C'era una volta "Ice Man"
12 Gennaio 2022Meeusen,StorieCiclocross
A volte succedono che ti affibbiano un nomignolo e non te lo levi più. "Ice man" al secolo (si dice così, no?) Tom Meeusen, ma ormai sono passati più di undici anni quando si inventò quella che resterà un po' la gara della sua vita. Si correva a Kalmthout, Fiandre, dove ha sede da oltre 160 anni uno dei più celebri giardini botanici del nord Europa (magari a qualcuno può interessare).
Gara della vita dicevamo, più o meno, e andate a vedervi il video e andate a vedervi chi sconfisse in una volata a due, un certo Sven Nys. Fioccava di brutto quel giorno, nulla a che vedere con la bella pista battuta della Val di Sole di qualche settimana fa, ma neve che si mischiava alla mota e diventava una poltiglia che rendeva tutto ancora più complesso. Ci sono alcuni passaggi tecnici fatti da Nys che puoi solo dire: è ciclocross. Anche le sbandate di Mourey hanno il loro fascino.
Tornando a noi, anzi a lui: prometteva bene Tom Meeusen che forse di quel talento ne ha fatto vedere solo a sprazzi.
Gli è rimasto quel nomignolo tanto che alla viglia della prova di Vermiglio in Val di Sole, che ormai ha fatto storia e che prova persino a cambiare le sorti del ciclocross (Giochi Olimpici? Chissà), un suo ex compagno di squadra, ora commentatore televisivo gli scriveva un messaggio: "domenica vinci tu".
Tom Meeusen si è portato dietro quel suo essere Ice Man, ma, realista, sfuggiva ai favori del pronostico.
«È un soprannome un po' vecchiotto in realtà, non credo di poter vincere in Val di Sole, ma di una cosa sono sicuro: amo la neve e mi rende felice: sono un grande fan di biathlon e sci di fondo!»
Spiegava sempre Meuseen: «Il mio vantaggio su certe superfici è svanito col tempo e con l'avvento dei freni a disco. Le bici di una volta ampliavano i margini da corridore a corridore quelle di ora sono più semplici da guidare».
Qualcuno dice che se Meeusen un po' alla volta è finito per scivolare a metà classifica è perché ha avuto "la sfortuna di nascere negli anni sbagliati" - d'altra parte non vi è scelta in questo.
Lui stesso racconta di come, con l'avvento dei due "van", abbia provato ad alzare l'asticella, si sia allenato ancora più duramente e alla fine ne è aumentata solo la frustrazione.
Però Ice Man resterà per sempre Ice Man, quello non glielo toglierà nessuno. Così come nessuno cancellerà la foto che lo immortala mentre batte, sotto la neve, uno dei corridori più grandi di sempre in questa disciplina.
In bicicletta da Lampedusa a Capo Nord
12 Gennaio 2022ProgettiCapo Nord
C’era un padre, maresciallo di Polizia, a Palermo, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, la sua seicento e quella Graziella che caricava nel bagagliaio per portare il figlio a Villa Giulia, a pedalare. Per Domenico Romano, per tanto tempo, la bicicletta era il mezzo che gli restituiva papà, in quella Palermo difficile. E oggi, che anche Domenico è maresciallo della Guardia di Finanza, quei giorni sono ancora lì.
«La bicicletta è un modo di giocare anche da grandi, perché spesso è uno dei primi giochi da bambini e l’ultimo che si abbandona da anziani» dice così mentre si reca al lavoro in una mattinata dai contorni grigi nella sua città, Spadafora, in provincia di Messina. Da qualche giorno ha deciso che il 6 giugno partirà da Lampedusa verso Capo Nord: 7000 chilometri e trentacinque giorni di viaggio. Ha deciso e lo ha detto forte e chiaro «perché non sai quante cose pensiamo e progettiamo senza realizzarle. Credo accada perché non le diciamo a nessuno e, se nessuno le sa, ci sentiamo autorizzati a rimandare. Lasciamo la porta aperta dietro di noi per fuggire. Invece quella porta va chiusa».
Qualche anno fa, Domenico era partito dalla Sicilia verso Londra, sempre in bicicletta, per andare da suo figlio. L’aveva fatto per una scommessa, ma soprattutto per dire qualcosa ai suoi figli e ai ragazzi che hanno l’età dei suoi figli. «Tutti vogliamo stare meglio e avere più possibilità, fare carriera magari. La realtà è che tutti lo vogliamo ma pochi sono disposti a fare ciò che serve per arrivarci. Perché costa fatica». Romano dice che la fatica, spesso, non è ben vista nella società di oggi, sembra qualcosa che aggiunge un peso, che ti blocca perché «devi faticare. Vorrei sdoganare l’idea che la fatica può essere bella. Chiamiamola impegno, l’impegno che serve per arrivare a Calais in bicicletta o a Capo Nord. È bello perché sai che puoi arrivare. Nella vita di ogni giorno vale lo stesso, anche se spesso si fa fatica per cose più brutte, più difficili».
