L'attesa della Strade Bianche
6 Marzo 2021CorseStrade Bianche,Longo Borghini,Bronzini
Se Elisa Longo Borghini fosse uno stato d’animo, sarebbe la leggerezza, quella di Italo Calvino, quella che consente di «planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore». Mancano poche ore alla partenza della “Strade Bianche” e lei è estremamente serena. «Voglio divertirmi come facevo da ragazzina, voglio godermela questa gara». Sarà per questa leggerezza, preservata nonostante i successi, le aspettative e anche gli anni che passano, che sentire Elisa raccontare gli sterrati senesi è un’esperienza da consigliare. «Ho anche vinto qui, ma il feeling che ho con queste strade non dipende da quello. Me la sono sempre immaginata come una classica del Nord staccata e accompagnata in Toscana. Quando sali sullo strappo di Santa Caterina, capisci cosa sia questa terra. Senti la storia, l’arte, la musica, è un’emozione rara».
Giorgia Bronzini, suo Direttore Sportivo, ci dice subito che deve ringraziare Elisa, poi continua: «Noi abbiamo anche corso assieme ed in queste situazioni è facile chiedere qualcosa in più e comportarsi in maniera diversa dalle altre atlete facendo leva sull’amicizia. Elisa chiede informazioni tramite mail come da protocollo di squadra, questo per dire della sua professionalità. Oggi lavoreremo per lei».
La variante principale considerata da Bronzini è quella legata al meteo. «Bastano poche gocce d’acqua e la situazione qui cambia repentinamente. Se pioverà la gara sarà più dura e molti disegni tattici potrebbero andare in fumo. Non so se per noi possa essere meglio o peggio, bisogna essere pronti ed elastici nel cambiare tattica. Sinceramente mi auguro solo che sia una gara aperta a più squadre. Una gara movimentata sin dall’inizio, per noi ed anche per il pubblico che ci guarderà da casa, non potendo stare in strada». Il punto cruciale? Elisa Longo Borghini non ha dubbi: Le Tolfe. «Probabilmente sembra assurdo detto da me, ma quel tratto di sterrato mi piace particolarmente. Lì me ne capita sempre qualcuna e spesso questo mi pregiudica la vittoria. Mi spiace, ma resta la bellezza. Sembra di essere in un’arena, la miccia si accende e la corsa esplode».
Intanto Giorgia Bronzini pensa alle possibili rivali e lo fa analizzando le prove viste sino ad ora. «Se parliamo per valori assoluti non si possono non citare van Vleuten e van der Breggen. In gara, poi, possono esserci circostanze sfavorevoli per cui non si ottengono risultati, ma restano le migliori. Non si possono sottovalutare. Se invece vogliamo vedere le ultime evidenze, credo siano da marcare strette le atlete della SD Worx. Hanno una cadenza e una continuità non scontata considerando che siamo solo a marzo».
In ogni caso la “Strade Bianche” sarà una briciola di quasi normalità in un periodo in cui la normalità manca a tutti. «Sai, è ancora tutto strano – spiega Longo Borghini – però si sente che è primavera, che le corse si disputano nel loro periodo e questo un poco rassicura, ci fa pensare che le cose possono sistemarsi». Giorgia Bronzini è stata campionessa del mondo, ma è la prima a confessare che una stagione come quella appena trascorsa l’avrebbe vista in seria difficoltà. «Credo che dobbiamo guardarci negli occhi ed essere grate per il fatto che fra poco partiamo e abbiamo la possibilità di fare il nostro lavoro. Ci sono tante persone, tanti amici, che non possono farlo e sono distrutti. E non è solo un discorso economico, c’è di più».
L’indole diversa di Bronzini e Longo Borghini emerge sul finire della chiacchierata quando si parla di sterrato e di modi per affrontarlo. L’istinto di Elisa e la tattica ragionata di Giorgia si incontrano a metà strada. Longo Borghini parla da atleta navigata: «Sono abbastanza brutale in questo: io sullo sterrato pedalo, ma non so spiegarti il modo in cui pedalare. Mi viene naturale, lo faccio senza pensare troppo e i risultati arrivano. Potrei dire che è qualcosa di faticoso ma spontaneo». Giorgia Bronzini, invece, ha la visuale di un’ex atleta e ti racconta lo sterrato come se dovessi affrontarlo in prima persona. «Devi scegliere chi comanda. Vuoi essere tu a decidere che traiettoria prendere o accetti che sia lo sterrato a farlo per te? Se vuoi decidere, devi aggredire quella terra. Sicuro, deciso, ma non rigido. Se l’aggressività si tramuta in rigidità, la bici non va più avanti. I muscoli devono essere sciolti. In fondo, lo sterrato è una questione di equilibrio». Ora, però, basta chiacchiere, le atlete stanno per essere chiamate sul palco. Si parte!
Foto: Valerio Pagni/BettiniPhoto©2020
Cosa aspettarsi dalla Strade Bianche
5 Marzo 2021CorseStrade Bianche
Chiamatelo un po’ come vi pare: ciascuno ha il suo modo. Chiamatelo calcolo scientifico, oppure tifo, malattia, passione, persino common sense. Chiamatela attesa, bramosia o speranza, quella di vedere van Aert, Alaphilippe e van der Poel (scritti in ordine casuale) giocarsi fino all’ultima stilla di sudore la Strade Bianche.
Magari con un attacco sulle Sante Marie (non prima eh, ragazzi, mi raccomando, sennò ce lo perdiamo: inizio diretta tv o streaming ore 13.45 circa), intanto, per vedere che effetto fa sulle gambe degli altri. Fin dove lasciano il segno.
Vedremo chi emerge dalla polvere – o dal fango, se il tempo volge al brutto – e poi, se proprio non ci si vuole giocare tutto salendo verso Piazza del Campo, ecco che tra Colle Pinzuto e Le Tolfe, con quei nomi allegorici che solo in Toscana, il terreno c’è per il colpo risolutivo, e il contorno a ispirare non manca.
Mancherà solo la gente che non è poco anche se ci stiamo facendo la brutta abitudine. E poi: vogliamo riappropriarci del finale più degno e che solo una disattenzione generale – di corridori, di moto e di pianeti male allineati – ci ha tolto al Fiandre 2020? La risposta è una sola ed è ovvia.
Nel 2019 a Siena vinse Alaphilippe, lo scorso anno toccò a van Aert, mentre van der Poel ottenne un quindicesimo posto al termine di una giornata tutt’altro che da van der Poel.
In Belgio, pochi giorni fa, ha sgasato, si è testato, un paio delle follie delle sue, attacchi da lontano, poi piccole scaramucce con gli avversari, scelte strategiche forse non brillantissime nel finale della Kuurne-Brussels-Kuurne e persino un manubrio rotto a Le Samyn, ma, senza ombra di dubbio, pioggia o sole, caldo o freddo, strada bianca ben battuta – come si è visto dalle ricognizioni di questi giorni – oppure più carrareccia, beh domani è il favorito (assoluto) con qualche punto di margine sul francese e soprattutto sul belga che ancora in strada non si è visto in questo scorcio di stagione, ma dicono che in allenamento abbia fatto paura.
