Il tempo del tricolore

Un signore, seduto su una panchina accanto alla stazione di Faenza, canta ad alta voce “A mano a mano” di Rino Gaetano. La cappa di umidità avvolge la città già di primo mattino e lascia alcuni passanti in canottiera. Se non fosse per pochi dettagli, Faenza, questo venerdì, potrebbe davvero essere un nuovo assaggio degli anni settanta, forse ottanta. Ci sono anche i bar che tornano a riempirsi, qualche sigaretta accesa nel portacenere e una partita a carte in sospeso sotto un portico. Il tempo non sembra essere mai passato, invece ci sono circa quarant'anni a dividere ciò che sembra da ciò che è. La causa è il ciclismo che col tempo sembra giocare a rimpiattino per poi salvare nei ricordi poche cose, quasi sospese fuori dal tempo, pur in una giornata, la cronometro, in cui il tempo è tutto. In ogni minuto, in ogni secondo.

Le parole di Matteo Sobrero, nuovo campione italiano a cronometro, ad esempio, vanno oltre il tempo. Ieri mattina Matteo ha scherzato con Filippo Ganna, gli ha detto: «noi tutti corriamo per il secondo posto con te in gara, ma va bene così». Ieri sera, dopo aver vinto, ha ribadito il concetto. «Filippo è davvero un campione del mondo contro il tempo. Non so se mi spiego». Certo che Matteo si spiega, perché un conto è la maglia che indossi, un altro quello che gli altri ti riconoscono. Per lui Ganna è campione del mondo a prescindere da quella maglia e dal quarto posto della cronometro. «Forse ho vinto io anche perché Filippo sta preparando altri traguardi» aggiunge alla fine, proprio mentre scherza. «Domenica vado al mare, inizio a essere anche stanco». Ed è bello così, perché questo ragazzo di soli ventiquattro anni sembra quasi di altri tempi.

È senza tempo il gesto di Sofia Bertizzolo che, appena arrivata al traguardo, va in mezzo al pubblico e cerca con lo sguardo Soraya Paladin dall'altra parte della strada, sotto il tendone delle premiazioni. Sa che la compagna è giunta seconda e il primo pensiero è quello di farle sentire la sua presenza. Sofia esulta, alza le mani tra folla. Si ferma a parlare con un'anziana signora che vuole filmarla qualche secondo con il telefono. Sembra dirle «è come se avessi vinto io, se la meritava». Così la signora sorride, abbassa il telefono, quasi compiaciuta, e finge di batterle il cinque.

Sofia, qualche tempo fa, mi ha confessato che forse il ciclismo è raccontato con troppa enfasi, forse anche con troppa poesia: in fondo, dice lei, per chi lo pratica è un lavoro, con gli onori e gli oneri di tutti i lavori. Non le piace romanzare, ama la concretezza dei gesti. Così le cose le fa, non le dice.
Fuori dal tempo, poi, c'è Elisa Longo Borghini, campionessa italiana èlite a cronometro, che ha percorso gli ultimi chilometri senza contatto radio, non avendo più la percezione esatta del vantaggio sulle rivali. Fidandosi delle sensazioni e di ciò che aveva visto e sentito quando aveva provato il tracciato. C'è Elisa che l'altra sera ha ricevuto un messaggio che le ricordava come, in fondo, la cronometro sarebbe stata una formalità e ha subito pensato che non era d'accordo, perché lei lo scontato proprio non lo conosce, per rispetto delle avversarie e «perché in strada può succedere di tutto».

In un tempo sospeso, che resta nonostante tutto, è Francesca Barale che ieri ha corso più veloce perché non stava pensando a ciò che gli altri si aspettavano da lei. Perché nelle ultime prove non si era sentita all'altezza e questo le aveva restituito la possibilità di provare senza troppe aspettative.
Resta nel tempo anche quella bambina che non ha voluto essere presa in braccio dal padre e, per vedere la gara, si è messa in punta di piedi vicino alle transenne, a costo di stancarsi il doppio. Perché al tempo sopravvivono poche cose. Di certo, però, resistono quelle fatte sinceramente e quelle costruite con le proprie forze.

Foto: BettiniPhoto


Quel giorno ad Albi

È la tipica estate francese quella che si abbatte sul Tour de France il 17 luglio 1999. L'asfalto si squaglia sulle strade tra Saint-Flour e Albi e in lontananza, nei tratti in pianura, sembra dissolversi in pozze d'acqua.

È un miraggio: lo chiamano fata Morgana dal nome della fata che nella mitologia celtica procurava ai marinai visioni di meravigliosi castelli in aria o in terra per ingannarli e accompagnarli verso una morte certa. In realtà per i corridori la pianura stessa è quasi una fantasia in una frazione che prevede “sette salite secche”, per dirla alla Gianni Mura. Proprio l'allievo di Brera diceva che certe azioni si sentono, si prevedono sin dal ritrovo di partenza.

Quel sabato di metà Tour, fra i tifosi con cappellini bianchi e a pois, si annusa odore di fuga. Salvatore Commesso quella mattina si lamenta: «Vorrei attaccare, ma la fuga giusta parte sempre quando sono dietro a prendere l'acqua». Non particolarmente benaugurante in una giornata in cui, a quaranta gradi, i rifornimenti d'acqua dovranno essere molto frequenti, se non si vuole far la fine del catrame arso sulle strade.

Eppure Commesso, Totò per coloro che lo conoscono meglio, la fuga la centra. La maglia è targata Saeco, un tricolore conquistato pochi giorni prima. In realtà, all'inizio, più che l'entusiasmo prevale lo sbigottimento: «A dire la verità mi sono dato del deficiente. Mi aspettavano 230 chilometri allo scoperto, bel giorno per prendere la fuga giusta». Come dargli torto? In realtà questo pensiero sarà balenato nella testa di tutti i sedici corridori che sono andati all'attacco dopo soli otto chilometri. Konyšev, per esempio, lo ascolta e molla la presa. Qualche ora dopo si mangerà le mani. Il giorno dopo, forse spinto da quel rimorso, vincerà a Saint Gaudens.

In una giornata così nervosa, però, non basta essere in fuga: gli attaccanti si scherniscono a colpi di allunghi e finte che o li portano davanti o li cacciano indietro fino a venire nuovamente inghiottiti dal plotone che fa del menefreghismo la propria religione. Della serie: «Giocatevela voi che noi abbiamo altro a cui pensare». Soprattutto perché si avvicina una terza settimana da incubo. La rottura, davanti, avverrà a quaranta chilometri dall'arrivo, mentre si sale a Besse, quando Garcia Acosta, forzando l'andatura, si porta dietro Totò Commesso e Marco Serpellini. Sarà il canto del cigno per lo spagnolo che ben presto rimbalzerà, senza forze.