Quando ha pensato al viaggio a Capo Nord, ha pensato che sarebbe partito da Lampedusa «perché per tante persone in mare, purtroppo, è un miraggio quella città» e che sarebbe arrivato a Capo Nord «perché per chi pedala è un sogno arrivarci in bici». Il viaggio toccherà luoghi simbolo d’Europa, nel bene e nel male. «Saremo in due. Abbiamo allungato l’itinerario per passare da Auschwitz, il luogo in cui ogni valore umano è stato negato, ogni rispetto. Ma passeremo anche da Rovaniemi, dove c’è la casa di Babbo Natale, dove si crede al regalo come simbolo per rendere felice una persona. Alla sorpresa». Ci sarà la scoperta dei paesi e quella della condivisione, dell’incoraggiamento e dell’ascolto dei momenti di difficoltà altrui, consapevoli che serve davvero poco per fare coraggio.
Di problemi, in un viaggio così lungo, ce ne saranno. Domenico lo sa bene, ma non sopporta le lamentele: «Solo l’idea di partire per un viaggio comporta problemi: dal preparare il mezzo, alle borse, al meteo. Se ne affronta uno per volta e si cerca una soluzione e, visti singolarmente, quasi tutti i problemi sono risolvibili. Non ci sono altre vie».
Da questo viaggio, Domenico vorrebbe portare qualcosa alla sua terra. «In Sicilia c’è tutto ma, spesso, scegliamo di incatenarci a un pregiudizio, a ciò che viene raccontato. Nello scorso viaggio, all’imbarco di Calais, fra tanti stranieri ho trovato una famiglia di italiani, di Noto. Mi hanno lasciato passare davanti perché pioveva e con la bicicletta mi sarei lavato. Mi hanno cercato in mezzo a tutta la gente mentre ero seduto a terra, senza posto. Hanno diviso con me la loro pastasciutta, senza che chiedessi nulla. Vorrei portare questa consapevolezza, ciò che possiamo essere, se solo lo vogliamo».
Consolazioni
11 Gennaio 2022Ciclocross,Dorigoni,Persico,Toneatti,Fontana,Samparisi,CorseCampionato Italiano
La consolazione Filippo Fontana la trova in quella curva da stadio che ribattezzeremo, tanto per stare più comodi, "Curva Fontana", e che ne accompagna ogni suo passaggio con urla, trombe, sirene, motoseghe, generatori, e i vari "Vai Pippo!" che riempiono, insieme all'odore di freni e di miscela, l'ultimo pomeriggio di gare al campionato italiano di ciclocross.
È grigio il tetto sul microcosmo di Variano di Basiliano, sin dal mattino. Ed è grigio sul destino di quasi tutti i corridori. Fontana era in testa, o meglio, se la giocava quasi testa a testa con Dorigoni, davanti uno, davanti l'altro; poi la catena rotta, il cambio di bici, una foratura subito dopo, insomma un compendio di sf... ortune varie e l'avversario si faceva piccolo piccolo ai suoi occhi sullo sfondo, mentre andava a conquistare il tricolore della gara élite.
Non c'è consolazione di nessun genere, invece, per Carlotta Borello: in lotta con Gaia Realini per il titolo Under 23, anche lei, causa incidente meccanico, abbandonava i sogni della maglia verde-bianco-rossa affrontando gli ultimi due giri e mezzo tra le lacrime ma concludendo ugualmente la gara. Ha 20 anni compiuti un paio di giorni fa, Carlotta, e migliaia di altre chance davanti. Si consoli.
La consolazione, invece, Nicolas Samparisi la cerca chiamando sua mamma dopo il traguardo. Ha freddo, Nicolas, caviglie sottilissime da scalatore di altri tempi, fisico da fenicottero, «ho le mani gelate», sostiene a voce e con ampi gesti. Non trova pace subito dopo la gara, uscito a sinistra delle transenne appoggia la bicicletta sulla rete di una casa. Impreca, ha bisogno dei guanti e di indumenti di ricambio che sua mamma ha nello zaino. Anche per lui, nonostante il terzo posto finale tra gli élite, l'amaro in bocca per aver rotto la catena e per aver forato: che mestiere infame quello del ciclocrossista, a schivare sassi, ad assecondare cunette e a vedere crollare le speranze per una forza esterna che ci viene facile chiamarla sorte avversa.
