Le bici da crono appartengono al ciclismo?

Su una bici da crono, Chris Froome ha consolidato gran parte dei suoi successi al Tour, ma non solo: ha conquistato tre medaglie di bronzo, due ai Giochi Olimpici e una al Mondiale.
Su una bici da crono Chris Froome, probabilmente, salvo smentite in questo 2022, ha messo fine a una carriera ad altissimi livelli, forse anche a medio-alti.

Chi se lo dimentica: era il 12 giugno del 2019 e Froome era in ricognizione della tappa a cronometro al Critérium du Dauphiné, che si sarebbe disputata nel pomeriggio. «Mi stavo soffiando il naso - raccontò qualche tempo dopo - quando all’improvviso una folata di vento ha travolto in pieno la ruota anteriore, mi ha fatto sbandare e sono finito contro un muretto». Storia nota il seguito, i brandelli in cui si era ridotto, il bollettino medico.

Di bici da crono e dell'uso che se ne fa, parla Froome nel suo canale YouTube dove ogni tanto fa capolino raccontando senza troppi peli sulla lingua alcune dinamiche legate al suo mestiere - seguitelo (https://www.youtube.com/channel/UC-Kpp0NLi-Y3d7rKWscjZ3A) perché ha sempre cose interessanti da raccontare, mostrandosi mai banale e perfettamente in linea con il personaggio che è.

Le bici da crono appartengono davvero al ciclismo su strada, si chiede Froome? «Non fraintendetemi: amo le crono - racconta nel video, dopo aver mostrato cosa gli piace fare per rilassarsi nel tempo libero.

In garage, in mezzo a, indovinate un po'? Un sacco di bici. Appese al muro la collezione di quelle a cui è più legato, le Pinarello con le quali ha vinto i Grandi Giri (e difatti se ne vedono con livrea rosa, gialla e rossa); in garage mentre fa un po' di manutenzione dopo un allenamento: «Quando ero ragazzo lavoravo in un negozio di biciclette e questo è quello che mi piace fare, questo è il mio piccolo spazio» racconta fiero. Così come si dice interessato all'evoluzione tecnica delle bici.

È appena rientrato da un giro, Froome, un allenamento su bici da crono. «Stavo riflettendo, stamattina, proprio sulle bici da crono. Premessa: amo le prove contro il tempo, sono arte, abilità, sono qualcosa che devi conoscere bene per essere un ciclista professionista. Una delle cose magiche dei Grandi Giri è proprio l'equilibrio tra scalatori e corridori che vanno forte a cronometro. Questo è uno degli elementi più interessanti delle corse a tappe. Solo che le bici da cronometro non sono pensate per essere utilizzate su strada. Se nel Tour è inclusa una cronometro, spesso si tratta di uno sforzo di un'ora. Sta diventando sempre meno comune, è vero, ma per essere pronto per un esercizio così, dovrai uscire con la tua bici da cronometro per simularla. Su quante strade è possibile guidare per un'ora senza traffico, segnali di stop, semafori, persone che ti attraversano la strada? Nel mondo reale da nessuna parte. E poi - prosegue il 4 volte vincitore del Tour, che arriva a questa riflessione probabilmente anche dopo quello che è successo a Bernal - quando sei su una bici del genere sei chino sulle appendici e non hai le mani sui freni: non è una cosa sicura! Un conto è farlo in gara, un altro è su strade normali aperte a tutti».

E quindi Froome pone la questione: «Sono davvero necessarie le bici da crono nel ciclismo su strada? Eliminarle significherebbe, oltre a ridurre i pericoli, anche garantire condizioni di parità fra i contendenti. A fare la differenza potrebbe essere più l'abilità del corridore che il materiale, l'aerodinamica o le ore trascorse nella galleria del vento. Dobbiamo fare qualcosa: l'ironia della faccenda è l'UCI che sta escogitando diversi stratagemmi per ridurre i pericoli in corsa, come la posizione sulla bici in discesa, e questo sarebbe un passaggio facile da introdurre; qualcosa che avrebbe un impatto maggiore sulla sicurezza dei ciclisti. Siamo arrivati a un punto in cui bisogna pensare in modo più logico al nostro sport. Bisogna renderlo più sicuro. Certo, per me potrebbe essere uno svantaggio, ma bisogna pensare a un quadro più ampio e alla sicurezza dei corridori».

Qualcuno obietterà come Froome proprio grazie alle bici da crono ha arricchito il suo palmarès, d'altra parte lo specifica anche lui, ma si tratterebbe di guardare il dito e non la luna. E poi, chi meglio di uno che è sempre andato forte a cronometro potrebbe spiegarci il rischio nell'uso di questo mezzo sulle strade i tutti i giorni? Meriti sportivi o esperienza di Froome a parte, l'UCI ha il compito di ascoltare la voce dei diretti interessati, ponendo all'ordine del giorno la questione. Che poi l'opinione la diffonda un corridore così blasonato, non può che giovare a un'idea di cambiamento.