Entrambi sanno che, se si arriva in due, vince Commesso e così accade. Serpellini prova a staccarlo una prima volta, senza riuscirci, ai meno tre dal traguardo, l'ultimo scatto, ai mille metri, è telefonato, inutile. Così in una Albi addormentata dall'afa alza le braccia un giovane ventiquattrenne di Torre del Greco, in maglia di campione italiano. Secondo Serpellini, terzo Piccoli, quarto Lanfranchi. Sesta vittoria italiana. Uno schiaffo ai cugini francesi che, in quel Tour, non indovineranno mai una tappa.

Nella città di Commesso si cercano coralli e la cultura ciclistica è abbastanza povera. Salvatore inizierà a correre grazie a una società ciclistica fondata dal padre Aniello e dagli zii, la Macellerie fratelli Commesso. Anni dopo confesserà di aver fatto sempre di testa sua quando correva e di aver ascoltato poco i propri direttori sportivi. Uno sbaglio, ammetterà. Quel giorno dirà solamente di essere dispiaciuto per Serpellini perché «avrebbe meritato anche lui la vittoria, ma nel ciclismo vince uno solo». Gianni Mura scriverà della superstizione di Totò Commesso che, se vede un gatto nero attraversargli la strada in allenamento, frena e cambia strada.

Lui, in conferenza stampa, nasconderà l'indole di campano vivace dietro la timidezza del successo: «Dai, non posso saltare sui tavoli e festeggiare come piace a me qui, con questa maglia addosso. Ma non preoccupatevi, in privato mi scateno».


Affinità elettive

Sono passati ormai quasi trent'anni da quando Davide Rebellin era un ragazzino di belle speranze che passava professionista in maglia GB-MG. È proprio vero; si dice: è passata un'epoca. Ti guardi indietro e trovi Rebellin negli ordini d'arrivo, ti guardi avanti e leggi ancora il suo nome. Rebellin: tra i rappresentanti di una delle più forti generazioni del ciclismo italiano.

In mezzo alla sua carriera, che poi è anche la sua vita, Rebellin ha vissuto vicende di ogni sorta, si è rialzato da cadute che lo hanno ferito e potevano inevitabilmente spezzarlo, ha realizzato un filotto di successi sulle Ardenne che fece storia, e quando buona parte dei protagonisti di oggi non era nemmeno nata, conquistava la maglia rosa sul Monte Sirino in una tappa del Giro che forse qualcuno ricorderà perché sparì il segnale nelle fasi decisive della corsa, e ci ritrovammo con lui nel finale mentre scattava per conquistare la tappa e il prestigioso simbolo del primato.
Era maggio del 1996, ovvero quando van der Poel aveva un anno, van Aert due, Bernal, Evenepoel e Pogačar a malapena forse erano stati immaginati, Roglič non avrebbe pensato per altri 20 anni - o quasi - di diventare ciclista, Valverde non era ancora professionista. Era maggio del 1996, e chi vi scrive registrava le tappe su una VHS per via del rientro pomeridiano a scuola, e ancora ricorda quando tornò a casa e quella volta invece delle immagini della tappa la telecamera era fissa sul traguardo.

Oggi, 25 anni dopo, Rebellin corre ancora. Lo ha fatto con squadre italiane, francesi, tedesche, croate, polacche, kuwaitiane. Per chiudere il cerchio è tornato in Italia con un team Continental Under 23 dove il più vecchio dopo di lui ha quasi 25 anni in meno. Eppure non si può immaginare oggi un Rebellin che abbia intenzione di smettere, esempio concreto di chi vede strade ripide da scalare davanti a sé e non sente alcun tipo di timore reverenziale.
Ho conosciuto per caso una coppia di ragazzi qualche giorno fa a Castelfranco Veneto. Mi hanno raccontato di come accada ogni tanto che una famiglia di cinghiali vada a fare visita a Rebellin: «Si avvicinano a lui e si fanno accarezzare, e la mamma cinghiale non dice nulla perché sentono vibrazioni positive da Davide e non hanno paura». Insomma, realtà o leggenda, anche questo è Rebellin.
Uno che ti parla sempre con voce pacata, quasi mite, soppesando le parole come un vecchio saggio. Uno del "Mollare mai", semplice quanto realistica locuzione tanto in voga tra i ciclisti, non per forza solo tra i corridori. Uno che ieri è arrivato decimo sul Monte Grappa all'Adriatica Ionica Race, nonostante i suoi (meravigliosi) quasi 50 anni. Gli altri ragazzi prendano appunti.


Visto sulla strada non tradisce mai (il ciclismo)

Il telefono del papà di Gidas Umbri, corridore della Colpack in gara nell'Adriatica Ionica Race, continua a squillare. È la mamma del ragazzo che vuole sapere come sta andando la corsa: "Ha superato la salita? Come pedalava? Era ancora in gruppo?".

«Lei si preoccupa sempre così - mi fa papà Umbri - una volta in una corsa in pista tra gli allievi Gidas cadde e mia moglie si fiondò da lui facendosi largo come una forsennata - per fortuna non si era fatto nulla».

Il ciclismo muove la passione non solo nei genitori dei ragazzi in corsa, ma anche, o soprattutto nella gente che si accalca a bordo strada. Come succede da tempo per la Pro Loco di Moruzzo, un piccolo centro in provincia di Udine. Ai piedi della sua collina, che sorge dall'alto con vista sul capoluogo friulano, oggi era previsto il Traguardo Volante.

I membri della Pro Loco ieri sono andati a fare spesa, hanno comprato palloncini azzurri e carta crespa per decorare le strade e omaggiare corsa e corridori. Uno striscione con su scritto "Moruzzo c'è" è ben in vista: dal 2003 viene portato su e giù dallo Zoncolan ogni volta che la corsa arriva sulla terribile salita friulana.

E poi ci sono i preparativi. In mattinata qualcuno si prende mezza giornata libera da lavoro per dare una mano ad addobbare la strada, per far sentire il suo calore a chi pedala; è gente che perlopiù di ciclismo agonistico ne sa il giusto, ma non è quello che interessa: il ciclismo piace a prescindere dal risultato. A prescindere da presenti o assenti, a prescindere da chi vince o arriva ultimo. «Perché il ciclismo è l'unico sport che valorizza il territorio e noi ci teniamo a far conoscere questa splendida terra che è il Friuli, dando il meglio che possiamo offrire - mi racconta Fausto, il presidente della Pro Loco. Perché il ciclismo viene a casa tua e come ospiti dobbiamo trattarlo il meglio possibile».

E poi la febbrile attesa: con la gente che minuto dopo minuto si accalca sull'incrocio delle "Cjuie" punto perfetto dove veder passare il gruppo, prima che la corsa svolti a destra in direzione Fagagna.