Dorigoni consola il suo team manager Alessandro Guerciotti al telefono. È assente Guerciotti, probabilmente gli avrà detto che avrebbe voluto essere lì a vederlo in maglia tricolore, ma Dorigoni lo spiazza: «Mettila così: almeno dalla televisione hai visto la gara meglio di tutti».
Per Silvia Persico più che consolazione c'è la calma come segreto del successo nella prova élite femminile: «Ho fatto un paio di errori, poi mi sono detta che l'unico modo per non sbagliare era gestire tutto con tranquillità». Quella che oggi l'ha distinta da tutte le altre.
La frenesia invece colpisce Zoccarato, professionista su strada in maglia Bardiani che da un po' di settimane si misura nel ciclocross. In uno dei punti più tecnici del percorso, sbaglia una curva e se la prende con un albero che all'improvviso gli si figura davanti.
Toneatti, invece, ragazzo praticamente di casa e cresciuto a pane e ciclocross mangiato proprio nel parco del Castelliere, stacca nel finale Leone, scivolato, e vince la gara degli Under 23. Trova conforto, Toneatti, se ce ne fosse bisogno, prima ancora che nel tricolore da indossare sul palco, in un caldo abbraccio appena superato il traguardo.
È ormai sera a Variano, mentre scriviamo queste parole. Il campionato italiano è finito e operai a lavoro smontano il palco delle premiazioni e spostano le transenne. Come una beffa il cielo si è aperto, ma non serve a nulla: il sole non si è visto per tutto il giorno, il conforto lo abbiamo trovato in una splendida giornata piena di storie, fango e biciclette.
Foto: Chiara Redaschi
Fa' la cosa giusta
11 Gennaio 2022Ciclocross,CorseCampionato Italiano
Mentre Arianna Bianchi tagliava il traguardo conquistando l'ultimo titolo italiano in palio oggi, quello della categoria allievi, pochi metri più avanti di lei una ragazza col numero 135 sul caschetto attraversava il segmento in asfalto con la bici sulle spalle.
In realtà era da diverso tempo che procedeva a passo d'uomo - l'avevamo già notata da lontano - ma voleva raggiungere ugualmente il tratto in erba, ormai per la verità ridotto, dal passaggio di centinaia di migliaia di biciclette, a una poltiglia di mota, mettere giù la bici e provare a farla ripartire. Niente da fare.
Appoggiava, sul terreno incerto, il mezzo appesantito dalla fanghiglia e dalla delusione, provava a pedalare, ma la catena opponeva resistenza come se una forza avversa spingesse al contrario. Mesta, rimetteva la bici in spalla, decidendo di procedere lentamente. «Fino a dove vuole arrivare?» - ci siamo chiesti, ma dopo due curve si fermava, usciva dal tracciato e trovava lì qualcuno, un'amica, forse la sorella o una compagna di squadra, e scoppiava a piangere, facendosi avvolgere in un abbraccio consolatorio. Non aspettava altro.
La giornata di oggi vedeva in gara ragazzi e ragazze, esordienti e allievi, ma lo spettacolo, oltre che dall'infida collina che si erge sopra il circuito di Variano di Basiliano, arrivava da dietro le fettuccine che delimitavano il percorso.
Un ragazzo, molto prima dell'inizio delle gare, si era portato su un tratto dove era possibile vedere passare la corsa più e più volte. Lì, la visuale era perfetta, seppure in ombra (e quindi al freddo), tra curve in contropendenza, una parabolica dall'importante contenuto spettacolare e dall'alto coefficiente di difficoltà, la scalinata da fare a piedi («mi raccomando: a piccoli passi - tac tac tac!» urlava un tecnico) che portava in cima a un monumento, e lui, sempre il ragazzino salito su di buon mattino, con sedia da campeggio, motosega, generatore a cui aveva attaccato il suo telefono facendo partire musica da discoteca e sirene («senti questa dei pompieri che bella!»), se la spassava, lanciando, ironicamente, consigli ai coetanei in bici su quale fosse la migliore traiettoria da prendere.
E poi i genitori e i tecnici, i quali, spesso, rivestono lo stesso ruolo. Abbiamo visto quelli che spingevano a suon di urla, chi si lasciava andare persino a qualche parolaccia, chi consolava il figlio con le ginocchia sbucciate, chi ne redarguiva un altro: «Non ti permettere mai più di fare un gestaccio a un tuo avversario».