Foto: ASO/Gautier Demouveaux


Dirsi la verità a qualunque costo: intervista a Giovanni Lonardi

Giovanni Lonardi si augura di ricordare per molto tempo la vittoria alla Clàssica Comunitat Valenciana a fine gennaio. Tra l'altro, in quella gara, Lonardi non avrebbe nemmeno dovuto esserci ed è stato convocato pochi giorni prima per sostituire un compagno. A inizio stagione le sue gambe hanno sempre girato bene, il punto è che quella sensazione di serenità che lascia la vittoria rischia di svanire presto se non ci si ripete e questo è un problema.
Non è stato un anno facile l'ultimo per Giovanni, per questo ha scelto di cambiare squadra e di passare dalla Bardiani alla Eolo-Kometa. Qualcosa si era rotto dopo la mancata convocazione al Giro d'Italia, uno dei traguardi più importanti per una Professional. Cambiare non gli piace, se sta bene, anzi, è abbastanza abitudinario ma, a venticinque anni, è certo che se le cose non vanno bisogna assumersi la responsabilità di cambiare. Sempre quei venticinque anni lo hanno portato a riflettere sulla sincerità nel proprio lavoro: «Non correre un Giro d'Italia fa male soprattutto quando sai che avresti avuto la forma per partire. Da corridore è difficile ammettere che non si è pronti e chiedere al direttore sportivo di scegliere un altro. Davanti a quell'occasione si diventa egoisti. Penso sia fondamentale trovare quel coraggio, anche se pesa, e far notare al direttore sportivo ciò che magari non ha notato, anche se significa rinunciare a una tappa importante della stagione».
Giovanni Lonardi ha cambiato, sarebbe potuta andare male, invece è ripartito col botto. Ammette che serve coraggio per scegliere perché non sai mai come andrà, ma non vuole porre l'accento su questo aspetto perché «nella vita normale è tutto più difficile. Io ho cambiato ma faccio comunque il ciclista, ci sono persone che lasciano il proprio lavoro e devono reinventarsi in ruoli di cui non conoscono nulla». Il suo ruolo, ad oggi, è quello di velocista, non puro però. Quella gamba veloce di cui è dotato fa la differenza soprattutto in percorsi mossi, quando lo sprint è in un gruppo ristretto. La vittoria che glielo ha fatto capire a Forlì, nel 2018, al Giro Under23. Di strada ne ha fatta molta da quel giorno, assegnando sempre maggior valore al lavoro, perché da ragazzo gli capitava di prendere alla leggera qualche allenamento. Poi si cresce e si matura.
Per questo, se guarda avanti, Lonardi si lascia più possibilità: «Magari resterò velocista, magari scoprirò che sarei più utile come ultimo uomo. Ma non è detto, potrebbe essere necessario migliorare in salita. Bisogna essere pronti a cambiare, essere agili in questo senso». Per intanto, continua a provare il treno che deve guidarlo in volata, sicuro del fatto che per quanto si provi, la vera prova è la gara perché ci sono situazioni non simulabili in allenamento.
Crede che la sicurezza stradale sia un punto su cui ognuno ha il dovere di lavorare, perché le cose non sono ancora cambiate. Del ciclismo gli piacciono molti aspetti, viaggiare ad esempio, ma, da quando è diventato un lavoro, qualcosa è cambiato: «Una vittoria ti lascia molto più di ciò che ti tolgono i sacrifici. Per mettere il bilancio in pari bisogna anche vincere. Capita il giorno in cui sei contento anche solo di allenarti e questo vuol dire molto, però, in una carriera, di giorni ce ne sono tanti e uscire in allenamento non è sempre così piacevole. Soprattutto se ti alleni e i risultati non arrivano».
È giovane e, in un modo o nell'altro, si sente vicino a quei ragazzi che alla sua età devono smettere e ricominciare da capo. Lui non ha mai pensato a cosa avrebbe fatto se non avesse fatto il ciclista, ma il suo realismo gli impone di pensare a cosa avrebbe fatto se non avesse trovato una squadra o se dovesse trovarsi in una situazione simile. «Siamo troppo giovani per avere già da parte qualcosa che ci permetta di aspettare a cercare un lavoro. Non sono per restare attaccato a tutti i costi al ciclismo: fino a quando ci sono le possibilità per farlo e farlo in un certo modo sono contento di essere ciclista. Se non fosse capitato avrei cercato un altro lavoro, senza troppi rimpianti. Dobbiamo avere il coraggio di dirci chiaramente quando non è il caso di insistere. Si tratta di onestà con se stessi».


Alla ricerca di se stesso: intervista a Mattia Viel

La bicicletta a Mattia Viel procura un misto di sensazioni. Quando era bambino pedalare era qualcosa che lo avvicinava alla libertà, ma non proprio libertà, forse non è la parola esatta. Forse la sensazione che più si avvicina a quello stato dell'anima è catarsi, liberazione. «Pedalavo come un forsennato: sfogavo rabbia e frustrazione. Iniziai a correre a dieci anni e quello stesso anno persi mia madre; pensavo a lei in ogni momento, vincevo le gare e le dedicavo a lei; ogni gara e ogni allenamento per me erano il mezzo più semplice per evadere da un sentimento oppressivo che mi portavo dentro».