Passa il quartetto di fuggitivi, la gente applaude, Rastelli, corridore della Colpack (in fuga inizialmente doveva esserci Gidas, racconta con una punta di orgoglio e di rammarico sempre suo papà) è in testa a scandire il ritmo, Donegà fa una fatica bestiale un po' per la pendenza, non esagerata per la verità, un po' per l'afa che avvolge un tipico pomeriggio di giugno, tipico, se non fosse stato per questa eccezione che è il ciclismo. «Spettacolo, cultura, passione, la possibilità di scoprire luoghi che altrimenti nessuno conoscerebbe: questo è per noi il ciclismo» mi spiega sempre Fausto. «Un giorno speriamo che anche il (grande) Giro d'Italia passi di qui».

C'è chi si prepara a rastrellare il bordo strada per raccogliere più borracce possibili; ma la gioia è di tutti: dal bambino con la maglia fucsia di una squadra locale, al ragazzo che domani ha l'esame di maturità ma ha preferito una sgambata in bici per scaricare la tensione, fino a chi, subito dopo il passaggio della corsa, dovrà correre al lavoro.

Poi passa il resto del gruppo, con Rebellin e Viviani, Cimolai, Sobrero e Scartezzini. Dura tutto pochi minuti, anzi secondi, qualcuno scatta foto, altri dei video che non guarderanno, ma resterà una meravigliosa giornata che rompe l'ordinario, passata ad aspettare il gruppo colorato e i suoi protagonisti in bicicletta. Questa è la forza del ciclismo, uno sport che, visto sulla strada, non tradisce mai.


Di ferite e leggerezza

Quasi nessuno riuscirebbe ad immaginare quanta passata pesantezza si celi dietro il sorriso di Rigoberto Urán, vincitore della penultima tappa del Tour de Suisse. Quanta angoscia in quel pomeriggio di inizio degli anni duemila, mentre quel ragazzino, in Colombia, cercava disperatamente il padre fra le strade di casa, non riuscendo a trovarlo. «Tuo padre è stato ucciso», ad un certo punto, qualcuno gli avrà detto così, o qualcosa di simile. Chi può uccidere un padre di famiglia che, per mantenere i propri figli, vende biglietti della lotteria? Non c'è risposta certa, ma, anche se ci fosse, non basterebbe comunque ad un ragazzo che ha perso un genitore, così, d'improvviso, dopo che era uscito di casa per lavorare. Già, lavorare. Papà glielo aveva detto proprio il giorno in cui, ancora bambino, lo aveva sorpreso a rubare bottiglie vuote per le strade di Urrao. Lo avrebbe portato a vendere biglietti della lotteria, se avesse voluto guadagnare qualcosa, e gli avrebbe comprato anche una bicicletta nuova per permettergli di sperare di diventare ciclista, terminati gli studi. Ma non doveva più rubare quelle bottiglie, non aveva senso. E ritorna quella domanda senza risposta: perché?

Urán cresce così, con questa zavorra da portarsi sulle spalle. Un'ingiustizia primordiale. E le ingiustizie possono spingere a fondo, possono incattivire, portare sulla cattiva strada. Certe volte è sufficiente un ricordo per salvarti, forse una promessa. Uràn sa bene cosa aveva promesso a papà e crede ancora in quella promessa, nonostante la vita gli abbia mostrato come non sempre vincano i più onesti o i più gentili. Forse il contrario. Non gli importa, come non importava a sua padre che certamente sapeva questa realtà, ma continuava sulla propria strada.

Urán studia, si allena e lavora. Inizialmente in bicicletta è goffo, cade e si ammacca tutto. Si rialza, qualche cerotto e via. Lo fa per se stesso, per sua madre e per sua sorella Martha. Lo fa perché «la vita mi ha insegnato a lottare. Perché la vita non è poi molto diversa da una corsa a tappe: oggi perdi, domani vinci». Il suo è un riscatto privo di rabbia e rancore, un riscatto intriso di leggerezza che è poi l'unico modo di sopravvivere a certe tragedie senza lasciare che ti distruggano. Di portare quel dolore dignitosamente, dandogli un significato e dando il giusto significato a tutto il resto. Perché Urán sa benissimo che ci sono cose più importanti di una caduta al mondiale di Firenze, di una volata persa per un soffio all'Olimpiade o dell'anno in cui i risultati non vogliono proprio saperne di arrivare. Per questo sorride e dice solo: «Sono fortunato, tante persone mi hanno voluto bene».

Sa che non si diventa uomini migliori quando si sale sul podio del Giro d'Italia (2013-2014) o del Tour de France (2017) e che anche lì bisogna restare leggeri e spogliarsi di tutto ciò che un risultato di questo tipo può metterti in testa, soprattutto quando arrivi dal nulla. Soprattutto sa bene che, per quanto possa succedere, fino a quando si vive si hanno almeno due possibilità. Quella di vivere anche per gli altri che non ci sono più, e quindi di vivere più intensamente, di vivere di più, e quella di fare qualcosa per cambiare la vita che stai vivendo, se proprio non ti piace. «Sei vivo? Bene, allora fatti valere». Parola di Rigoberto Urán.

Foto Luis Angel Gomez/BettiniPhoto©2021


Leadville 100

Words: Paco Gentilucci
Voice: Luca Mich
Sound design: Brand&Soda

Nel 2012 dopo aver passato più di un mese girando in autostop e dormendo sui divani di sconosciuti, la mia ex ragazza decide di raggiungermi negli USA e le chiedo di accompagnarmi a Leadville.
Stando alle regole delle macchine a noleggio USA io avevo la patente da troppo poco tempo, pur essendo maggiorenne, il che è sensato, per loro, considerato il fatto che a16 anni già possono guidare la macchina.

Leadville è fondamentalmente un paese costruito su una strada. Una strada con dei fast food e un piccolo centro commerciale con un motel (in cui dormiremo) prima di arrivare in quella che viene definita downtown: un barbiere, un coffeee shop e un negozio di vestiti dell’usato, il tutto al lato della solita strada.
La mia ex ragazza mi fissa con quello sguardo che significa siamo sul serio venuti qui? mentre io svuoto la sacca delle attrezzature per correre – un paio di pantaloncini una tshirt, un paio di scarpe e un cappello bianco con la visiera acquistato al negozio dell’usato in downtown dieci minuti dopo essere arrivato. Un cappello di Oil the Machine, un brand produttore di olio per condire l’insalata utilizzato da molti ultrarunner oltreoceano: un vero pezzo da collezione, per intenditori. A dir la verità il cappello era già molto usato e sporco, non fu un grande affare, non contrattai e lo pagai effettivamente più di quanto valeva in sé, ma il prezzo mi sembrò appropriato, chissà chi lo avesse indossato prima di me, magari AK, Anton Krupicka; chi poteva saperlo. Lo pagai volentieri, lasciando anche due dollari di mancia.
Secondo la mia ex ragazza non era stato un grande acquisto. Me lo disse apertamente mentre eravamo seduti a bere il classico caffè lunghissimo e acquoso che qualsiasi italiano definirebbe acqua sporca: io lo adoravo.
Ce lo servì un signore in camicia di flanella pieno di rughe con la barba che indossa una tshirt scolorita con scritto Leadville 100.
Com’è stato? gli chiesi, indicandola col dito
Horrible mi rispose, aprendosi in un sorriso sdentato.
In quel momento pensai di trovarmi nel posto giusto, proprio quello in cui avrei dovuto essere.
Tornati in Italia la mia ex prese a portare con frequenza il cane a spasso con un tizio, con cui dopo qualche giorno iniziò ad andare a letto, prima di decidersi a scaricarmi, dopo qualche mese. Quando mi parlava del recinto per far giocare i cani assumevo la stessa espressione con cui lei mi guardava mentre dicevo che buono bevendo quel caffè: felice, come un bambino al luna park.  