Poi certo, la gara non si ferma a loro tre: il cast è stellare e con Pogačar e Pidcock rischia di essere corale. Loro i favoriti a cinque, quattro e tre stelle e poi ci sono gli altri: Van Avermaet, Štybar, Wellens, Kwiatkowski, Fuglsang, Bardet, Madouas, ecc.
Si discute sulla carta, ma le contese non ammettono regole né copioni già scritti e quella carta qualcuno potrebbe anche prenderla e stracciarla, tanto più in una corsa così. Vedremo.
E gli italiani? Generazione di corridori che hanno maturato una sorta di intolleranza a ghiaia, balze e biancane senesi. Unico vincitore Moreno Moser, figliol prodigo di un’intera discendenza e che poi ha preferito fare altro. Pochi pure i podi, anche quando la corsa era appena nata (era il 2007, vinse Kolobnev) e i nomi alla partenza non erano quelli dei migliori come accade oggi, o meglio domani. Lo scorso anno gran bella gara di Formolo e Bettiol, ma non bastò: d’altronde come si poteva battere van Aert? E andare forte a loro potrebbe non bastare nemmeno domani. Gli altri: Ballerini potrà tenere i migliori sugli strappi? Difficile. Brambilla può essere un nome spendibile per un piazzamento a ridosso del podio; da Rosa, Conca e De Marchi ci si aspetta più un attacco da lontano, come i due fratelli Bais che vederli in fuga assieme sarebbe come una saga familiare. Assenti per diversi motivi possibili protagonisti: Nibali, Ulissi, Moscon, Bagioli e Trentin – così come Sagan e Schachmann. Complesso immaginarsi il tricolore sventolare in alto, salvo un miracolo che di questi tempi è meglio riservare per altro.
IL PERCORSO
Pittoresco, piuttosto e anzichenò, come esclamava il Lord H.G. Wells di Dylan Dog. Da Siena a Siena, 184 chilometri di corsa, circa. 63 di sterrato suddivisi poco democraticamente in 11 settori e finale sullo strappo che porta in Piazza del Campo. Primo punto chiave Sante Marie (o Settore Fabian Cancellara) e il lungo tratto in su e giù una volta scollinati con ancora diverso sterrato e qualche curva difficile.
Per dare alla corsa un credito ulteriormente leggendario di quello che si è costruito in sole 14 edizioni ci vorrebbero quei 50 chilometri in più, inutile nasconderlo. A dividere ulteriormente quelli forti da quelli ancora più bravi. Corsa che, tuttavia, premia corridori completi, che siano grangiristi o classicomani, pietraioli o ardennisti: non fa differenza, qui negli anni sempre – più o meno – vincitori ben attrezzati.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe, van der Poel
⭐⭐⭐⭐ Van Aert
⭐⭐⭐ Pogačar, Pidcock
⭐⭐ Fuglsang, Van Avermaet, Bardet, Wellens, Kwiatkowski, Brambilla, Madouas, Mollema
⭐ Formolo, Ballerini, Venturini, Vendrame, Stybar, Bettiol, S.Yates, , Almeida, Küng, Mohorič, Asgreen. Clarke, Bernal
Foto: Paolo Penni Martelli
In Egitto per conoscere mio padre
Dopo più di un anno, Omar Mohamed Ali e suo padre si sono incontrati oggi all'aeroporto del Cairo e per più di tre settimane viaggeranno assieme nelle loro terre originarie, quelle d'Egitto. Omar correrà e pedalerà, papà lo aspetterà insieme alla squadra di supporto e al pomeriggio chiacchiererà con lui e visiterà città. In fondo è stato proprio papà a volere questo viaggio assieme. «Quando gli ho telefonato e gli ho detto che avevo intenzione di partire alla volta dell'Egitto, mi ha subito detto che, se fossi partito, lui sarebbe stato al mio fianco». Fino a qui potrebbe essere una storia come tante altre, invece no, perché Omar e papà sono stati lontani per troppo tempo e ancora oggi non si conoscono pienamente.
«Oggi so che la storia di mio padre è la storia di un uomo a caccia dei propri sogni. Da bambino non potevo neppure immaginarlo e avrei voluto fosse come tutti i genitori dei miei compagni di classe: quelli che andavano in campeggio, in montagna e al mare con i figli. Lui no, lui non c'era mai. Sono stato arrabbiato molti anni con lui poi ho capito che non avrebbe mai potuto essere come loro. Papà veniva da un paese povero, aveva combattuto la guerra del Sinai, l'aveva persa, e prima di conoscere mamma viveva in Inghilterra. Lì dove sarebbe tornato dopo il divorzio. Era consulente finanziario e in quegli anni nessuno qui avrebbe affidato i propri risparmi a un uomo di colore». Omar racconta che papà è cambiato, dice che la vera avventura sarà la riscoperta di quest'uomo e pensa alle domande che vorrebbe fargli.
«Nonostante tutto, in quegli anni ha mantenuto cinque persone. Da bambino quando mamma e papà si lasciano tu stai istintivamente dalla parte della mamma perché cresci con lei, papà è colui che ti ha abbandonato. Non è così. Mio padre, diventando anziano, ha sentito sempre più la mancanza della propria famiglia, è diabetico e in Inghilterra ha tutto, ma noi gli manchiamo. Vorrei chiedergli tante cose ma ho anche paura perché con lui non ho la confidenza tipica dei figli con i padri. Magari, se troverò il momento, gli chiederò se abbia mai pensato di rifarsi una famiglia. Lo vorrei sapere da tanto».
Il viaggio partirà da El Alamein. «Sono stato militare, andrò al sacrario e lascerò il mio cappello da alpino. Lo sento come un dovere. In fondo, El Alamein è una parte di Italia, in terra egiziana, dove durante la guerra hanno perso la vita troppe persone». Poi ci si sposterà verso Alessandria d'Egitto, la città natale del padre di Omar. «L'ultima volta che sono stato ad Alessandria era il 1992, per le vacanze d'agosto, a casa della nonna. Quell'anno ci fu il terremoto, la piramide di Giza venne danneggiata, e noi tornammo a casa solo a ottobre inoltrato perché i voli erano sospesi. La casa di mia nonna subì dei danni e pendeva da un lato, così, per far stare dritto il letto e riuscire a dormire, gli mettevamo dei libri sotto». Da qui, Omar si muoverà verso il Cairo e poi verso l'Oasi desertica di Bahareya. «Sarà una strada desertica di 400 chilometri. Farò circa 50 chilometri al giorno e ne uscirò in otto giorni. A fianco a me scorreranno due deserti: quello bianco, calcareo, di pietre e il “grande mare di sabbia” del deserto occidentale». E via verso l'oasi di Dakhla, di Kargha e finalmente Luxor, la Valle dei Re. L'ultima tappa, ad oggi, sarà Aswan, ma Omar confessa che, in fondo, gli piacerebbe arrivare ad Abu Simbel e, se ne avrà modo, ci proverà.