Chi, in preda all'agonismo, urlava al walkie talkie: «Campioni d'Italia! Campioni d' Italia!». Chi, semplicemente, si prodigava in un abbraccio, chi saltava da una curva all'altra e scivolava a terra, il tutto per incitare le ragazze della sua squadra. Una mamma attraversava il percorso per andare a lavare la bici del figlio, un papà applaudiva la sua bimba, ultima, ma felice e sorridente quando sentiva urlare il suo nome, convinta, in modo legittimo, di fare la cosa giusta.
Foto: Chiara Redaschi
Bici rotte, amatori e acrobazie
11 Gennaio 2022campionati italiani,CorseCiclocross
«È un circuito bellissimo». Parola di amatore, anzi di uno dei campioni italiani tra gli amatori oggi, Massimo Folcarelli, 47 anni, al suo diciottesimo titolo nella categoria Master. Beh, mica male.
Ha messo su una squadra un po' di anni fa, la Race Mountain Folcarelli Team, con sede ad Anzio, provincia di Roma, un progetto ambizioso per tutto il Centro Sud. «Perché - ci tiene a specificare - aumentano appassionati e praticanti: il ciclocross da diverso tempo sta prendendo piede anche da noi».
In squadra corre pure suo figlio Antonio che va forte e si vorrebbe giocare un buon piazzamento domenica tra gli élite. «Inizia tutto così: padri che corrono tra gli amatori e figli che si appassionano e si gettano nella mischia». E quando scorri le liste di partenza o senti lo speaker Brambilla che snocciola vita e miracoli di tutti i partecipanti come fosse l'elenco dei santi recitato a memoria nell'omelia domenicale, ti accorgi che è pieno di figli o sorelle, padri e madri d'arte.
È un tracciato bellissimo, davvero. Tecnico, vario, che cambia di ora in ora, «com'è giusto che sia» racconta un altro dei tanti protagonisti di oggi. La sua bici a fine corsa è una crosta infangata dal terreno di Variano (mi raccomando, l'accento cade sulla seconda a) di Basiliano, provincia di Udine, in una giornata che si apre fredda da farti cadere le dita dei piedi, procede ventosa ma serena, si chiude con un cielo che si tinge tra il viola e il blu.
Il circuito parte piatto, veloce, e si lancia, tecnico e suggestivo, verso l'alto nel parco del Castelliere di Variano. Alle 9 era tutto gelato coperto di brina mista a un filo di neve ghiacciata, residuo di una spruzzata di un paio di giorni fa. Il terreno è duro, ma un'ora dopo si iniziava a creare quella tinta di fango, con le sue canalette da battezzare giro dopo giro, che tanto piace a chi corre uno sport che ha bisogno di una cura particolare del dettaglio. Dal tipo di copertone alle atmosfere, dalle migliori traiettorie da preferire, fino alla scelta dei tratti da correre a piedi o in bici.
Gli allenatori si fermano vicino a segmenti così complicati da apparire, a volte, persino enigmatici. Spiegano ogni dettaglio: «Se non riuscite a farla tutta in bici, sganciate un pedale e spingete come fosse un monopattino». Oppure: «Scendete di sella prima di scollinare, ma mi raccomando: la bici tenetela sul lato destro». Ragazzi e ragazze lo guardano come si fa con un maestro a scuola che sta spiegando una materia affascinante e della quale non si può perdere nemmeno una parola.
Una discesa in particolare, in mattinata, è quasi impraticabile, ripida, dura, sconnessa. Qualcuno con una piccozza lo smussa e ne tira via i sassi. « Tiro via i claps!» (appunto, pietre) urla in friulano a chi gli chiede cosa sta combinando. Altrimenti si corre il serio rischio di spaccare una ruota.
Amatori di ogni età si mescolano con ragazzi e ragazze, persino bambini: qualcuno urla "Forza mamma!" che è un po' l'inverso di quello a cui si è abituati a sentire di solito alle gare con i genitori che incitano i figli. Esordienti e allievi fremono per provare il tracciato. «Prima tocca a loro, poi a voi» li cerca di calmare uno degli organizzatori.
Il vociare sotto la collina, dove ci si scalda prima di gareggiare, appare quasi il ciacciare a scuola, un ronzio di insetti: sono i ragazzi che si dimenano e fremono sui rulli. Si susseguono gli arrivi e le partenze. Amatori prima e poi le staffette che fanno il loro esordio nel campionato italiano. Vinceranno le squadre "di casa", lo Jam's Bike Team di Buja e la DP66 Giant SMP.
Terra e biciclette vengono maltrattate per il bene del ciclismo e dell'agonismo. Si alternano facce e divise, capelli grigi e volti segnati dal fango incrostato. Sorrisi e delusioni. rotture, acrobazie e cadute. Ci sono più camper che a un raduno di camper.