Leadville, 3094 metri di quota, città più alta degli Stati Uniti. Chiamarla città è eufemistico in quanto è più un villaggio, attorniato da questi collinoni enormi che arrivano senza difficoltà ai 4000 metri.
Cosa rende un posto degno di essere visitato?
Di sicuro Leadville non è tra le mete che strappano un “wow” o un “che fortunato” alle persone quando gli racconti dove sei stato, tipo le Hawaii o New York o il mar Rosso, ma tant’è.
Immagino che i luoghi assumano significato per le persone che ci abitano e ciò che vi succede, e ogni estate Leadville è una meta ambita per un certo tipo di persone.

Leadville nasce nel periodo storico della corsa all’oro, nel 1860. Intere generazioni di persone scommettono in un immediato futuro migliore andando a caccia della ricchezza facile, il dio denaro, che come sempre nella storia dell’uomo, offusca la razionalità. Una volta terminato il periodo dell’estrazione in California le famiglie emigrano dalla pianura alle montagne rocciose del Colorado, vestiti di stracci con in mano la speranza di un futuro migliore. Era l’isteria generale il motore della caccia all’oro, la prospettiva dei soldi, tanti e immediati, che smuoveva queste persone. Attraevano come gratta e vinci, i videopoker o un investimento spirituale in cambio del paradiso eterno. Non si trattava di cercare pagliuzze d’oro nel fiume con un retino, ma di un’estrazione sistematica, invasiva e senza tregua. La gente era disposta a tutto, lasciando la propria vita a caccia di questo materiale luccicante. Entro il 1860, Denver City, Golden City e Boulder City erano di fatto delle città che servivano le miniere. La rapida crescita della popolazione portò alla creazione del Territorio del Colorado nel 1861.

Le cose assumono il valore che le persone decidono di attribuirgli. Pensate che dei sassi sono molto più importanti della vita delle persone, possono migliorargli o rovinargli la vita per sempre.
Sassi per cui i Pellerossa o gli Indios sono stati sterminati, e per cui ancora adesso succedono guerre e che vengono mostrati come status sociale addosso alle persone in luccicanti anelli e crocifissi al collo.
Dei sassi luccicanti che influenzarono la vita delle persone, arricchendone molte, e conducendone molte di più al baratro. Nella metà del 1860 i flussi auriferi terminarono e molte persone si ritrovarono con un pugno di mosche in mano, i minatori senza lavoro e molte malattie per le condizioni di lavoro estreme e città che sarebbero diventate fantasma nel giro di pochi anni, come Uptop, intera città messa all’asta nel 2015 per un milione di dollari.
Oro City stessa, la cittadina che nasceva a un miglio dall’attuale Leadville, raggiungeva nel 1860 ben 5000 abitanti censiti, ma scomparse velocemente assieme all’oro dei giacimenti. 

E Leadville?
Leadville fu fondata nel 1877 dai proprietari di miniera Horace Tabor e August Meyer durante la Silver Rush. Si, perché terminato l’oro, i minatori riuscirono a estrarre da quelle montagne martoriate dell’argento. Non fu mai un vero boom come quello per l’oro, ma Leadville, in precedenza chiamata Slabtown (in quanto giaceva nella desolata pianura sotto le montagne) venne ribattezzata Leadville e ben presto si sviluppò con illuminazione e gas, strade, scuole, banche e ospedali. Personaggi di spicco vissero lì, prima che Leadville tornò ad essere una cittadina quasi disabitata (circa 2000 persone ci abitano oggi) e tra tutti vogliamo ricordare la nostra connazionale Giuseppina Morlacchi, ballerina milanese emigrata negli stati uniti e stabilitasi lì per il resto della sua esistenza.
Chissà cosa avrebbe pensato di quegli individui che si sarebbero trovati nella sua cittadina per correre 160 km in bici, o a piedi, da lì a qualche secolo.

Il tasso di disoccupazione a Leadville è altissimo, più di 3000 persone si ritrovano senza lavoro a causa della crisi mineraria. Serve qualcosa di nuovo, ma la terra è già stata spremuta e non può più offrire niente alle persone del Colorado. Serve una prospettiva nuova e a trovarla sono Ken Chlouber e Merilee Maupin a guardare ciò che vedono ogni giorno dalla loro casa in modo diverso. Montagne, a perdita d’occhio, e strade sterrate percorse normalmente in jeep. Ken nato in Oklahoma giocava a football, come chiunque, da quelle parti e si laureò in biologia, dopo essersi arruolato nell’esercito. Un giorno, andando a caccia con gli amici per noia, si beccò un proiettile da un amico, proiettile che ancora adesso è nel suo ginocchio. Dopo essersi sposato e avuto un figlio si trasferì a Leadville, trovando lavoro in un’azienda di estrazione mineraria, negli anni 70 prima di approdare nella politica come Repubblicano ed essere eletto alla Colorado House of Representatives dove lavorò per 10 anni. Ken è però anche un appassionato corridore, trascorre molte ore sui sentieri e le grandi strade sterrate attorno Leadville.
Un giorno si trova a leggere il racconto di questa gara che è già sulla bocca di tutti – o per meglio dire, di tutti i fuori di testa pionieri dell’ultrarunning– chiamata Western States 100 Endurance Run. Una gara in california di 100 miglia (160 chilometri) che un ragazzo di Auburn ha inventato, iscrivendosi alla gara, allora corsa per cavalli (la Tevi’s Cup) correndo senza cavallo e coprendo la distanza a piedi, in meno di 24 ore. Una cosa così folle e avveniristica da smuovergli qualcosa dentro. Perché le persone non potrebbero correre 100 miglia qui?
“L’altitudine forse li ucciderebbe” provò a spiegargli il dottore del posto.
Ken alzando le spalle lo mandò a quel paese.
L’anno dopo, nel 1983, 45 corridori erano al via, nessuno di essi morì.
La Leadville 100 era ormai nata, ed è una tradizione che prosegue fino ai giorni nostri. 