La domanda viene naturale: qual è la cosa che più ti spaventa? «Perdermi in mezzo al deserto. In Oman, nel 2019, mi successe, ma non ero solo. Qui, nonostante la squadra di supporto, passerò ore e ore da solo e quindi la paura è maggiore ma, come dico sempre io, se hai un obiettivo, lui ha te. Difficilmente ti perderai, se credi a questo. Forse è così che ho scelto il minimalismo, nello sport come nella vita. Non serve molto per farcela». In realtà c'è un'altra cosa a cui Omar crede e che lo aiuta: il destino. Ci crede da quella volta in cui papà gli raccontò della sua guerra. «Me ne parlò solo una volta e si vedeva quanto soffriva. Una spia israeliana fece attaccare la postazione di mio padre: molti rimasero feriti, un suo compagno gli chiese dell'acqua e papà andò alla base a prendergliela. In quegli istanti la postazione venne rasa al suolo. Papà riuscì a tornare a casa a piedi con altri diciassette compagni. Si nascosero fra i corpi dei soldati uccisi e si sporcarono di sangue per non farsi riconoscere. Due israeliani si fermarono proprio sopra il suo corpo, uno gli tirò un calcio: “È morto anche questo”. E proseguirono. Papà mi dice sempre che bisogna credere nel destino, che quando ci succede qualcosa di brutto è solo perché ci aspetta qualcosa di meglio. Lui ha passato tre terremoti, un uragano, la guerra, il Covid ed ha ancora voglia di scoprire, di viaggiare, di conoscere. Noi diciamo che ha la pelle del coccodrillo del Nilo, tanto è forte. Forse è il caso di ascoltarlo. Forse è proprio perché ho lui davanti che riesco a credere nel destino».
La Colombia e la fuga: intervista a Simon Pellaud
4 Marzo 2021StorieSimon Pellaud,Androni
Il 15 ottobre 2020, la dodicesima tappa del Giro d'Italia parte e arriva a Cesenatico. Il cielo è plumbeo, fa freddo, in alcuni tratti pioviggina, i primi rigori dell'autunno si fanno sentire. Simon Pellaud, Androni Giocattoli Sidermec, è in fuga dal primo mattino, ad un certo punto alla sua mente ritorna la Colombia e il sapore del boccadillo, un gel zuccherino alla frutta. Ne cerca una bustina nelle tasche posteriori della maglia ma non c'è. Alla sera, al ritorno in hotel, visibilmente provato dal freddo, chiederà al suo massaggiatore di mettergliene diverse bustine in tasca: il giorno dopo, verso Monselice, tornerà a scattare.
«In quella fuga c'era un ragazzo colombiano dell'Astana. In un tratto tranquillo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto se gli mancasse la Colombia. Mi ha detto di sì, me lo ha detto in un modo particolare, mi ha chiamato “fratello”. Ho preso una di quelle bustine e gliel'ho passata: "Assaggia questa, ti sentirai a casa". Appena ha sentito quel sapore, ha fatto un sorriso a trentadue denti. La Colombia era tutta lì». Per Simon Pellaud l'avventura è la libertà di un viaggio ed il suo viaggio in libertà è il ciclismo. «Grazie al ciclismo ho imparato cinque lingue, sono stato in venti diverse nazioni, l'ultima è il Venezuela, ho conosciuto tante persone e ho imparato l'umiltà. Ho abitato in Svizzera, lì c'è tutto, di più, c'è il meglio di tutto: io sono andato via per andare a vivere in Colombia, in una casetta senza il gas, con una stufa e quel poco di acqua calda che serviva per lavarsi. In una casa con solo un tetto e poco altro». Eppure lì Pellaud è felice.
Ad essere felice, Simon aveva imparato qualche anno prima. «Correvo con la IAM Cycling ed avevo un futuro assicurato. Eppure terminavo le gare, arrivavo ventesimo, e sentivo che se quella mattina non avessi preso il via sarebbe stato lo stesso. Quando ho rescisso il contratto, sono stato diversi mesi senza lavoro, non dormivo la notte e mi era anche passata la fame». Simon Pellaud riparte con il Team illuminate, una squadra brasiliana che si sostiene grazie a una raccolta di fondi ed oggi racconta che da quel giorno per lui è iniziata un'altra vita. «In Colombia dicono che è merito “dell'aiuto de Dios”. Io questo non posso saperlo, io so che in quei mesi sono andato a vivere in montagna, lontano da tutto e da tutti, con accanto solo le persone che amavo. Stando da solo ho capito che potevo ripartire e diventare l'uomo che avrei voluto essere».
La parole chiave è una: fuga. «Ognuno di noi ha una chiave per diventare qualcuno. Io non sono un campione, difficilmente vincerò molte gare in vita mia, ma non è questo a spaventarmi. A me spaventa l'idea di essere anonimo, di restare fermo, di non fare nulla ed aspettare lo scorrere del tempo e con questo la fine della carriera. Per questo esco dal gruppo, mi faccio vedere, mi sento vivo. Magari vincerò una sola gara o forse neanche quella, ma esserci non sarà stato inutile».
Simon Pellaud sostiene che il bello della conoscenza sia il fatto che «puoi prendere qualunque cosa e farla tua, utilizzarla per la tua vita, per stare meglio, perché non c'è un diritto privato della conoscenza». Ma, per conoscere, è necessario uscire dalla propria galassia, anche temporaneamente, anche solo per un attimo. «Nessuno conoscerebbe bene il proprio pianeta se non lo vedesse dallo spazio, dall'esterno. Viaggiare è importante perché ti consente di vedere da fuori una realtà che altrimenti rischia di anestetizzarti». Pellaud se ne è accorto a Monselice, sì, proprio nel giorno in cui è sceso di sella mentre il gruppo lo riassorbiva e ha iniziato ad applaudire i suoi compagni.
«Il mio è stato istinto puro, non sapevo nemmeno che ci fosse una telecamera. Sono sceso di sella per permettere al gruppo di passare su una rampa molto ripida e ho applaudito perché mi è venuto spontaneo. Mi sono sentito come mi sentivo quindici anni fa quando i miei genitori mi portavano alle corse, con la stessa forma di entusiasmo. Quando sono tornato a pedalare ero staccato, sfinito e dovevo andare all'arrivo da solo. Non mi interessava, ero contento».