La bicicletta al centro della casa di Mattia Viel l'ha messa suo padre. «La domenica, quando andava a correre, lo aspettavo trepidante. Pensavo a quel mazzo di fiori che avrebbe portato a casa come premio. Lui è una figura centrale della mia vita, sempre presente, ma non una figura ingombrante, quanto fondamentale. Gli episodi della vita mi hanno fatto maturare in fretta, sono andato a correre all'estero che ero ancora un ragazzino (Chambéry CF, in Francia, e poi in Inghilterra con la Holdsworth, ndr), ma lui mi è sempre stato vicino».
Ha vinto tanto fino agli juniores, da professionista si è ritagliato uno spazio da uomo squadra - volate altrui - o spesso lo ritrovavi in fuga - vedi l'ultima Sanremo.

Milano Sanremo 2021 - 112th Edition - Milano - Sanremo 299 km - 20/03/2021 - Mattia Viel (ITA - Androni Giocattoli - Sidermec) - photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2021

Andava forte anche su pista, dove da allievo si prese il lusso di battere un certo Ganna ai campionati nazionali; una promessa del ciclismo, diremmo enfatizzando, qualcosa in più, qualcosa in meno, difficile capire da quale parte mettersi su quella sottile linea, figurarsi a quell'età. «Perché non ho mai sfondato? Chi può dirlo. Sacrifici ne ho fatti e ne faccio, ma forse il mio approccio al ciclismo era differente. Ho sempre dedicato molto tempo agli studi e grazie a questo mestiere ho conosciuto altri valori, mi sono tolto altre soddisfazioni».

Ha iniziato a pedalare a dieci anni, ma non ha intenzione di smettere ora che ne deve compiere ventisette, dopo aver passato un inverno in cui pareva sul procinto di chiudere la sua avventura agonistica: l'Androni, a fine 2021, non gli ha rinnovato il contratto. «Ho avuto delle offerte, ma non mi soddisfacevano». Perché un conto e ripartire con un rimborso spese e una valigia piena di sogni, quando hai vent'anni, un altro è farlo quando l'attenzione si sposta su altre priorità. «E così sono stato in Sudafrica, dove vive la mia ragazza, e ho iniziato a pedalare fuoristrada, lontano da quei posti che abitualmente percorreresti da stradista, e quando sono tornato a casa mia a Torino ho aperto gli occhi: ma davvero è una vita che pedalo in mezzo al traffico, con i camion che mi sfiorano e gli autisti che suonano il clacson continuamente? Ho iniziato a godermi le pedalate, ho iniziato a essere più libero».

Togliendosi di dosso sensazioni soffocanti. «E ho visto che mi piaceva. Noi siamo fatti per pedalare in mezzo alla natura, per goderci un lungofiume, per fare una salita e vedere un animale che corre, non possiamo rischiare la vita per fare qualcosa che ci piace. E poi c'è talmente tanto caos nella nostra vita che almeno quando esco in bici voglio tornare a una sorta di normalità. Può sembrare scontata come cosa, ma per me non lo è, perché i miei gesti nel ciclismo erano sempre: attaccare il numero alla maglietta e correre, mentre ora mi sto accorgendo di tante cose diverse. Il gravel mi sta insegnando a essere più presente con me stesso e con quello che ci circonda: pedalo e mi godo un paesaggio. Pedali, ma in realtà viaggi: cosa vuoi chiedere di più?».
Pedalare aiuta a riflettere, forse è un fatto di chimica, non lo so. Fatto sta che a Viel viene in mente qualcosa. «Ci tengo a precisare: non sono il primo, nessuna idea rivoluzionaria, ma ho iniziato a creare un progetto intorno al gravel. Ho messo giù un piano cercando collaborazioni con sponsor tecnici, ho contattato aziende interessate, offrendo in cambio feedback, piani legati al marketing: una sorta di ambassador del gravel ma rimanendo competitivo disputando diverse gare. Inizierò a livello europeo e prima o poi mi sposterò anche in America».

E rimanere competitivi fa parte di questo percorso. «Ho portato la mia idea a diverse squadre Continental e la D'amico UM Tools ha sposato il mio progetto. Correrò con loro diverse prove del calendario italiano su strada, anche tra i professionisti, con la libertà però di portare avanti in parallelo la mia attività nel gravel». Una sorta di Lachlan Morton italiano. «Magari! Ci metterei la firma per fare quello che fa lui. Con tutte le differenze del caso: uno degli aspetti più interessanti legati a questa disciplina è che ognuno può sviluppare la sua filosofia in maniera totalmente differente da un altro». Perché ciò che conta è il messaggio. «Peculiare è trasmettere l'idea del fascino del pedalare fuoristrada. Coinvolgere i settori giovanili, quei genitori che vogliono far pedalare i figli ma hanno timore di quello che succede in strada. Oppure dare sbocco a un ex pro che non ha più la possibilità di correre. E puoi farlo in maniera competitiva oppure per goderti semplicemente una bella pedalata».

Mattia Viel ricerca se stesso. Una nuova vita, che non sarà troppo diversa da quella che aveva prima: al centro del suo mondo ci sarà, come gli è sempre accaduto, la bicicletta. «Con l'aiuto di altre persone sto organizzando anche un evento gravel nel canavese che dovrebbe tenersi il 9 ottobre. L'idea è sfruttare al meglio una zona dove la bicicletta è molto sentita, i percorsi si prestano, ma anche per valorizzare da un punto di vista culturale il territorio. Questa è poi una delle filosofie principali che ruotano attorno a questa disciplina e sarà uno degli elementi principali che alimenteranno il fuoco delle mie azioni».