Leadville 100 è in assoluto una delle gare più importanti per qualsiasi ultrarunner al mondo. Nel percorso che parte da downtow, arriva a Hope Pass e torna indietro sulla stessa strada dopo aver girato attorno a un birillo, tutti i nomi più importanti della storia della corsa si sono dati battaglia. Dai record imbattuti dei leggendari Matt Carpenter in 15 ore e 42 minuti e Ann Trason in 18 ore e 6 minuti, arrivata seconda assoluta nel 1994 e vincitrice di Western States per 14 volte i sentieri della cittadina del Colorado trasudano storie e leggende. Dalla resurrezione di Rob Krar che è stato capace di tornare a vincere nel 2018 dopo la sua vittoria nel 2014 e una lunga assenza a causa di infortuni; alla consacrazione di Clare Gallagher che corse per la prima volta nella sua vita 100 miglia, bevendo litri di Coca Cola e mangiando cibo spazzatura stampando il secondo tempo più veloce della storia, senza aver praticamente mai gareggiato prima. Vogliamo parlare delle due vittorie di Anton Krupicka?
La prima volta questo capellone simile a Gesù corse a torso nudo, scarpe minimali a cui aveva tagliato via la suola e una borraccia infilata nel retro dei pantaloncini, staccando qualsiasi altro corridore, dopo una notte trascorsa dormendo nei bagni pubblici.
Una notte burrascosa trascorsa con i suoi pacer Julian Boggs e Alex Nichos durante la quale un ubriacone continuò a urlare fino all’alba, momento in cui Anton partì, per vincere la gara. 

Tutti i grandi nomi dell’ultrarunning sono passati, almeno una volta, da Leadville: Jurek, Sherman, Sandes e in questo posto sperduto del Colorado il seme della distanza ha portato anche alla creazione della gara in mountain bike, corsa per la prima volta nel 1994.
Il percorso? Lo stesso della gara di corsa a piedi: vai avanti 80 chilometri, ti giri e torni
indietro fino all’arrivo. Out and back.
Follia?
No, una cosa sensata per tutti quelli che la capiscono.

La Leadville 100 trail MTB nasce appunto nel 1994 grazie a un’idea di Tony Post, uno dei pionieri dell’ultrarunning, nonché ex-vicepresidente di Rockport Company, sponsor dell’evento. Lo stesso Tony Post che diventò CEO di Vibram USA e poi diede vita al suo brand di scarpe da corsa, innovativo e da poco presente anche sul mercato italiano: Topo Running.
Con il benestare del solito Ken Chlouber la pioneristica gara in bici passò dall’essere una faccenda per pochi scoppiati al diventare una gara must dell’ambiente. Le 150 iscrizioni del primo anno finirono ad essere le1700 richieste di partecipazione dell’anno scorso. Richieste, si, perché per accedere alla gara non basta pagare e partire, ma bisogna guadagnarsi l’iscrizione per merito (vincendo una delle gare qualificanti, solitamente sulla distanza di 100km) o tramite un bacio della dea bendata, vincendo la lotteria a estrazione che si tiene prima della gara, lotteria ovviamente esistente anche per la gara di corsa.

La quota, la lunghezza e le condizioni climatiche che possono variare dal caldo asfissiante alla neve e al fango rendono questa gara un’esperienza memorabile per molti, che si tratti di lottare per il podio o per vincere la fibbia da finisher, che nella gara in mountainbike prevede il cutoff dopo 9 ore (per ricevere la big buckle) e di 12 come cutoff massimo per essere nella classifica.
E i primi? I tempi dei primi classificati rispecchiano l’evoluzione di questo sport, di bici sempre più performanti e preparazioni atletiche sempre più mirate per questo evento. Il primo vincitore e la prima vincitrice di Leadville Trail 100 MTB furono John Stamsad e Laurie Brandt coi rispettivi tempi di 7 ore e 52 minuti per la gara maschile e poco più di 9 ore per quella femminile.  Per vincere la gara adesso bisogna essere in grado di percorrere i 160 km in poco più di 6 ore tra gli uomini e di 7 tra le donne. Il livello si è alzato di anno in anno, ma la svolta avvenne quando in griglia di partenza si presentò David Wiens, un ragazzo di Denver, nel 2003. 

Già mountainbiker di buon livello, Wiens vinse la gara nel 2003 inanellando una serie di vittorie consecutive in questa gara, fino al 2007. Nel 2007 però in griglia di partenza c’era anche un ciclista non proprio qualsiasi: Floyd Landis. Era chiaro ed evidente a tutti che David avrebbe perso la sua imbattibilità, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul ragazzo del posto, campione di mountainbike si, ma già ritirato dalla carriera, e che comunque, al prospetto di un grande mostro del ciclismo su strada, era un signor nessuno. Landis, al tempo ancora professionista su strada, nonché vincitore del Tour de France 2006 (prima che questo successo gli venne revocato per la orribile vicenda di doping in cui era coinvolto e che sconvolse il ciclismo di quegli anni e che venne sospeso l’anno seguente dalle competizioni) venne tuttavia battuto da Wiens, che compì il miracolo di vincere la gara abbattendo il muro delle 6 ore, per due minuti.
cosa successe l’anno dopo?
In linea di partenza c’era un texano che in bici aveva spadroneggiato, battendo qualsiasi altro corridore della terra, un corridore amato o odiato, che nell’armadio a casa collezionava varie maglie gialle. Anzi, più che varie dovremo dire, più di chiunque altro. Erano 7.
Si, proprio un certo Armstrong. Lance Armstrong. 

Alla domanda ricevuta pochi mesi prima, un giornalista chiese a Lance come sarebbe voluto essere ricordato dopo la sua settima vittoria al Tour, Lance dichiarò:
«Come il campione che ha radicalmente cambiato il modo di avvicinarsi e vincere il Tour. Il lavoro invernale, la costruzione della squadra, gli stage su Alpi e Pirenei, l’approccio studiato nei dettagli. Per sette anni io ho vissuto per il Tour». E alla domanda
Addio definitivo? Nessun ripensamento?
Lance tuonò: «Nessuna possibilità di tornare alle gare col numero sulla schiena. Non farò come Michael Jordan. Andrò ancora in bici per restare in forma e potrei anche partecipare a qualche corsa di mountain bike o cross, giusto per divertirmi”

A differenza di quanto dichiarato, Lance sarebbe tornato l’anno dopo al Giro d’Italia. Lance si preparava quindi, non aveva mai smesso, e si allenava per il suo ritorno al ciclismo professionistico, e una cosa era certa: non si era iscritto a Leadville 100 per perdere. Lance non era il tipo di persona che si iscriveva alle gare per divertirsi e basta.