Foto: Luigi Sestili
Legion of Los Angeles
Words: Luca Mich
Voice: Luca Mich
Soundtrack: Luca Cianchetta
Sound design: Brand&Soda
È una domenica mattina a Southcentral LA, uno dei quartieri più duri dell’intera metropoli californiana al pari degli altrettanto poco ospitali Watts, famoso per essere stato teatro di una delle rivolte più violente all’interno delle proteste pro diritti civili degli afroamericani nel 1965 e Compton, quartiere nero per antonomasia. Si tratta di tre zone a maggioranza etnica afro-americana e latina, nella quale si trasferirono ad inizio ‘900 moltissime persone di colore in fuga dal Deep South degli Stati Uniti, dove le leggi razziali conosciute come leggi Jim Crow, impedivano di fatto alle minoranze di considerarsi davvero libere all’interno del proprio paese, con discriminazioni che li vedevano costretti a frequentate scuole, teatri e uffici diversi da quelli dei loro conterranei bianchi. Perché la legge al tempo, e in parte anche adesso purtroppo, era sì uguale per tutti, a patto di avere la pelle color latte. A questa prima migrazione ne seguirono altre verso Los Angeles che in pieno periodo bellico offriva posti di lavoro sicuri nell’industria alimentata da conflitto mondiale in atto. Dai primi anni ’40 al ’65, l’epoca delle rivolte, la popolazione afro-americana crebbe quindi dalle 36.000 alle oltre 400.000 unità. E nonostante l’approvazione del Civil Rights Act del 1964 voluto da Martin Luther King, che di fatto aboliva ogni tipo di segregazione negli Stati Uniti, alle minoranze migrate in città, fu più o meno ufficialmente proibito di affittare o comprare casa nei quartieri benestanti. Le banche avevano il diritto di rifiutarsi di concedere prestiti a persone di colore, per le quali la municipalità pensò bene di creare delle aree dedicate, con villette a schiera, staccionate e sfondi da cartolina, dove segregare a tutti gli effetti gli ospiti non desiderati, nel tentativo piuttosto riuscito di mantenere alto il valore delle proprietà immobiliari nelle aree più prestigiose della città e ghettizzarne altre.
È una domenica mattina ad LA dicevamo, e alcune strade sono sbarrate da inferriate e macchine della polizia che stavolta non hanno nulla di veramente minaccioso: stanno solo preparando il circuito di un tipo di gara su due ruote molto popolare da queste parti, le Criterium Race, circuiti molto brevi che i bikers, rigorosamente su bici velocissime a scatto fisso, devono percorrere a ripetizione alla velocità della luce, o quasi. Da questo parti dicono sia la versione ciclistica delle gare NASCAR, dove il pubblico si assiepa a ridosso delle curve, zeppe di protezioni in gomma piuma e balle di fieno, per assistere live alle curve in derapata più pazzesche che vi possa capitare di vedere in una gara su asfalto. Non a caso c’è chi paragona i riders agli american gladiators: all’interno di quella piccola arena fatta di curve a gomito e rettilinei da panico, si scatena un inferno a pedali nel quale l’atletismo e l’incoscienza nei giri finali, fanno spesso la differenza.
Alla partenza della gara ci sono diversi atleti in maglia a stelle e strisce, il massimo dell’orgoglio americano e sul petto riportano una scritta dai caratteri super-erositici: sono i membri della squadra che va sotto il nome di Los Angeles Legion. Sono Justin e Cory Williams, due fratelli nati proprio qui, tra le strade della città degli angeli, in quei quartieri dove la gente a stento prende l’autobus, figurasi andare in bicicletta, il mezzo più sicuro quaggiù per schivare una pallottola, è una macchina di proprietà, finché dura.
Nel 2003 la Marvel Comics diede alle stampe un albo controverso a titolo The Truth: tra le sue pagine gli autori narravano la storia fino a quel momento sconosciuta delle vere origini del primo Capitan America, che a quanto pare non fu il celebrato Steve Roger, ma un ragazzo di colore della periferia dell’impero. Cory e Justin Williams alla partenza della LA Criterium si presentano proprio così, e sotto quella tutina aderente con il logo ben in vista sul petto, nascondono proprio questo, una storia poco conosciuta ai più, dissonante per certi versi, ma che trova le sue origini in una passione per le due ruote trasmessa di padre in figli e portata avanti nonostante tutto, tra le trafficate strade di LA, dove le quattro ruote divorano anche le piste ciclabili.
Calman Williams, il padre dei due fratelli, nasce nel Belize e passa una vita sulle due ruote fino ad arrivare a giocarsi pure i Giochi Pan-Americani, prima di decidere di trasferirsi proprio ad LA, in cerca del sogno americano. Va da se che Cory e Justin accanto a mazze da baseball, guantoni e palle a spicchi, cominciano fin da subito ad avvicinarsi anche alle road bike, trascinati da un papà molto attento che insegna loro non tanto a pedalare, ma ad abbracciare le sofferenze delle piaghe da sellino, della schiena a pezzi dopo le 70 miglia di allenamento quotidiano e degli sforzi che devi fare per risparmiare se al posto dei fumetti di Captain America, vuoi comprarti le gomme nuove. Quello che ci crede da subito più dell’altro è Justin, che a 17 anni diventa già un professionista dando ogni goccia di sudore al suo team Trek-Livestrong, in 5 anni vissuti ad alta velocità. Con la squadra girerà gli States in lungo ed in largo arrivando anche a giocarsi gare importanti al di qua dell’Oceano, in Europa. La paga fa schifo però ed il fatto di essere l’unico afroamericano in squadra inizia ben presto a pesare tra battute a sfondo razziale, pubblico acido nei suoi confronti e diffidenza generalizzata. Justin torna in patria e lascia la squadra, per un periodo lascerà anche la sua passione in realtà, ma è grazie al fratello Cory che i due si fanno forza l’un l’altro e decidono di iscriversi in un nuovo Team di gare Criterium macinando da lì in poi una vittoria dopo l’altra. Nel 2016 Cory vince 8 gare consecutive ed è un botta e risposta continuo con il fratello per chi conquista più podi. Questi hanno il fuoco dentro, sono gli unici afroamericani della pista, sono cool, forti, mossi da qualcosa di ancora più profondo della passione: è orgoglio, è voglia di farcela, di mettersi sulla mappa. Sono superiori, in tutto.
Naturalmente non può passare inosservato e chi non riesce a batterli in gara, ci prova sul piano becero del pregiudizio e dell’insulto razziale. La squadra stessa non gli dà lo spazio che meritano mediaticamente e i continui riferimenti al colore della loro pelle iniziano a pesare. È tempo di fare le valige, di trovare una dimensione più adatta per esprimersi.
“People in the sport don’t want to acknowledge the fact you have to work 10 times harder if you are black” – la gente non realizza che nello sport devi lavorare 10 volte più duramente se sei nero – dice Justin con molto rammarico e aggiunge: “io e mio fratello non eravamo fatti per quel tipo di squadra, dove non c’è spazio per l’espressione individuale”.