Quando Mattia mi racconta che oltre a correre su strada e iniziare a correre nel gravel, durante il lockdown ha aperto insieme alla sua compagna un'attività legata al ciclismo («Che si occupa di riabilitazione post infortunio, esercizi posturali e programmi fitness, stretching e massaggio sportivo»), interrompo bruscamente la nostra chiacchierata definendolo: “Un vulcano di idee”. Mattia tira un sospiro, sorride – almeno credo, ma spesso si scrive così, o comunque è stata questa la sensazione da una parte all'altra del telefono – e afferma: «Ero! un vulcano idee, ora quel vulcano sta dormendo: è arrivato il momento di concretizzare».
È arrivato il momento di cercare se stessi. Sempre in bicicletta, come fa da quando aveva dieci anni e viveva quel misto di sensazioni.


Una questione di gambe

Se la gamba di Battistella la si potrebbe definire interessante, quella di Ganna invece (anche) oggi aveva qualcosa di irreale. Provate a vedere come da solo si mette a caccia di Bodnar negli ultimi chilometri di un'adrenalinica frazione al Tour de la Provence, tra vento e le meraviglie della Camargue, con i ventagli che spezzano il gruppo e rendono affascinante persino una gara a febbraio, in una piccola (nel senso di breve) corsa a tappe francese che dovrebbe servire appena appena a misurare il termometro della condizione. A togliere un po' di polvere, a rodare, a farci conoscere qualche volto nuovo, le maglie in versione 2022, chi è già partito forte e chi più piano, eccetera...

Ed è tutta una questione di gambe, sempre. Per rimanere davanti quando il gruppo si mette a tirare e c'è il Mistral che diventa protagonista; è tutta una questione di gambe: la solita febbrile di Alaphilippe che ci prova pure nel finale, ma il vento è così forte che rimbalza, non Ganna, ma non esaltiamoci troppo, restiamo con i piedi per terra, siamo a febbraio, caspita! e c'è da tenere la condizione per altri due mesi (ci proviamo a tenere i piedi per terra ma quando vedi Ganna staccare il gruppo in quella maniera...).

Tutta una questione di gambe e allora in una volata di ventitré uomini dove c'è il nome di Viviani tra questi, uno scellino ce lo butteresti sul corridore veneto; Viviani, partito già forte come diversi pistard (l'obiettivo quest'anno è a fine stagione, si può fare tanto da subito) che vince già a febbraio cosa che negli ultimi due anni non gli era riuscito. Chissà se quelle parole di Vasseur, suo ex "capo" nella squadra francese, dette poche settimane fa («Elia si presentò al Tour con la pancetta») non abbiano stimolato Viviani.

E se c'è vento, banalmente Elia va forte (non abbiamo resistito), se c'è una volata Viviani è lì davanti a sgomitare e come oggi a vincere. Questione di velocità, non c'è dubbio, di compagni di squadra, assolutamente. Questione di fibre, sì. Comunque sempre una questione di gambe.


Vincere una corsa, per vincere la paura: intervista a Matteo Moschetti

Mancano poche centinaia di metri al traguardo di Torrevieja, quarta tappa della Volta a la Comunitat Valenciana. Gruppo lanciato, solito caos. Treni per i velocisti? Più no, che sì. C'è Evenepoel, in maglia bianca, che mette in fila il gruppo con la sua solita marcia. Lo fa per favorire le fibre veloci di Jakobsen.
A ruota sta a meraviglia, e compatta, la Wanty, pardon, l'Intermarché: si lavora per Kristoff. Poi altri cani sciolti o al massimo qualche coppietta. Un uomo Gazprom si sposta poco prima di entrare nel rettilineo finale, mentre si intravede la sagoma di Trentin - tipica barbetta incolta e bocca aperta - che prova a pilotare fuori dal groviglio il velocista del giorno per la sua squadra, Molano.

Si sbanda, spallate, nessuna novità: parliamo di sprint di gruppo. Parte Pasqualon, non appena Evenepoel finisce il suo lavoro, e da dietro un ragazzo in maglia bianca con una banda rossa e la scritta Trek si lancia. Forse parte un po' lungo, chissà. Invece è tempismo perfetto. Né Viviani, né Peñalver, né nessun altro lo riesce nemmeno ad affiancare. Quel ragazzo taglia il traguardo per primo indicando con decisione il petto, sembra dire "sono io, sono io". Finalmente - lo diciamo anche noi - torna alla vittoria, dopo quasi un anno, Matteo Moschetti.
Sembra banale, ma se le vittorie hanno un peso specifico, quella di qualche giorno fa è un macigno. Emozioni positive, le definisce a mente fredda, Moschetti. Emozioni che servono a scacciare via un lungo periodo difficile. «Avevo bisogno di dimostrare il mio valore». Di dimostrarlo soprattutto a sé stesso.
Se qualcuno volesse conoscere la sua storia, la facciamo breve. Velocista di talento tra gli Under 23, Matteo Moschetti passa professionista con carte importanti da giocare dopo aver conquistato nel 2018, tra i grandi, due gare, nonostante corresse con una squadra Continental, assicurandosi un contratto con la Trek per le stagioni successive. Un 2019 di rodaggio, fatto di esperienza, sgomitate, chilometri e ritmo da professionista acquisito, poi nel 2020 colpisce subito.