Poi, in mezzo a una colonna sonora kitsch che mescola Battiato, successi dance anni '90 rifatti in spagnolo e l'inno di Mameli, scende il tramonto che tinge di rosa le bianche montagne friulane sullo sfondo.
Cosa Chiedere ancora a Tadej Pogačar
6 Gennaio 2022ApprofondimentiPogacar
- Ha il miglior motore del circondario;
- Ha 23 anni e ha già vinto non quanto, ancora, ma come alcuni dei più grandi di questo sport, sì;
- 2 Tour de France in maniera completamente differente. Il primo con una cronometro che è già storia (esse minuscola, mi raccomando) facendo venire il mal di testa e i complessi a Roglič, spazzato via tenendo in salita un passo impossibile per chiunque nel ciclismo contemporaneo. Lasciando van Aert e Dumoulin interdetti a guardare il maxi schermo. Il secondo Tour lo ha vinto demolendo la concorrenza in una tappa di montagna, e poi amministrando (e vincendone almeno un altro paio di frazioni con meno margine, ma da padrone);
- È il numero uno del ranking UCI (per quello che può valere) e si è portato a casa anche il Vélo d'Or;
- Ha vinto Liegi-Tour-Lombardia nello stesso anno come solo Eddy Merckx (che ha fatto quel filotto due volte, e in un ciclismo completamente differente);
- Ha deciso, in una giornata di fine dicembre, di partecipare a una gara di ciclocross (lui che campione nazionale di ciclocross lo è già stato) in Slovenia e ha vinto pure lì, cadendo e rimontando, a dimostrazione che, quando uno è baciato dal talento, può tutto;
- E a proposito: quanto bello sarebbe vederlo gareggiare nel fango, qualche volta, contro la banda, ormai allargata, fiammingo-britannica?
- Ha disputato 3 grandi giri: due li ha vinti, il terzo è un podio alla Vuelta ottenuta al suo esordio in una grande corsa a tappe, vincendo tre frazioni. Avrebbe compiuto 21 anni solo qualche giorno dopo la fine di quella corsa;
- Si parla spesso di lui perché un ciuffo biondo gli esce dal casco;
- Si parla spesso di lui perché guida benissimo la bici, va forte su ogni terreno in tutti i sensi, chissà se a fine carriera non possa essere corridore capace di vincere tutte (proprio tutte) le classiche più importanti compresi mondiali, Giochi e tutti e tre i Grandi Giri?
- Si parla spesso di lui perché contrappone, all'eccessiva magrezza di diversi corridori che hanno vinto le corse a tappe più importanti negli anni precedenti, un bel fisico muscoloso tutt'altro che emaciato;
- Nel 2021 si è ritirato al Gp Plouay (dopo aver attaccato da lontano con Alaphilippe e Cosnefroy) e non gli accadeva dal 2019 (San Sebastian). Per trovare un altro ritiro precedente bisogna scendere al 2017 quando era al primo anno tra gli Under 23;
- Nel 2021 ha conquistato il bronzo nella prova in linea dei Giochi Olimpici e non pareva nemmeno nella sua giornata migliore;
- Quest'anno fra le tante cose proverà la doppietta Fiandre-Tour riuscita nella storia solo a Bobet e, tanto per cambiare, a Merckx;
- In futuro potrebbe provare a vincere Giro e Tour nello stesso anno e l'impressione che, a stretto giro di posta, se non lui, chi?
Foto: ASO/Alex Broadway
Maghalie Rochette e la forma del fango
5 Gennaio 2022Rochette,StorieCiclocross
C’è stato un giorno, neanche troppo lontano, in cui Maghalie Rochette ha pensato di smettere. Era a bordo strada, a piangere, mentre i pedali non giravano e, sfinita, ha chiamato il suo allenatore. «David ho deciso di lasciare il ciclismo. Non ce la faccio più. Ho tanti altri interessi, la lettura, la scrittura, i podcast che realizzo, mi dedicherò a loro». Lui l’ha ascoltata e poi, seraficamente, ha ripreso a parlarle: «Vuoi mollare? Fai pure, non te lo impedisco e sicuramente hai le tue ragioni. Sappi, però, che un lavoro normale ti impiegherà circa otto ore al giorno e per le tue passioni non avrai comunque tempo. Il ciclismo ti stanca ma ti piace e, in ogni caso, il tempo te lo lascia».
Così Maghalie ha cambiato idea. Spesso si è sentita estranea, non al ciclismo ma all’Europa a cui è arrivata dal Canada, dal Quebéc. Dalle piccole cose perché il senso di appartenenza si crea attraverso i dettagli. Soprattutto attraverso la condivisione delle difficoltà. A chi le dice che il ciclocross è una strana disciplina, forse anche un poco folle, risponde che è vero ma è proprio per questo che attrae, è per questo che le si resta legati. «A volte sembra che la tua bici non sia attrezzata per tutto ciò che devi affrontare, ma ti basta riuscire a prendere quella curva che pensavi di non riuscire a tenere per dimenticare tutto. Ci sono erba, sabbia, colline, fango e ora anche ghiaccio». ha detto a Cyclingtips.