Ad ogni modo, in quell’estate del 2008 Lance non si stava divertendo molto.
Wiens gli era attaccato alla schiena, nonostante il ritmo forsennato da record di gara, a meno di 10 miglia dall’arrivo, e i due procedevano appaiati in salita.
A 20 minuti dagli inseguitori Lance non riusciva a scrollarsi David di dosso, e provò ad accelerare, ma Wiens non mollava. Successe l’impensabile, Lance si girò e dichiarò:
Sono distruttoI’m done. Ordinando a Wiens di andare da solo all’arrivo.
Wiens, che veniva dai trails e non era abituato alla concorrenza assoluta della strada si trovò a rincuorare Lance, a tenere duro, gli disse di continuare, disse a Lance di non mollare e di proseguire.
Immaginate la scena: un signor nessuno che dice a Lance Armstrong, il corridore più tiranno e assetato della storia, che spadroneggiava su tutto il gruppo al Tour de France e che piazzava i suoi uomini della US Postal a tirare ai 60 all’ora solo per distruggere i sogni di gloria dei corridori fuori classifica colpevoli di non essergli simpatici, di tenere duro e arrivare assieme all’arrivo, semmai giocarsela in volata.
Fu la prima volta nella storia che Lance Armstrong disse ciò e ribadì il concetto con poche semplici parole: I’m done.
Wiens non si guardò più indietro e sollevò le braccia all’arrivo per la sesta volta consecutiva, battendo ancora una volta il record di gara, di due minuti.
Lo stesso Armstrong confidò che mai nella sua carriera aveva detto quelle parole a un avversario.
Non passò molto tempo che Lance affermò il suo ritorno al ciclismo professionistico e la sua volontà di rivincita su Wiens, a Leadville 100.

Grazie a questa vicenda Leadville Trail 100 diventò una gara sotto i riflettori della ribalta e il numero di professionisti del ciclismo aumentò di anno in anno. Lo stesso Armstrong tornò per vincere la gara, nel 2009, e il suo compagno di squadra alla Radio Shack Levi Leipheimer vinse l’anno dopo con il tempo record di 6 ore e 16 minuti, correndo per la prima volta su una mountain bike.

Leadville era polvere, sudore, una gara che portava al limite i corridori: anche i più forti atleti del pianeta dovevano soffrire almeno 6 ore per arrivare in fondo. Leadville era, ed è, la mecca per certe persone, non più a caccia di oro, ma di emozioni forti. Leadville è storia, leggenda ed è molto più di una semplice gara in mountain bike.
Il mio consiglio?
Al coffee shop del paese fanno un caffè squisito.


La strada sotto il sole

Il sole mattutino di giugno, già alto, è letale come una sentenza. Il cielo, lattiginoso, si frastaglia tra i merli della Torre Raimonda e l'immenso campanile intorno alla piazza centrale di San Vito al Tagliamento. L'aria, densa, si taglia a fette come fosse una torta appena sfornata. Le vie si riempiono di curiosi, tifosi, l'effetto-ciclismo regala sempre attenzioni particolari.

La banda musicale, vestita di bianco e nero, racconta l'idillio tipicamente popolare tra la gente e le corse in bici. Intona Mameli e Beethoven, Pachelbel e Strauss, mentre Rihanna echeggia dalle casse del palco dando alla scena un tocco tra il kitsch e il surreale come a un matrimonio raccontato da Matteo Garrone.

Matxín gonfia il petto passando tra i bus delle squadre dopo aver parcheggiato un SUV grande quanto una casa e con su scritto UAE Team Emirates; si coccola il suo pupillo: da lì a poche ore, sull'arrivo di Castelfranco Veneto, Juan Ayuso vincerà infatti il Giro Under 23. Primo spagnolo della storia, quinto corridore straniero su cinque edizioni da quando la corsa è rinata.

Si dice che talenti di questo genere ne nascano uno ogni tot anni - impossibile quantificare è una considerazione a spanne - e allora chi segue il ciclismo si deve ritenere fortunato, perché il ragazzo di Alicante, nato poco più di 18 anni fa, è uno di quelli che alzando l'asticella farà parlare, alla stregua di quei nomi che in queste ultime stagioni ci riempiono la bocca e fanno brillare gli occhi.

A sentire tecnici e appassionati, Ayuso è già da considerare: "uno di quelli lì", poi, si sa, il passo dalla gloria al farsi stritolare dalle attese non confermate è breve. Impressiona la sua facilità di pedalata, in salita e a cronometro - senza il problema alla sella avrebbe vinto pure quella - lo spunto negli sprint ristretti e nelle tappe miste, la sua capacità di correre in gruppo e di gestire la squadra pur essendo al primo anno tra gli Under 23. Completo, maturo, dai tratti tirannici.

In queste ore è ufficialmente professionista in maglia UAE e fra due mesi scenderà di nuovo di categoria provando l'accoppiata Giro-Avenir come riuscì soltanto a un certo Baronchelli. Matxín se lo coccola, Pogacar imparerà a conviverci, perché parlando di Ayuso si intende proprio "uno di quei corridori lì".

La Colpack lo ringrazia e lo celebra dipingendosi faccia e capelli di rosa sul traguardo finale e lanciandosi in un abbraccio infinito sotto un caldo clamoroso che costringe la gente a rifugiarsi sotto i portici di Castelfranco Veneto, scambiando il casuale incontro con le altre persone in una brezza di vento rigenerante.

Un cane abbaia alla vista dei ciclisti, bambine urlano e salutano ogni passaggio delle auto, mentre gli spettatori, nella curva lastricata che immette al rettilineo finale, a ogni frenata tremano: "fate piano!". Un coro da stadio.

Ayuso ha dominato la corsa, ma il Giro dei giovani è anche nei tentativi di Healy. Se esistesse il premio combattività come al Tour, l'irlandese dovrebbe vincerlo ad honorem per questi anni passati nella categoria inseguendo il successo andando sempre in fuga.
Sabato, nella San Vito al Tagliamento-Castelfranco Veneto è arrivato quel successo, come arrivò al Tour de l'Avenir qualche anno fa. Al via glielo annunciamo: "Today is the day, Ben" e lui ci risponde con un ringhio a denti stretti e occhi iniettati di rabbia agonistica: d'altra parte la scaramanzia è compagna fedele di ogni corridore.

Il Giro Under 23 è anche la tranquillità con la quale Garofoli è cresciuto giorno dopo giorno scortando sul podio il compagno di squadra Vandenabeele; sono i successi di tappa della Biesse Arvedi, che non vinse con Conca e Colleoni l'anno passato, ma ci riesce un po' a sorpresa con Bonelli e Ciuccarelli. Oppure quello della InEmiliaRomagna guidata da Michele Coppolillo.