Prime due gare dell'anno, due vittorie davanti ad Ackermann: il tedesco aveva chiuso la stagione precedente con tredici successi tra cui due tappe al Giro d'Italia. Niente male Moschetti, se non fosse che pochi giorni dopo quel successo, un terribile incidente in corsa rischia di comprometterne una brillante carriera. Sembrava l'alba, in pochissimo divenne il crepuscolo.
Quando riparte, fa fatica; altri problemi, altri incidenti di quelli che dici: "ma capita sempre a lui?", risultati a singhiozzo, un successo lo scorso anno alla Per Sempre "Alfredo" che pareva un episodio isolato. Poi il traguardo di Torrevieja, mettendosi alle spalle alcuni fra i migliori velocisti del gruppo. «La cosa più difficile che ho dovuto affrontare in tutti questi mesi - ci racconta - è stato convivere con la paura. Paura di non poter tornare a un buon livello, paura di non poter più vincere, paura di non poter essere più un discreto professionista». Parla letteralmente di mostri con cui convivere, Moschetti, soprattutto nell'ultima fase di recupero della sua condizione. Quella fase in cui «anche ritrovare quel 5% in più ti serve per essere competitivo al vertice». Il mondo del professionismo che, ahiloro, non ammette un minimo cedimento, non concede una piccola sbavatura.

Ringrazia i compagni della Trek, non potrebbe essere altrimenti, per il supporto in corsa e fuori corsa, e ci tiene a fare il nome di Luca Guercilena, figura fondamentale per il suo recupero, affermando poi come sia importante lavorare da quest'inverno con una psicologa che segue la squadra.
Non si pone obiettivi specifici, Moschetti, 25 anni e mezzo, un fisico che definiremmo tutto sommato normale, ma tanta potenza da sprigionare nelle volate. Non si pone limiti, crediamo, ma ribadisce quanto sarà importante migliorare nella resistenza in salita e su percorsi più duri. E soprattutto «continuare a vincere» tutte le volte che ne avrà la possibilità.
Si dice come vincere aiuti a vincere, ma in questo caso aiuta anche a tenere lontana la paura.


Il coraggio e l'orgoglio: essere paraciclisti

La nazionale di paraciclismo sta cambiando ed è di questo cambiamento che vogliamo parlare. I paraciclisti conoscono bene ogni sfumatura del verbo cambiare perché, se sono lì, è proprio perché qualcosa, nelle loro vite, è cambiato.
Claudia Cretti, ad esempio, ci ha detto che all’inizio non avrebbe voluto far parte del paraciclismo, che, quando dei ragazzi l’hanno invitata a provare, non ha capito perché lo chiedessero proprio a lei, a lei che aveva subito un trauma cranico in un incidente. Anche Claudia è cambiata, per quello che è successo, per le scelte che ha fatto e per quello che ha accettato. Così oggi non ha dubbi quando dice: «Sono una paraciclista». Ha visto diversamente la disabilità, ha visto diversamente i limiti.
Il cambiamento della nazionale non è poi molto diverso. Rino De Candido, nuovo Commissario Tecnico, sostiene che questi atleti hanno una capacità rara di affrontare i problemi e arrivare a una soluzione. Per questo nel primo incontro ha detto: “Tutto quello che dovete fare è sapere chiedere. Se avete bisogno di qualcosa, se avete un problema, sono qui per quello”. Perché anche chi ha imparato a cavarsela da solo, nonostante tutto, ha bisogno di aiuto. Claudia Cretti ricorda che, l’anno scorso, si trovava spaesata di fronte a questi allenamenti da gestire da sola, senza alcuna indicazione: «Nel professionismo ero guidata in ogni dettaglio, mi sono chiesta perchè qui non accadesse. Le altre nazionali, Inghilterra, Canada, Usa, hanno sempre ragionato in termini diversi: i paraciclisti sono atleti e in quanti atleti vanno seguiti».
Nel primo ritiro, pochi giorni fa, si è lavorato in pista, sulla partenza da fermi, sull’agilità, anche sui dettagli minori, quei pochi millimetri della sella in più o in meno. De Candido ha parlato con ciascuno e ad ognuno ha fatto un discorso diverso basato su ciò che ciascuno è. Questo è il senso della fiducia di cui Cretti ci racconta: «Ha visto ciò che già funziona e ciò che è da cambiare. Mi ha detto chiaramente che tutto sta nella testa e nella decisione di fidarsi. Voglio fare ciò che dice De Candido». Ascoltare, guardare, accettare e mettere in pratica. A questo sono serviti i test sul ciclomulino a cui la nazionale di paraciclismo non era abituata.
La nuova nazionale sarà più squadra perché ci saranno dei ruoli, perché essere a tutta dall’inizio della stagione alla fine, oltre ad essere controproducente, non ha senso. I momenti di stacco, di scarico, sono importanti quanto i picchi. De Candido ha parlato di armonia perché in squadra non ci sono rivalità: ognuno deve mettere a disposizione il meglio che ha e il tuo meglio è importante come quello dell’altro. Anche se sembra piccola cosa, anche se fatichi a crederlo così importante.
Francesca Porcellato ha tutto nelle braccia, quelle braccia che sono passate dall’atletica, allo sci di fondo e poi alla bicicletta, ma quando ha incontrato la prima volta Claudia glielo ha detto: «Le tue gambe sono forti come le mie braccia». E già qui c’è tutto, a cominciare dalla volontà di guardare la parte sana e salva della realtà, l’unica che permette di guardare al futuro. Anche le diverse età della nazionale sono un punto di forza perché età significa esperienza. Michele Pittacolo ha avuto la stessa problematica di Claudia, ma avendo più anni sa cose che Cretti deve ancora scoprire, così gliele dice, gliele racconta.
Poi c’è la nuova linfa, quella senza cui non c’è futuro. La nazionale vorrebbe inserire altri giovani, più giovani, se possibile. Anche chi non ha mai vestito la maglia azzurra. Perché necessari per la nazionale, ma soprattutto per loro, per quanto può aiutarli. È questa l’idea di Claudia Cretti: «Come me ci saranno tanti altri ragazzi col desiderio di fare sport ad alti livelli che pensano di non potere, di non riuscire. Che magari non vogliono fare paraciclismo. Dare un segnale a questi ragazzi è importante perché si sta male quando si pensa di non avere una possibilità. Dare un segnale a questi ragazzi può cambiare ancora tanto».