Sono parole importanti che caricano di significato le imprese di due ragazzi che iniziano a sentirsi più di semplici atleti, hanno bisogno di una piattaforma per esprimersi, lo sport è perfetto, ma le condizioni, sottopagati e limitati dai pregiudizi che li vorrebbero praticare altri sport e che li rendono scomodi all’interno di una scena prettamente bianca, non sono quelle a cui vogliono sottostare.
Cory ci prova ad entrare in un altro team, ma ottiene stipendi da fame nonostante i risultati: 4500 dollari l’anno sono una cifra irrisoria per qualsiasi professionista a qualsiasi livello ma qui sanno addirittura di insulto, sanno di quei 40 acri (40 acres) promessi e poi negati con l’abolizione della schiavitù quando si parlava di riparazioni, sanno di mutui rifiutati, sanno di “disrispect” mancato rispetto per chi ha lavorato più degli altri per arrivare sin lì.
È Justin Williams allora ad avere la visione: forte dei suoi successi entra nel team Specialized Rocket Espresso da cui ottiene 18mila dollari che reinvestirà su di se per iscriversi da battitore libero, da indipendente racer, al circuito europeo di gare a scatto fisso. Nel giro di un anno i soldi non tardano ad arrivare e senza il filtro del team, tra sponsor privati e vittorie, fioccano assegni a sei cifre: ce n’è per togliere il fratello dalla strada, o meglio, per metterlo su una bici da strada che possa fruttare qualcosina di più. Nel 2019 Justin e Cory fondano la Legion of Los Angeles, la prima squadra su due ruote fondata da afroamericani. L’obiettivo, come lo si legge nel loro statement è favorire l’inclusione e aumentare la diversità nello sport professionistico a due ruote.
In breve tempo gli Williams, che, forse non a caso, ricordano nel cognome altre due sorelle che hanno cambiato per sempre lo stile e la storia di un altro sport in precedenza precluso agli afroamericani, il tennis ovviamente con Serena e Venus Williams, cambiano le regole del gioco.
L’inclusività diventa la prerogativa e la squadra si allarga ad altri componenti delle minoranze etniche di LA, partono i crowfunding per raccogliere le risorse per viaggi, hotel e scuderia, nascono camp e corsi per ragazzi poco abbienti. Ma la visione di Justin non finisce qui:
“se vuoi che uno sport sia praticato da tante persone, dice, devi renderlo visibile, dargli un’identità, farlo essere cool agli occhi della gente”. E la coolness, che nel caso degli afroamericani è intrisa di simboli, fisicità e orgoglio razziale, passa anche dal merchandising: le tutine sono in breve le più cool del pianeta, ti trasformano immediatamente in un super-eroe delle due ruote, quel Capitan America poco conosciuto che ora è diventato realtà.
“Voglio cercare di rendere lo sport più accessibile, voglio che le persone possano identificarsi in qualcosa, dice Justin, che possano dare un senso al salire su due ruote anche in una città dove le piste ciclabili sono molto più rare di un playground, voglio che le persone abbiano la possibilità di esprimere se stesse anche salendo su una sella, voglio essere più di un atleta per loro”.
Più di un atleta, dove l’abbiamo già sentita questa frase?
È un grido, una visione, una necessità, lo era Alì sul ring mentre gridava “I’m the coolest I am the greatest”, quando parlava non tanto di se ma di un’intero popolo. Lo era John Carlos che alzava il pugno guantato a Messico ’68, lo è Serena Williams che urla all’arbitro “Io non baro, piuttosto perdo”, lo è Kolin Kaepernick che punta il ginocchio a terra durante l’inno americano in segno di dissenso, lo è Lebron James che con “More Than an Athlete” ha ispirato persone come Justin e Cory ad andare oltre allo sport, a essere ambasciatori dell’orgoglio afro-americano.
E il bello è che non sono gli unici: qualche ora di aereo più a sud infatti, nella Bay Area, pedala con scopi ben più alti della semplice vittoria di una gara su strada, una ragazza che ha conosciuto il mondo delle due ruote in età abbastanza avanzata attorno ai 26 anni, ma che ne ha capito ben presto le potenzialità non solo sportive ma anche sociali e comunicative. Eppure all’inizio ha iniziato a pedalare semplicemente per risparmiare qualche soldo, evitare di prendere continuamente i mezzi di trasporto nel tragitto casa-lavoro, quando faceva l’insegnante. Oggi vince le 60 miglia.
Si chiama Ayesha McGowan e da qualche anno è diventata la prima road cyclist professionista afro-americana. Ayesha nasce in Georgia, Atlanta, stato cantato da Ray Charles nell’omonima canzone e che è oggi una delle città americane più black delle federazione. In giovane età si è però trasferita a Brooklyn, quartiere di oltre 4 milioni di abitanti, reso celebre al cinema da Spike Lee che, guarda caso, è spesso effigiato su magliette e poster nei panni del suo personaggio più iconico, quel Mars Blackmoon che tra gli altri accessori da newyorkers indossa un leggendario cappellino proprio da ciclista, con visiera perennemente alzata e scrittone Brooklyn in bella vista. Questo è il quartiere che ha permesso ad Ayesha di esprimersi al massimo: “qui ognuno vive la sua vita all’interno di un caos organizzato che mi ricorda molto quello che ho in testa – dice Ayesha – New York è una città dove puoi essere te stessa, a nessuno interessa realmente come ti vesti o che sport pratichi, puoi salire in sella alla tua bici e confonderti tra la folla anche se sei diversa da tutti quelli che incontri. Ed è a mani basse la città dove mi piace pedalare di più, ha quell’urban feeling che dà groove ad ogni pedalata. La California è il paradiso del ciclismo ma le strade di New York, beh, sono semplicemente le strade di New York.”
C’è questa cosa negli atleti afroamericani che li rende speciali e la storia di Ayesha ne è l’ennesima testimonianza: questi non palleggiano, non lanciano, non cantano, non suonano, non sudano, non pedalano mai solo per se stessi. In ogni gesto c’è rivalsa ed orgoglio, c’è una comunità, c’è il concetto del rappresentare che alcune forme d’arte come le 4 discipline dell’hiphop per esempio, ed alcuni sport più di altri, hanno saputo elevare a messaggio prima comunitario, poi universale. È questo senso di portare in alto una cultura, una comunità e la consapevolezza di volerlo fare, che rende speciale le storie dei discendenti degli schiavi afroamericani e che viene difficilmente compreso da uno sguardo superficiale. Un jab di Alì, non è un pugno normale. Una schiacciata di Bill Russell, rappresenta molto più del gesto atletico in se. Nella pedalata di Ayesha c’è molto più di una spinta poderosa sul pedale: c’è la strada fatta per arrivare sino a lì, per emergere e poter contare, per poter fare ciò che gli altri fanno normalmente da secoli, per scacciare le differenze e l’indifferenza.