Il Giro Under 23 è El Gouzi ritrovato sulle lunghe salite, Piganzoli, miglior 2002 in classifica dopo Ayuso, o Belleri che cade in maglia verde. Vorrebbe maledire il suo mestiere - forse lo fa - e ritirarsi, ma arriva lo stesso al traguardo ultimo e incupito, e il giorno dopo ripartirà per l'ennesima fatica.

Il Giro Under 23 è Verre che appare sempre elettrico e nervoso come una lampadina che si accende a intermittenza: migliore italiano in classifica e chissà che nel 2022 non possa testarsi come capitano. Il Giro Under 23 è nelle voci di mercato, di chi passa e chi resta, di chi a fine corsa lava la bici o di chi, maglia aperta, non ne può più.

È il sorriso di Hellemose o lo sguardo del suo compagno di squadra Gaffuri. Da giovane vinceva le corse campestri, lo scorso anno lo raccontammo al Giro del Friuli ritirato per freddo e pioggia e fradicio in un bar con lo sguardo perso. Sabato, sotto il sole, lo sguardo è sempre quello: malinconico, incerto come la vigilia di una tappa di montagna.

Il Giro Under 23 è una chiacchierata con un collega, con un amico, qualche parere tecnico con un direttore sportivo. È Axel Merckx che parla di Tour o Commesso che nasconde lo sguardo dietro gli occhiali come se corresse ancora. Il Giro Under 23 è una lunga strada percorsa quest'anno perlopiù sotto il sole.

Il Giro Under 23 è la felicità di un abbraccio caldo: ragazzi che sognano un successo, il salto nel professionismo o più realisticamente un gesto di consolazione a fine corsa, da un compagno, una ragazza, oppure un genitore, ansioso, ma commosso.


Chris Froome e l'effetto piuma di Dumbo

Si avvicina l’inizio del Tour de France ed è difficile pensare al Tour senza pensare anche a Chris Froome. Nella storia di tutta la Grande Boucle nessun ciclista si è portato a casa il quarto titolo senza poi vincere anche il quinto: sono le statistiche a parlare, ma le statistiche valgono per i grandi numeri e non per il caso singolo.

I numeri, si sa, regalano una lettura della realtà perfettamente razionale e a volerli mettere tutti in fila, nel caso di Chris Froome, trasmettono l’immagine di un corridore nella parabola discendente della sua carriera: il terribile incidente di giugno 2019 al Critérium du Dauphiné, i 36 anni compiuti il 20 maggio, i modesti risultati di questa stagione (47esimo allo UAE Tour di febbraio e in questi giorni al Critérium du Dauphiné, 81esimo alla Volta a Catalunya, 93esimo al Tour of The Alps e addirittura 96esimo in classica generale al Tour de Romandie) e la generazione dei giovanissimi talenti con cui dovrà confrontarsi al Tour.
Ma se una vittoria al Tour a 36 anni (e 130 giorni, come riporta procyclingstats), nella storia, è riuscita solo al tedesco Firmin Lambot - stiamo parlando però del 1922 - c’è qualcosa che i crudi numeri non possono spiegare ed è qualcosa che ha a che fare con l’effetto piuma di Dumbo, ovvero la possibilità in determinati momenti e circostanze della nostra vita di poter accedere a delle riserve nascoste, che nessuno intorno a noi immaginava potessimo avere. Noi pensiamo che la storia della vita e della carriera di Froome sia proprio una storia che racconta di quelle riserve nascoste, a cui il campione inglese è riuscito ad attingere, fin da quando era solo un ragazzo.

Nella sua autobiografia, The Climb, Froome ci racconta un episodio rivelatore in tal senso. Chris, all’epoca sedicenne, si sta allenando con quello che è stato il suo primo mentore, David Kinjah, nei pressi di Ngong fuori Nairobi. Kinjah in Kenya è una vera e propria leggenda, il corridore più vincente nella storia del Paese, si è guadagnato il soprannome di Leone Nero correndo per un anno in Italia nel team Index Alexia Alluminio, lo stesso del due volte vincitore del Giro d’Italia, Paolo Savoldelli.

Quel giorno, sulle colline di Ngong, quel ragazzo di 16 anni sogna di poter battere il suo mentore e lo racconta così: «Siamo corridori. Lo sto inseguendo. Lui è la mia preda. Sta ridacchiando come una iena perché sa che non lo prenderò mai. Ha migliaia di chilometri di strade e colline stipati lì dentro, in quelle gambe, tutti compressi in muscoli tirati. Si prende gioco di me, mi lascia intravvedere la sua ruota posteriore: ora la vedi kijana (ragazzo), ora no. Non posso vincere, ma lui mi consente di avvicinarmi al punto da farmi sperare di riuscirci.

Dopo, quando avremo finito, ci riposeremo e rideremo insieme; arriverà mia madre, che ci segue con la sua auto a un paio di ore di distanza, e ci porterà del cibo per rifocillarci.

A quel punto, lo conosco, mi dirà “Carica la bici sull’auto di tua madre kijana e torna indietro con lei. La lunga salita per arrivare a casa non fa per te”.
Mi conosce abbastanza bene da sapere che non lo farei mai. Continueremo con la nostra gara fino a casa».
Ecco noi pensiamo che l’effetto piuma di Dumbo per Chris Froome stia tutto lì.


Ancora una volta Martesana Van Vlaanderen

A dicembre 2019, dopo quattro anni ed altrettante edizioni, Giovanni Pirotta, l'ideatore del Martesana Van Vlaanderen, aveva deciso di dire basta. Questo viaggio in bicicletta lungo le sponde dell'Adda, vicino ai navigli, che ogni anno radunava più di seicento persone, era nato quando molte cose erano diverse, troppe forse.

«Il primo anno credevo avrebbero partecipato al massimo cinquanta persone. Martesana Van Vlaanderen, invece, ha portato sull'Adda persone che venivano dal Veneto, dal Friuli Venezia Giulia, persino da Roma. Non lo avrei mai pensato. Non ho mai chiesto alcun permesso ai comuni per questo viaggio in bicicletta, ho sempre detto che era un ritrovo di amici, anche se molto numeroso. Amici che dopo il viaggio si fermavano a fare un pasta-party, a ridere e scherzare. Proprio per questo il Martesana è sempre stato gratuito: volevo provare a regalare qualcosa di bello alle persone e l'unico modo per farlo era così, spontaneamente, gratuitamente. Nel tempo, però, ho iniziato a pensare a tutti i rischi. Di recente sono diventato papà e chiedermi cosa sarebbe successo se fosse accaduto qualcosa di spiacevole durante questa manifestazione è stato inevitabile. Da padre ti fai più domande».

L'unica via sarebbe quella di affiancarsi ad una società, ma Giovanni non ci sta. «Avrebbe privato il Martesana di quella leggerezza che lo ha sempre caratterizzato, saremmo entrati nel turbine della burocrazia e dei permessi. No, a dicembre ho scritto alcune righe ed ho annunciato che, con dispiacere, la storia del Martesana finiva qui».