Un girasole per Ernesto Colnago

Ai girasoli gialli associo la voce di Auro Burbarelli e il sapore di cedrata Tassoni, immancabili compagni dei pomeriggi di Luglio spesi in un bar di paese in Valsesia: un occhio al tavolo dei vecchi che giocano a scopone scientifico, un occhio alla TV nell’angolo, in alto a sinistra. Il Tour de France, quando non è montagna e non è Parigi, è una distesa di girasoli gialli tagliati da righe di matita a volte infinitamente dritti, a volte sinuosamente curvi. A non sapere che la colpa è di un giornale verrebbe da pensare che la maglia gialla sia un tributo a quei testimoni silenziosi.

Chissà quante ore ha passato Ernesto Colnago davanti alla TV a sperare che un suo atleta rubasse il colore dei girasoli e lo portasse a Parigi. Alla fine ci è riuscito un ragazzino sloveno nel 2020, nell’unico Tour che passava tra i girasoli appassiti di fine settembre: precisamente domenica 20 Tadej Pogačar portava finalmente una bici Colnago gialla in parata sugli Champs-Élysées.

Mi succede spesso di percorrere l’A4 avanti e indietro, in solitaria, e tutte le volte che appare l’uscita Cambiago in automatico leggo Colnago, anche perché onestamente non so nemmeno cos’altro ci sia a Cambiago se non l’azienda e la casa di Ernesto. Succede anche quel lunedì, il 21 settembre, che il cartello arriva.

Metto la freccia, cerco un fiorista e suono a casa Colnago con un girasole in mano:
“Buongiorno Ernesto, questo è per Lei. Complimenti per il Tour”.
“Scusi ma lei chi è?”
“Questo non è importante”.
"Beh, grazie. Io non so cosa dire”.

Oggi non passerò da Cambiago per caso e non saprei nemmeno se ci siano dei fiori indicati per un novantesimo compleanno.

In ogni caso, auguri Ernesto. Altre cento di queste maglie gialle.


