un animale fantastico, sulla Chiesa di San Lorenzo. E tu resti lì, stupito, ad ascoltare.

Qui dove non sapere è anche meglio di sapere perché puoi stupirti e guardare ciò che non avresti mai visto. Fosse anche solo un tubolare.