L’unico motore per andare avanti, a suo parere, è proprio la sperimentazione di nuovi territori e nuove prove: ciò che blocca è la paura delle novità, il restare a ciò che si è sempre fatto. Rochette è riconoscente al passato e alle atlete che con il loro operare hanno fatto in modo che il cross sia ciò che è oggi anche dal punto di vista economico. Tutti corrono per passione ma c’è un fatto di sostenibilità economica perchè «anche noi cicliste andiamo a fare la spesa».
Spesso Rochette si è trovata ad essere l’unica canadese in gara. In Canada, purtroppo, si investe ancora troppo poco nel ciclismo, lei ed il compagno investono nelle giovani generazioni, non solo in termini di denaro. I gesti contano: «Se un giovane mi vede andare a podio sa che può riuscirci anche lui. È una motivazione per entrambi». E lei è sempre lì, si butta nella mischia, prova, è spesso nelle prime.
Quando torna nel camper, dopo le gare, ad attenderla c’è Mia, il suo cane. Per esserci, questa femmina di Retriver, ha affrontato un viaggio di sei ore, da Montreal e Bruxelles. Rochette aveva dei dubbi, poi ha pensato che in aereo avrebbe dormito e che, in fondo, Mia non poteva che essere con loro, con la sua famiglia. La sua presenza significa normalità, significa una tranquilla passeggiata a sera, tranquillità. Poi ci sono i valori importanti, quelli che vengono in mente vedendo un cane che fa la festa al padrone che torna da lui: «Mia mi ha insegnato ad essere umile. A lei non interessa se ho avuto una gara brutta o se ho vinto. Per lei sono sempre la stessa».
Un'idea di giovani: intervista a Roberto Reverberi
5 Gennaio 2022Reverberi,ApprofondimentiBardiani
«Continuiamo semplicemente a fare ciò che abbiamo sempre fatto, solo anticipando i tempi» esordisce così Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani CSF-Faizanè quando gli chiediamo degli otto ragazzi, tra cui due juniores, che la squadra ha aggiunto all’organico nell’ambito del progetto giovani. «Parliamo di atleti da proiettare tra i professionisti passo dopo passo. Anche sulla spinta dei procuratori, se non si agisce prima, questi ragazzi giungono subito in squadre World Tour o in Continental satellite. Da lì, il rischio temo sia quello di bruciarli».
In quarant’anni di questo lavoro, Reverberi ha visto le cose cambiare: «Una volta, passavano in pochi, probabilmente con un talento più pronunciato sin dall’inizio. Oggi il professionismo ha alzato di molto l’asticella. Questi otto ragazzi non devono dimostrare nulla, non chiediamo vittorie o risultati. Li sgraviamo da ogni pressione. Vogliamo solo professionalità massima, soprattutto per loro. Perchè questi treni passano una volta sola e non si possono lasciare scappare. È importante che lo capiscano».
Per i grandi risultati, invece, bisogna attendere e l’attesa, per Reverberi, è opportunità e consapevolezza. «Sanno che hanno la squadra a loro disposizione in ogni momento, se dimostrano di stare bene. Sanno anche che alla loro età il risultato principale è la continuità, non il picco. Purtroppo questo è un momento difficile. Senza gare fuori dall’Europa, a causa della pandemia, non c’è quasi più la possibilità di confrontarsi con un livello più tranquillo, ma ci si va subito a scontrare con squadroni e performance di altissimo livello. È necessario affrontare quelli più bravi, perchè quella è la realtà del ciclismo, ma servono anche le gare in Cina o in Malaysia perché ti danno morale. Ti consentono di continuare a lavorare mentre aspetti di essere all’altezza».
Nella scelta dei ragazzi, Reverberi ha osservato coloro che se la cavavano da soli e che erano sempre fra i primi pur, magari, non essendo in squadre molto blasonate. «Nelle squadre molto forti, vincono anche atleti che magari non vincerebbero in team minori. Li aiuta la tattica, li aiuta il controllo della gara. Se un ragazzo, da solo o quasi, riesce a farsi valere merita questa possibilità. Sono minimo tre anni di contratto, per provarci. Potremmo fare anche meno, perché per vedere il talento puro bastano tre mesi. Noi aspettiamo, non abbiamo fretta. Non serve diventare campioni o fare cose straordinarie. Per qualcuno ci vuole più tempo e glielo diamo».