Per un fatto di vocazione

Quando vedi correre in bicicletta Victor Campenaerts tutto sembra una provocazione. Quando attacca pare quasi goffo sulla bicicletta, eppure dicono di lui che la differenza più che nel motore la fa per una capacità unica nel riuscire a stare in posizione aerodinamica.
Lo ami o lo odi: forse ti chiederai come sia possibile, e infatti il pubblico, la critica, spesso si divide su questo ragazzo che si fece notare diversi anni fa quando al Giro d'Italia chiuse una cronometro con una scritta sui pettorali messi in bella mostra: "Carlien Daten?”. Chiedeva un appuntamento a una ragazza che gli piaceva, storia nota, uscirono assieme ma poi lei disse: “possiamo restare solo amici”.
Per anni Campenaerts si è distinto come cronoman di ottima fattura se non qualcosa in più: titolo europeo, titolo belga e bronzo mondiale nel 2018 che gli valsero persino il “Kristallen Fiets”, premio che ogni anno assegna un noto giornale belga. Campenaerts non se l'aspettava, tanto da presentarsi, parole sue, vestito in maniera del tutto casuale a quella serata, e salì sul palco indossando una giacca di un paio di anni prima. Quasi incredulo di ricevere il premio dal suo idolo Bradley Wiggins, disse «Non mi resta che provare a battere il tuo record dell'ora anche per rendere onore a corridori più forti di me come Lampaert, Van Avermaet e van Aert». Che gli finirono alle spalle.
E quel record dell'ora Campenaerts lo fa suo ed è tutt'ora il record dell'ora nonostante qualche tentativo di batterlo, andato a vuoto. Lo conquista ad Aguascalientes nell'aprile del 2019 e quella volta per abituarsi all'altura, Campenaerts, ciclista e dunque fachiro, passò un mese in Namibia dove la «temperatura si aggira costantemente sui trentacinque gradi e mi permette poi di prendere confidenza col caldo e di controllare al meglio la reazione del mio corpo. Allenarsi con queste temperature fa aumentare il volume di sangue e plasma; di conseguenza a beneficiarne sarà l’ossigenazione dei muscoli e la mia prestazione».
In quel periodo, per guadagnare ogni margine, Campenaerts pratica yoga e si lancia in esercizi fondamentali per il rafforzamento di schiena e spalle. Lancia anche un campanello d'allarme: «Da quando mi trovo in Namibia non sono mai stato controllato. Essendo un atleta pulito e credendo in un ciclismo pulito trovo tutto questo inaccettabile. Che il mio tentativo vada bene oppure male, non voglio assolutamente che le dure sessioni di allenamento che sto sostenendo lontano dall’Europa vengano prese come un diversivo per sfuggire ai controlli. Ho già comunicato questa mancanza e questo mio malessere a chi di dovere: situazioni simili non dovrebbero verificarsi mai più». Senza troppi filtri.
Dopo quel record l'idea di Campenaerts sarebbe stata la crono olimpica ma nel giro di un paio di anni il ciclismo si trasforma alla velocità delle primavere che passano una volta raggiunta la soglia dei trent'anni. E così cambia la sua vocazione. Basta con il puntare alle cronometro - «perché mi è impossibile pensare di competere con questa nuova generazione» - e allora Campenaerts diventa corridore d'attacco. Vince una tappa al Giro 2021, la seconda volta in carriera in una prova in linea: su 8 vittorie, ben 6 sono arrivate contro il tempo, l'ultima però nell'ormai lontano 2018.
Messo in bici dal padre, dopo aver praticato nuoto - infatti il suo idolo, oltre a Wiggins, è il ranista belga Frederik Deburghgraeve, vincitore dell'oro ad Atlanta - per la prima volta nel 2021 partecipa al Tour de France e proprio a suo padre dà appuntamento sul Mont Ventoux. «È un posto speciale per me: è stata la prima salita che ho fatto in bicicletta, era il 2006, andai su con mio padre e all'epoca non ero nemmeno un corridore. Ho avuto difficoltà all'inizio della tappa, ma volevo continuare per fare almeno questa mitica salita e poter salutare il mio vecchio».
Campenaerts arranca quel giorno, e una volta incrociato suo padre: «Mi sono fermato e abbiamo passato un po' di tempo assieme».
A fine stagione Campenaerts cambia squadra, la Qhubeka ha chiuso e lui ritorna a vestire la maglia della Lotto. La Qhubeka ha chiuso, ma Campenaerts continua a sostenerne il messaggio. A inizio dicembre ha organizzato un'asta benefica per i bambini africani, mentre a gennaio, insieme a Van Moer e Vermeersch sarebbe dovuto andare in ritiro in Rwanda. Anche se qui più che per passione pare per scelta obbligata.
Nel momento di prenotare l'hotel per il ritiro in Spagna, infatti, i posti disponibili per i corridori della Lotto si sono esauriti subito e i tre corridori sarebbero dovuti essere dirottati nella regione del Musanze, ai confini tra Rwanda, Congo e Uganda. Poi le nuove restrizioni gli hanno impedito di partire, ma nulla è cambiato: la sua stagione ripartirà a breve con il chiodo fisso della fuga, la nuova vocazione di Campenaerts.


Genitori e figli

A tutti sarà capitato di vedere il riso o la pasta che gli atleti mangiano al termine della gara, per recuperare. A noi, qualcuno fra i più giovani, nelle categorie minori, ha raccontato la dedizione con cui la madre sceglieva il contenitore per mettere quella pasta. Di quella cucina con l’acqua a bollire al mattino alle quattro, quando si sarebbe potuto preparare tutto anche la sera prima, ma “già è quasi scondita, almeno mangiala fresca”. E ancora, la difficoltà per chi non è abituato, di preparare qualcosa di adatto a pranzo o a cena, anche in settimana, lontano dalle gare. Delle madri e dei padri che provano, sbagliano, chiedono e riprovano.
Altri ci hanno parlato dei viaggi che i genitori fanno. Magari per andare in Puglia il sabato e tornare la domenica, partendo dalla Lombardia o dal Piemonte, per accompagnare i figli alla gara. Di quei genitori che in settimana tornano tardi dal lavoro, ma una domanda su com’è andato l’allenamento la fanno sempre e, se quel giorno “la gamba non girava”, cercano argomenti per spiegarti che devi continuare, che domani andrà meglio. Tanto che non immagini neppure i problemi che hanno sul lavoro, perché in quel preciso momento non contano più, contano i tuoi problemi. E il camper non si compra per andare in vacanza, si compra per accompagnare i figli alle corse, perché possano viaggiare più comodi, perché possano avere tutto a disposizione.
Potremmo raccontare di quei figli che, nel fuori stagione, hanno cercato qualche lavoro da fare per aiutare e aiutarsi. Perché iniziare a pedalare vuol dire scegliere di investire su stessi, ma, non nascondiamoci, soprattutto all’inizio vuol dire anche spendere molto per avere l’attrezzatura giusta, perché anche quello conta. Parliamo di biciclette, parliamo di tubolari. Parliamo di genitori che chiedono ai figli di non farsi remore, di chiedere ciò che serve, di comprare il meglio che serve, perché, anche ci fossero sacrifici da fare, si fanno volentieri. Sono figli che, spesso, crescono prima, perché lontani da casa devono fare tutto da soli. Perché l’età adulta in realtà non è un’età ma un modo di essere o di vedere le cose e se fai una certa strada quel modo lo acquisisci presto. Forse anche troppo presto, dice qualche genitore.
E ancora ci sono le bende e i cerotti da controllare a sera, da togliere delicatamente per non fare troppo male. Di quelle ferite si inizia a chiedere da bambini e non si finisce mai perché i genitori si ricordano quasi sempre dov’è quel taglio o quella botta. Ci sono le immagini in televisione che i genitori vorrebbero sempre vedere ma di cui hanno anche paura perché “se succede qualcosa, siamo distanti”.
A loro non interessa non poter far nulla, a loro interessa essere lì, da qualche parte. Accanto al medico che ti visita o al tavolo della colazione mentre quella pasta, così presto, fatica ad andare giù. Vicini. Genitori e figli.