“Ho un obiettivo molto più grande della vittoria in gara – dice Ayesha – so di non essere la più forte e probabilmente mai lo sarò, ma quel che posso fare come prima donna ciclista professionista afroamericana, è tracciare la strada per chi invece potrà davvero essere la migliore di tutte.”
È una bella responsabilità da portare, ma è un peso che in sella diviene lieve quando si lascia sfrecciare sulle strade della California o della Georgia dove è tornata di recente a vivere e dalla quale cura oggi un blog personale, attraverso cui dà voce alle altre cyclist che iniziano grazie al suo esempio, ad emergere sulla scena.
Il blog si chiama “A quick brown fox” ed è uno spazio in cui Ayesha si esprime con frequenza anche su temi sociali e di integrazione. Il nome significa letteralmente “la veloce volpe marrone” ma è anche un chiaro riferimento a Foxy Brown, uno dei personaggi femminili più iconici della cinematografia della Blackxploitation anni ’70 interpretata dalla splendida Pam Grier e citata dal campione di citazionismo Quentin Tarantino nel suo Jackie Brown nel 97.
C’è però un’altra curiosità degna di nota: si perché c’è un’espressione molto popolare tra gli artisti i designer e grafici illustratori di oggi che recita così: “a quick brown fox jump over the lazy dog” il suo significato è facilmente intuibile ma non è poi così importante. Il fatto è che quella frase contiene tutte le consonanti, alcune anche doppie, dell’alfabeto inglese ed è quindi usata comunemente per realizzare le proposte di font grafici. Evidentemente la McGowan lascia poco al caso.
Ed è proprio grazie alla popolarità di questa ragazza ed al sua attività di informazione che è riaffiorata anche un’altra importante storia di ciclismo afroamericano. Un’importante storia di ciclismo e basta verrebbe da dire.
7 dicembre 1896, Madison Square Garden, New York City, 31 anni esatti dopo l’abolizione ufficiale della schiavitù in seguito alla guerra di secessione. Sull’ovale predisposto all’interno del palazzetto dello sport più famoso d’America, va in scena una gara che ridefinisce il concetto di endurance: 28 ciclisti si sfidano a chi compie più giri in un arco temporale di 6 giorni consecutivi. 6 giorni…
È un gioco al massacro, le ore di sonno sono ridotte al minimo: mentre ti concedi di dormire, gli altri, pedalano. Dopo un paio di giorni arrivano le prime cadute, i ritiri, gli infortuni. Arriveranno in 14 al traguardo, la metà esatta. Tra loro, tutti ragazzi bianchi di buona famiglia, compare un certo Marshall Taylor: è lui il primo ciclista di colore di cui la storia abbia memoria. Il pubblico lo fissa con sospetto, tra gli spalti non c’è nessuno come lui, nemmeno la famiglia, ammesso che ce l’abbia. Di lui si saprà pochissimo ma passerà alla storia come un vero pioniere del ciclismo su pista.
Al termine dei 6 giorni di endurance completerà più di 7000 giri su quell’ovale al Madison, pari a 1732 miglia: all’incirca la distanza che separa New York City dalla città di Houston e nonostante un grave infortunio che gli consente di qualificarsi solo ottavo in classifica generale, correrà per molti anni ancora infrangendo ben 7 record mondiali di ciclismo su strada che resisteranno per diversi decenni. Una storia incredibile, che ha i contorni della leggenda e che oggi rivive attraverso un video con immagini dell’epoca prodotto proprio dalla nostra Brown Fox.
Ma non finisce qui: il nome di Marshall Taylor detto “Major” è oggi anche quello di un importante team di road bike, che proprio come la squadra dei fratelli Williams a Los Angeles, ha l’obiettivo di integrare sempre più la black community nel mondo del ciclismo.
“È grazie a Taylor se oggi posso fare questo sport, pur tra tante discriminazioni che credo nascano non tanto da un atteggiamento consapevole, ma dal fatto che il ciclismo è sempre stato mono-colore: nessuno si è mai chiesto il perché, è sempre stato così e basta” racconta Ayesa. “Taylor era il pioniere che ha tracciato la via per quelli come me, ed io voglio essere come lui in quanto prima donna: voglio che molte altre donne reputino semplicemente normale correre in bicicletta ed essere chi vogliono essere, senza pregiudizio, senza che nessuno si permetta di dire che un ciclista non dovrebbe avere quell’aspetto”.
Ora con qualche pedalata decisa torniamo a LA, a casa dei fratelli Williams.
È ancora una domenica mattina a SouthCentral, i piccoli Cory e Justin con l’aiuto di papà, tolgono i ruotini ed iniziano a cadere.
Qualche anno prima a Lousville, un certo Cassius Clay riceve per Natale una bicicletta Schwinn rossa e bianca ed inizia a pedalare.
Qualcuno però gliela ruba molto presto, e quello che sarà poi conosciuto da tutti come Muhammad Alì, inizia a tirare di di boxe, perché quel ladro lì, se lo ribecca vuole stenderlo a suon di pugni.
Ma questa è un’altra storia, c’entrano sempre un sellino, un manubrio e due ruote consumate sull’asfalto. Eppure no, per Cory, Justin, Taylor, Ayesha e sì, persino per Clay, non sarà mai e poi mai solo una questione di bicicletta.
Deserto di ghiaccio
2 Marzo 2021StorieJonas Vingegaard,Danimarca,Jumbo-Visma
Questo Jonas Vingegaard va davvero forte in salita. Magrolino, non del tipo troppo tisico di quelli che ti danno l’impressione che se mollano la bici potrebbero volare via da un momento all’altro, ma con quella magrezza da scalatore. Faccia pulita da sbarbato, con occhi che sembrano ogni volta dire “ma che ci faccio qui?”. Sia chiaro, che sia bravetto non ce se ne accorge di certo su una salita – che poi non è nemmeno una Salita è più una “salita” – come quella che l’altro giorno portava verso i 1489 metri di Jebel Jais all’UAE Tour. Una ventina di chilometri con strada larghissima, lunghissima, liscissima; un asfalto che sembra una pista da ballo o forse persino uno di quei posti che tanto piacciono a lui, come quando si fotografava il giorno della partenza da casa con occhi che non riuscivano a nascondere un velo di malinconia, pronto per la prima gara dell’anno. “Sto per lasciare la mia bellissima casa ghiacciata per la prima corsa della stagione” scriveva, immortalandosi con sullo sfondo uno specchio d’acqua completamente congelato.