La considerazione si sposta sui ragazzi più giovani, gli juniores, che hanno ancora un percorso scolastico in essere. «Faranno una quarantina di gare, non di più. La priorità è lo studio. Tutelarli significa anche questo». Qui si apre una parentesi importante e Reverberi vuole fare chiarezza, soprattutto in merito alla discussione sull’opportunità del passaggio nel professionismo di ragazzi così giovani: «C’è un buco normativo, solo in Italia tra l’altro. Il regolamento in essere risale a quando le squadre si dividevano tra dilettantistiche e professionistiche, per questo non prende in considerazione le Continental. Questi ragazzi, correndo con le Continental, potrebbero tranquillamente correre con i professionisti senza problemi. Si ritiene, invece, che non possano passare professionisti in quanto, in Italia sono richiesti due anni da Under23 per il passaggio. Non dico sia sbagliato, dico che le norme dovrebbero essere uniformi». Non finisce qui, perché l’accento Roberto Reverberi lo sposta proprio sulla tutela dei giovani: «Offriamo un salario minimo dei team Professional che altrimenti non avrebbero. Cerchiamo di preservarli. Credo sia necessario un adeguamento della norma. Le cose cambiano e le norme devono riconoscerlo».
Di consigli se ne potrebbero dare tanti. L’ambiente aiuterà perché, oltre ai direttori sportivi, in squadra ci saranno uomini di esperienza a supporto. Reverberi non fa nomi. Dice che non ha senso, soprattutto per non creare quelle pressioni di cui tanto si parla. «Tranquillità e lavoro sodo devono andare di pari passo. Voglio che questi ragazzi imparino a considerare ogni gara a cui parteciperanno come quella giusta da vincere. Spesso guardano troppo in là, selezionano i traguardi. Non si fa. A questa età ogni volta in cui sei in corsa devi provare a vincere. È un punto di partenza, si lascia da parte ciò che si è già fatto nelle categorie minori e si riparte. Nella vita bisogna saperlo fare. Impararlo a vent’anni è importante».
L'ottavo giorno
3 Gennaio 2022Ciclocross,Pidcock,Corsevan Aert
E l'ottavo giorno un incidente meccanico. Wout van Aert, smette di pedalare. Scende dalla bici e poi è costretto a inseguire. E l'ottavo giorno Thomas Pidcock pigia sull'acceleratore (in particolare tra 4° e 5° giro, come una furia, chiusi sotto il tempo di sette minuti), piccolo sì, ma forte, guidatore sublime, tecnicamente impeccabile sul circuito olandese. Impeccabile o quasi, con un errorino che nel finale rischia di pregiudicargli il successo: d'altronde il ciclocross non ricerca la perfezione nonostante i tentativi connessi a cui aspira van Aert. Il ciclocross è arte e come l'arte che piace a noi è imperfezione, tecnica, ricerca e istinto. È forza nelle gambe e nella testa.
Parlavamo di piccoli, ma tenaci, ed ecco spuntare Eli Iserbyt, prima a comandare, poi a tiro quanto non bastava per superare il rivale (di sempre), ma per creargli apprensione, quello sì, salvo dare tregua a quelle gambe che da mesi macinano chilometri e sembrano non fermarsi mai.
Hulst è Olanda, non è Belgio. Davvero poco cambia, ciclocrossisticamente intendendo. Il Vestingcross di Hulst è tecnico, ma velocissimo, il terreno varia e c'è un enorme mulino, lo Stadsmolen, tra le attrazioni da visitare. Non fossimo in piena pandemia, nella giornata di ieri sarebbe stato bello andare lì e farsi un giro. Se non è altro perché era in piena vacanza natalizia. Poi in quel mulino i ciclisti ci passano dentro in gara, si gira attorno e tra le mura. Si sale, si salta e si scende, si corre a piedi, insomma ad Hulst, che non è Belgio ma è Olanda, ci si diverte e si potrebbero fare anche un sacco di foto da ricordare. Non manca nulla (a parte van der Poel). È il ciclismo questo, e per fortuna il meglio deve sempre arrivare.
E l'ottavo giorno Wout van Aert rimonta fino al 4° posto dopo essere rimasto fermo per quasi un minuto ed essersi messo a lottare spalla a spalla con gente che incrocia solo - a malapena - sulla linea di partenza o in ricognizione.
Poche ore prima, a Baal, a casa Nys, un altro problema, ma lì un percorso più lento gli permise la rimonta, qui si interrompe senza togliere il fascino a una gara che regala un degno vincitore. Perché se non vince van Aert, ma lo fa Pidcock è comunque qualcosa di notevole. Non tutti sono d'accordo nel parlare di "big three" o "tre tenori" o vedete voi, ma a oggi, da quando è tornato van Aert, hanno vinto solo loro due.