L'avventura di Velzna Trail

Chi parteciperà a Velzna Trail, il 23 aprile, dovrà provare a sentirsi parte della natura, a guardarsi da fuori e a vedere quanto una bicicletta che scorre su una strada sterrata stia bene in quella natura. Marco, Simone e Nicola l’hanno pensata così. Velzna è l’antico nome etrusco di Orvieto e quest’esperienza ha molto a che vedere con Orvieto: «Si parte e si arriva lì- ci dice Simone- ma in realtà c’è di più. Orvieto è questa essenzialità, quella della natura, del paesaggio, di una rupe scoscesa o di una strada romana per arrivare al mare. Quando esci di casa e senti che non ti manca nulla, magari c’è poco ma tutto l’essenziale».

Forse anche Amatrice era così, forse per questo qualcuno nel fine settimana prendeva la moto e ci andava. Lo ha fatto anche Simone e quel giorno Amatrice gli era piaciuta. Oggi, dopo il terremoto, Amatrice è l’insieme di tutto ciò che manca. Di chi manca. Amatrice è assenza. Marco ad Amatrice ha perso Matteo, suo fratello, che quel giorno era lì con Barbara, sua moglie. Di quel ragazzo è rimasta la bicicletta e Marco pedala su quei pedali, siede su quella sella. Simone ci racconta che vedere quella bici ancora per la città smuove qualcosa dentro. Marco e i suoi genitori hanno trasformato quel dolore, non hanno lasciato che li rovinasse, che li incattivisse. Come Matteo che, quando non riusciva più a pedalare a causa dei morsi dell’acido lattico in bici, non se la prendeva quasi mai: «È bello lo stesso. Certo, senza dolore sarebbe meglio. Ma guarda che bel paesaggio».

Velzna Trail cerca lo stesso sguardo. «Certe volte- prosegue Simone- quando pedalo sulle strade antiche, penso che non ce le meritiamo. Perché non ne abbiamo avuto cura. Per cambiare qualcosa, dovremmo iniziare a guardare ciò che c’è sempre stato e a dirci che è bello anche se non lo avevamo mai notato. È un obbligo morale nei confronti del passato». Così sarà bello arrivare al mare con quelle mountain Bike o quelle bici gravel e andare nella casa sul mare di Nicola per un buon ristoro. Ognuno fa quello che può per Velzna Trail e sa che basta, purché sia genuino, purché sia vero. Basta anche un solo tramezzino. Andare in bicicletta, in fondo, è cercare questa semplicità e magari trovare altro.
Nicola, ad esempio. Che viene dalla Sicilia e la prima volta che si è presentato all’Argentario per una pedalata era coperto come fosse inverno, nonostante ci fossero venti gradi. Poi ha scoperto quelle strade e ne è diventato una sorta di custode e immagina spesso strade nuove da visitare. Ha disegnato lui Velzna Trail e chi vuole fare un giro in bicicletta gli telefona e gli chiede se quella strada è stata riaperta o se c’è una via nuova, mai vista, per arrivare là.

«Quando si sente troppo forte, gli ricordiamo quel primo giorno» scherza Simone. In realtà però passare da quelle strade servirà anche a questo, a tornare a sentirsi piccoli rispetto a ciò che c’è attorno. Da Orvieto verso il Tirreno, poi Volsinii, Bolsena e ancora Orvieto, un percorso ad anello per permettere a chiunque di scegliere dove e quando fermarsi, per dire a chiunque che il tempo, quel giorno, non conta più di tanto. Il raccolto andrà all’Associazione 3.36, come l’ora di quel terremoto, per Matteo, per Barbara e per la ricerca per la Fibrosi Cistica.
«Quando pedali accanto a una rupe capisci chi sei, in realtà. La bicicletta ti riporta l’umiltà». Anche per quanto si fa fatica perché «quelle strade non tengono minimamente conto della pendenza. Chissà, forse agli antichi non interessava. Se volevano andare da un punto all’altro, ci andavano a prescindere». E a quella fatica non si può dare un significato, ognuno darà il proprio, ciò che conta è darsi una ragione per farla. Magari guardarsi attorno, mentre non ce la fai più, e dire: «Ma guarda che bel paesaggio».