Ora, è vero che l’altro giorno sembrava un po’ spaesato sulle ultime “rampe” – doveroso continuare a mettere le virgolette – , ma quando arrivi dalla Danimarca e ti ritrovi a vincere in mezzo al deserto è innegabile che faccia un certo effetto. Anche se poi, altro inciso, i corridori sono viaggiatori, avventurieri, marinai; salpano di mare in mare o meno romanticamente vengono sballottati di scalo in scalo, quindi chi più di loro è abituato a conoscere posti completamente diversi tra di loro? Ma torniamo al senso della strada: guardate chi si mette dietro, Vingegaard, per la sua seconda vittoria in carriera: Pogačar, Adam Yates, Higuita (il ciclista), Almeida (idem), Kuss – che potrebbe iniziare a farsi venire i primi complessi, a furia di tirare per gli altri non riesce ad avere spazio nemmeno quando dovrebbe essere lui il capitano.
Vingegaard riprende Lutsenko a poche centinaia di metri dall’arrivo ( superato da Vingegaard, gli occhi di Lutsenko leggermente a mandorla si sono fatti ancora più aspri) stacca tutti e vince. Al Tour de Pologne di due anni fa, prima vittoria in carriera, dietro di lui: Sivakov, Hindley, ancora Higuita il ciclista, Majka. Insomma niente male.
Già, questo Jonas Vingegaard non è davvero niente male. Che va forte in salita lo aveva già fatto vedere lo scorso anno sull’Angliru alla Vuelta; il gruppo faticò a stargli dietro, c’è una foto in cui si vedono i suoi occhi, adesso spiritati più che spaesati, con Kuss (di nuovo lui) che per stargli a ruota si esibisce in smorfie facciali e fatica extra. A ruota del danese (di Hillerslev, nato nel 1996) rimasero una decina di corridori, i migliori in classifica. «Potevo andare anche più forte in realtà. Avevo gambe piene e ancora gas. Avessi fatto il ritmo che mi sentivo di fare probabilmente in gruppo sarebbero rimasti la metà. Ma sapete, dall’ammiraglia mi han detto di tenere quell’andatura» dirà a fine corsa.
Ama il gelato – e a chi non piace – il manzo alla Stroganoff con purè di patate e soprattutto il Badminton. Che per un danese è come per noi seguire il calcio. In Danimarca è uno sport popolarissimo, tanto che spesso si trovano a dominare le principali manifestazioni internazionali o comunque ad andarci vicino. «Non avessi fatto il ciclista, avrei fatto Badminton, ma probabilmente quando smetterò di pedalare, mi ritroverò con una racchetta in mano» così si racconta. E se deve sognare? Amstel nel 2021, magari come leader della Jumbo-Visma, più avanti capitano nei Grandi Giri mentre impara il mestiere da Roglič che definisce “bravo e simpatico” e poi vorrebbe tornare ad Anfield Road per vedere il “suo” Liverpool. Magari quel giorno avrà una faccia meno spaesata e non ci spiacerebbe nemmeno qualche chiletto in più.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Verso Tokyo e oltre: intervista a Dino Salvoldi
25 Febbraio 2021ApprofondimentiCiclismo su Pista,Salvoldi,Tokyo 2020
L’esplosione della pandemia da Sars-Cov2, la scorsa primavera, ha scombussolato anche i piani della nazionale italiana femminile su pista, il tutto alla vigilia delle Olimpiadi di Tokyo, poi slittate al 2021. Non appena è stato possibile tornare ad allenarsi a Montichiari, Dino Salvoldi, C.T. della nazionale, ed il suo staff, hanno avuto subito chiara la necessità di variare l’intensità degli allenamenti. Ed è proprio da qui che siamo partiti, quando, durante il raduno del 24 febbraio al velodromo di Montichiari, il C.T. ha approfondito con noi lo stato dell’arte della pista femminile, in questa stagione divenuta per cause di forza maggiore, anno olimpico. «In questo periodo tutto ciò che si programma deve tenere presente un calendario in continua modificazione. Se è vero che l’Olimpiade è il traguardo finale, è altrettanto vero che gli step per raggiungerla nella miglior condizione possibile passano tanto attraverso gli allenamenti quanto attraverso le competizioni ed entrambi sono essenziali per mantenere alto sia il livello tecnico-tattico che quello più prettamente prestazionale».
Per quanto concerne il primo punto, Salvoldi si ritiene soddisfatto degli accordi raggiunti con le squadre delle ragazze: durante la settimana i team danno piena disponibilità alla federazione per i raduni, di durata più breve, e durante il fine settimana la federazione si impegna a favorire lo svolgimento delle gare con i club di appartenenza.
«Si tratta di un fattore storico, nessuna invidia per l’erba del vicino ma le situazioni sono differenti. Nazioni come Stati Uniti, Canada e Australia, le potenze della pista, hanno una squadra che lavora tutto l’anno insieme e che dà priorità alla pista. Da noi questo non è possibile in quanto la prevalenza della strada si fa sentire. Bisogna accettare questa situazione e lavorare con più intensità dove necessario. Soprattutto, dopo che durante il primo lockdown, con l’uso e talvolta l’abuso di cicloergometri e rulli si sono verificati importanti squilibri fra chi si era allenato troppo e chi si era allenato troppo poco». Questa intensità Salvoldi la traduce tanto in un aumento del numero di raduni, quanto in una spiccata attenzione ai dettagli tecnici che possa, almeno momentaneamente, supplire al secondo punto, ovvero al calendario scarno. «Stiamo lavorando sul quartetto, con allenamenti di squadra che potenzino la resistenza. Nel mentre simuliamo anche frazioni di gara, per valutare la forma fisica, compatibilmente con il periodo dell’anno in cui ci troviamo. Dall’altra parte, invece, ci concentriamo sulle qualità aerobiche e sul gesto tattico. La nostra squadra ha un livello molto elevato e la simulazione di una gara internazionale in velodromo non si disgiunge molto dalla realtà». Il calendario ha già fatto segnare i primi rinvii: i campionati europei su pista previsti per febbraio saranno a giugno, mentre le prove di Nation Cup previste, una al mese, da aprile a giugno sono ancora incerte. In più mancano tutte le gare di Madison che si sarebbero dovute tenere in Europa e che subiscono cancellazioni quasi quotidianamente.