Giovanni Pirotta su quelle strade passava tutti i giorni, a piedi o in bicicletta. Ogni anno cercava di inventarsi qualcosa di diverso, una salita, uno strappo, un passaggio. Come per ringraziare coloro che venivano da così lontano, per sorprenderli. A novembre 2020, durante il secondo lockdown, tutto questo è tornato a mancare. «Per non pensarci ho iniziato a suonare la chitarra, ma nulla da fare. Quelle persone continuavano a venirmi in mente. Pensavo, per esempio, a quei due bed and breakfast ad Inzago che non si trovavano neppure su internet e che avevo contattato personalmente per cercare a questi ciclisti un luogo dove dormire. A tutto quello che il Martesana mi aveva lasciato. A quanti si trovavano nella mia stessa situazione. Io, però, potevo fare qualcosa».

Nasce così la versione "Ride Solo" del Martesana Van Vlaanderen. In fondo quel percorso si può percorrere anche in solitaria o in piccoli gruppi, perché non provarci? Così, ad aprile 2021, durante la settimana santa del ciclismo, quella del Fiandre, anche i ciottoli larghi e sformati degli zampellotti lungo l'Adda sono tornati a vibrare. «Poco più di cento chilometri lontano dalle auto, in mezzo al verde, accanto all'acqua, inseguendola e guardandola da ogni dove. Poco più di cento chilometri spostandosi verso la Brianza e riscoprendo la storia di quei luoghi. Penso sia bastato questo per dare un poco di spensieratezza a tante persone che ultimamente non sapevano più cosa fosse». E sono queste le storie più belle, quelle che non ti aspetti, quelle intrise di gratitudine: «Alcuni non avrebbero mai pedalato senza il Martesana di quest'anno. Alcuni hanno cercato una bicicletta apposta per godersi qualche ora all'aria aperta e hanno fatto di tutto per mostrarmi quanto fosse stato importante per loro. Circa centosettanta persone hanno concluso la prova».

Per questo, a chi oggi gli chiede se ci sarà un'altra edizione del Martesana Van Vlaanderen, Giovanni Pirotta ancora non sa rispondere, ma una certezza ce l'ha. «Se ci sarà, cambierà e si evolverà col tempo e con le cose che accadranno. Oggi, però, mi piace pensare a chi è tornato a casa più felice o almeno sereno. Quelle strade su cui io ho iniziato a pedalare per fare fatica, quest'anno hanno davvero costruito qualcosa di importante».

Foto: Fulvio SIlvestri


Attaccare per il ciclismo per i tifosi per se stessi

Quello che ci ha mostrato l'altro giorno l'attacco di Damiano Caruso, oltre all'aspetto umano e romantico della sua storia, è come il ciclismo di oggi nelle grandi gare a tappe, stia provando a riscoprire l'importanza dell'attacco "da lontano" per risolvere una corsa.

Quell'azione ci ha insegnato come solo provandoci hai la possibilità di lasciare il segno nella storia di questo sport. Ci ha dato una lezione importante, quanto mai banale, ma persa in questi anni fatti di calcoli e tattiche conservative.

Torna valido di colpo il più elementare dei paradigmi ciclistici: se attacchi vinci, se resti in difesa è difficile combinare qualcosa, o, più semplicemente, è difficile anche solo entrare nel cuore pulsante del ciclismo: quello del tifoso. E Caruso, insieme a Bilbao, intuendo l'attacco di Bardet e compagni, ci ha dato una magistrale lezione.

Vero che, si difenderà qualcuno, l'attacco oggi può essere un boomerang ai fini della classifica, visti gli squadroni e la velocità contro cui bisogna combattere; attaccare vuol dire mettere a repentaglio il placido benessere e la sicurezza acquisita, persino quell'orrendo valutare così importanti i punti UCI, ma quando hai gli uomini giusti a disposizione come nel caso della Bahrain, attaccare non è solo spettacolo fine a se stesso. Non è puro esercizio di stile, ma è lungimiranza, sagacia, è mostrare capacità di interpretare la corsa. È sfidare la monotonia dentro cui cadono spesso i Grandi Giri.
Dall'ammiraglia Bahrain hanno visto bene, prendendo rischi e lo hanno fatto sin dai primi giorni quando ancora potevano contare su Landa, Mohorič e Mäder. E l'attacco dopo il San Bernardino è stato solo l'apogeo del loro Giro interpretato come meglio non si poteva, nonostante le sfortune.

Il punto è: Caruso poteva starsene tranquillo, podio ben saldo e magari provare a vincere la tappa sull'ultima salita, perché no? Perché attaccare in discesa seguendo due ottimi discesisti come Hamilton e Bardet, rischiando magari pure di scivolare a terra sui diversi tornanti bagnati?

La risposta la si trova nella bellezza del ciclismo, nel fascino ritrovato in un'azione partita da lontano che in un attimo cancella la calma apparente di una tappa altrimenti dal copione già scritto.

Si è mosso da lontano, impulso già vissuto in questo 2021 con altri protagonisti, o come tra Vuelta 2019 e Tour 2020 lo ha fatto senza timore Pogačar. Si basa su questo ideale l'attacco di Froome nel 2018. È con quell'azione che Froome è entrato nel cuore dei tifosi, più che con il suo nome scritto per quattro volte nell'albo d'oro del Tour.
Sembra così assurdo esaltare – a prescindere dalle storie di contorno - un attacco a 50 km dall'arrivo dell'ultima tappa di montagna, ma siamo stati abituati, in questi anni, a spettacoli deplorevoli in tal senso. A lunghe attese svanite in una nuvola di fumo. Diversi Tour de France ne sono l'esempio.

D'altra parte è quello che abbiamo visto fare a Yates e alla sua squadra che hanno preferito stare nascosti, salvo poi dare una mano veloce alla Ineos tra San Bernardino e Splügenpass. Viste le difficoltà di Martínez in discesa c'era la seria possibilità di provare a isolare Bernal, ma invece, per loro, è stata un'occasione persa. Poi certo: per attaccare servono le gambe oltre che il cuore.

Per il racconto (romantico) allora è stato meglio così: magari con ulteriore bagarre da dietro non ci saremmo goduti quegli ultimi chilometri di Caruso contro tutti, di Caruso spinto dal pubblico, di Caruso che vince facendoci vivere una giornata indimenticabile. Facendoci riscoprire per una volta il fascino dell'imprevedibilità perso nelle stagioni dei Grandi Giri: un altro insegnamento che ci hanno dato Caruso e il nostro amato ciclismo. Sperando che non resti solo una splendida eccezione, ma la strada da battere in barba a watt, calcoli, punteggi e piazzamenti. A volte quando si azzarda, si corre persino il rischio di vincere.

Foto: Bettini