Ha guidato magnificamente Pidcock, mentre da dietro van Aert rimontava e rimontava nella sua livrea nero-giallo-rossa. Dopo pochi minuti piombava su Venturini, il campione di Francia, 20° al traguardo, uno che non correva in coppa del mondo di ciclocross da diversi anni e l'ultima volta che lo fece arrivò 4°. Lo dribblava, sguardo da segugio in ferma, sempre rivolto in avanti a caccia.
Si ferma a sette di fila van Aert, uno che vince in media tra cross e strada una gara su tre, circa, e che nei giorni scorsi ha pubblicato una serie di dati relativi al suo 2021 tra cui 205 giorni in cui ha dormito fuori casa. Si dice che forse non ci sarà al Mondiale e sarebbe lo spot peggiore per il ciclocross, soprattutto oggi che c'è preoccupazione sulle condizioni di Van der Poel.
E allora Pidcock sogna concretamente di conquistare il titolo mondiale in tre specialità (cx, strada e mtb) e intanto approfitta e inizia a vincere qua e là, mentre Eli Iserbyt si porta a casa la coppa del mondo che proprio male male non è, succedendo nell'albo d'oro proprio a Wout van Aert.
E così l'ottavo giorno qualcosa cambia nella sfera del ciclocross, mentre restano intatti il divertimento e qualche accento con sbavatura.
Chiedi chi è Philippe Gilbert
31 Dicembre 2021StoriePhilippe Gilbert
Basterebbe dire che, professionista dal 2003, il 2021 è stato il suo secondo anno senza vittorie, la prima volta nel 2020. Forse ci si potrebbe anche fermare alle quattro classiche monumento, manca solo la Milano-Sanremo, o al Campionato del mondo 2012. Magari alla considerazione che ha vinto su ogni terreno, dalle pietre, alla pianura, agli strappi, alla salita, che conta 77 vittorie all’attivo, tante per non essere un velocista.
Il legame tra Philippe Gilbert e la vittoria parla di tutto questo e di una considerazione che il fuoriclasse belga ha fatto in un’intervista a Procycling. A quasi quarant’anni, dopo aver vinto praticamente tutto, all’ultimo anno da professionista Gilbert si chiede che effetto gli farà tornare a vincere. C’era abituato e ricorda bene di essere sempre stato in perfetto controllo, lucido, freddo. Ora non sa come reagirebbe. Ha, però, la certezza che quest’ultimo anno non sarà pura malinconia, che tornerà a cercare la vittoria e non si accontenterà di una gara minore pur di riassaporarla, non abbasserà il livello pur di riuscirci.
Forse una nuova vittoria avrà il sapore delle vittorie degli altri, dei compagni di squadra per cui Gilbert si è messo a disposizione. Sempre, a partire da Cadel Evans, sino a Caleb Ewan. «Quando sei tu a vincere- ha raccontato- sai esattamente cosa sta succedendo, gestisci la situazione. Quando fai di tutto per aiutare qualcuno a vincere, appena te lo dicono la felicità esplode». Perché non eri pronto a provarla, perché non sei nelle gambe dell’atleta per cui hai lavorato, non sai cosa ha provato ad ogni metro. C’è una fragilità particolare anche dietro quell’atteggiamento così sicuro, quello che il belga ha maturato negli anni.
La prima vittoria, come racconta, è certamente questione di merito, ma tornare a vincere è più difficile perché tutti sanno che hai vinto, che puoi farlo e quindi te lo chiedono. Tornare a vincere per Gilbert è prima di tutto volerlo e fare qualunque cosa sia necessaria. Lì dentro c’è il fatto che per molti mesi potresti non vedere la tua famiglia, che potresti dover non pensare ad altro che a quello, limitare tutto il resto.
Philippe Gilbert ha calcolato che, nella sua carriera, ha dormito nello stesso letto al massimo per due, forse tre settimane consecutive, forse per un mese nello stesso posto. In certi periodi è stato difficile, ma, oggi, è convinto del fatto che se ti limiti «a stare a casa» non va bene perché non ti fa bene.
Per il 2022 proverà a mettere un ulteriore tassello, come detto non cederà alla tentazione di accontentarsi: se finirà fra i primi cinque, fra i migliori, alla prossima Omloop Het Nieuwsblad sarà contento perché con loro vuole lottare. E se, un domani, un ragazzino, con fra le mani la prima bici, gli chiederà qualcosa del ciclismo, lui saprà rispondere a tutto, ma proprio a tutto.