«Questo per noi è un grosso problema. Il talento qui abbonda ed i risultati parlano per noi, a scarseggiare è l’esperienza. Si tratta di un gruppo molto giovane ed in questi casi non c’è nulla come la specificità e la ripetitività di ogni singolo meccanismo per imparare. Più un’atleta è abituata ad un frangente di gara, più riesce a economizzare sul gesto tecnico, a risparmiare energie e nel contempo ad acquisire quell’occhio e quell’istinto che al cospetto delle eccellenze mondiali fanno la differenza. L’esperienza si acquisisce con lo scorrere del tempo e con gli errori, bisogna solo aspettare e non allentare l’attenzione». Nonostante questo, Dino Salvoldi lo dice in maniera chiara e schietta: non sono ammessi alibi ed è necessario farsi trovare pronti a qualunque situazione. «Non siamo gli unici ad essere in questa condizione, la pandemia ha colpito tutti. Per questo bisogna continuare a credere nel lavoro quotidiano insieme, dandosi dei traguardi a breve e a lungo termine. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno e credo tutti abbiano questo dovere. Per assurdo questo rinvio delle Olimpiadi potrebbe non essere un male: in questo anno il gruppo si è ampliato, sono arrivate ragazze nuove che stanno crescendo con noi. Per fare dei nomi: atlete come Chiara Consonni e Silvia Zanardi, che un anno fa non avrebbero avuto alcuna possibilità di convocazione, oggi sono fra le papabili azzurre olimpiche».
Questo, però, continua Salvoldi non deve indurre in un errore comunque grave. «Quando mi chiedono cosa mi aspetto dalla Olimpiadi di Tokyo rispondo sempre che per noi devono essere un passaggio chiave in vista di Parigi. Non sappiamo neanche noi cosa possiamo fare esattamente. Nel quartetto credo che si sia indietro rispetto ad altre nazioni. Per quanto concerne invece Madison e Omnium il livello è già pienamente soddisfacente. Il punto cruciale sono le altre discipline veloci che al momento, stante il regolamento in vigore, non ci permettono di avere atlete al via. Questi allenamenti servono anche a potenziare quegli aspetti e a far vedere quanto possiamo dare. La giovane età si fa sentire anche in questo frangente». Il gruppo ha un’età media molto bassa, basti pensare che la ragazza con più esperienza è Maria Giulia Confalonieri che ha appena ventotto anni, ma si conosce e lavora assieme da molto tempo, per Salvoldi questo è un punto a favore delle azzurre.
«L’età similare consente a queste ragazze di attraversare fasi di vita quasi identiche, per questo si capiscono in pista ma, ancor prima, condividono aspetti di vita quotidiana. In ambito internazionale questa conoscenza agevola molto il lavoro». Non solo la conoscenza è affinata fra le ragazze stesse, ma anche con Salvoldi, ormai, si è stabilito un rapporto professionale consolidato. «Alcune di loro le conosco da quando avevano quindici anni. Le squadre cambiano, le compagne cambiano, la nazionale è sempre rimasta un punto fermo. Siamo cambiati assieme e forse per questo ci capiamo meglio. La chiave di tutto risiede nell’estrema franchezza nel dire le cose». Dino Salvoldi non si nasconde, il momento che ancora oggi lo spaventa maggiormente è quello delle convocazioni, le notti prima dell’ufficializzazione delle scelte il sonno fatica a venire. «Le decisioni le comunico singolarmente e cerco di apportare motivazioni che possano farle comprendere se non accettare. Certe volte ci si muove su un filo sottilissimo e la differenza è fatta da sensazioni e possibili svolgimenti di gara, per cui è anche più difficile spiegare. La consapevolezza è indispensabile: la ragazza che non viene scelta sa che la decisione è stata presa secondo criteri di correttezza ma sa anche che in qualsiasi altra nazionale non solo sarebbe stata scelta, ma probabilmente anche medagliata. L’esclusione non si accetta mai pienamente, ma così si rende sopportabile». Il C.T. spiega sempre alle atlete che l’esclusione non è personale o irrimediabile, riguarda solo l’appuntamento specifico. «Cerco di convincerle a focalizzarsi su altri traguardi e le sfido a farmi cambiare idea».
C’è un’altra parola chiave che Dino Salvoldi utilizza in vista delle Olimpiadi: rischio accettato. «Per i discorsi fatti sino ad ora, si potrebbe essere indotti a credere che, visto il livello alto, saranno sempre scelte le migliori in assoluto. Se fosse così, correrebbero sempre le stesse atlete. Ogni commissario tecnico sa che, se vuole far crescere la squadra, ha il dovere di correre alcuni rischi calcolati per permettere a tutte le atlete di gareggiare. Altrimenti si potenziano solo i risultati delle eccellenze e non si aiutano le altre a migliorare. Dobbiamo anche pensare che per queste ragazze la nazionale vuol dire visibilità ed i successi ottenuti con la nazionale sono quelli che consentono i maggiori salti di livello anche nelle squadre di club. Se avranno pazienza e continueranno a migliorare, tutte queste atlete sono destinate a grandi traguardi».
In questa comunicazione, l’esperienza è la base. «Io vengo dagli anni di Antonella Bellutti, un’atleta straordinaria, con numeri assurdi. Per questo, almeno all’inizio, ero portato a scegliere molto sulla base dei numeri. Negli anni ho capito che quei tempi non erano più replicabili e che le scelte avrebbero dovuto sempre prendere in considerazione il lato umano e motivazionale. Ci sono caratteristiche caratteriali personali simili in ragazze e ragazzi. Poi ci sono caratteristiche che pertengono specificamente alla sensibilità femminile: gli errori vanno comunicati con maggiore tatto, con vicinanza e soprattutto con un linguaggio diverso, altrimenti i danni sono irreparabili». Salvoldi dà un rapido sguardo alle ragazze che nel frattempo si sono preparate per continuare l’allenamento, ci saluta, si alza, va al tavolo predisposto al centro del velodromo ed inizia a spiegare la prossima fase della preparazione: venerdì 23 luglio 2021, il giorno di inizio dell’Olimpiade, si avvicina sempre più e non c’è tempo da perdere.
Foto: Paolo Penni Martelli
La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli
22 Febbraio 2021RitrattiMarta Cavalli,FDJ - Nouvelle Aquitaine - Futuroscope
Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».
Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».
A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».
Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».
Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».
Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».
Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».
Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli
Un giorno sul lettino dei massaggi
20 Febbraio 2021StorieBardiani
Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.
«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».
De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.
«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».
Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».
Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».
Foto: Paolo Penni Martelli
Ma un Giro d'Italia, quando lo vinceremo di nuovo?
19 Febbraio 2021Corse a tappe,Approfondimenti,Tour de France,Giro d'Italia,Nibali,PozzovivoGrandi Giri
Per ovvi motivi il 2020 è stato un anno differente dal solito, ma per quanto riguarda il valore del ciclismo italiano nei Grandi Giri, è proseguita la costante tendenza degli ultimi anni che oscilla verso il basso. Dato che la narrazione ciclistica dalle nostre parti ruota perlopiù attorno ai risultati nelle grandi corse a tappe, abbiamo deciso di prendere in esame il movimento italiano nella sua massima espressione agonistica proprio in virtù di quello che è stato ottenuto nelle gare di tre settimane.
È vero: le grandi classiche o i mondiali, le vittorie nei traguardi parziali o nelle volate, hanno fascino e importanza, ma la tradizione vuole che ci si scaldi principalmente per le imprese in maglia gialla di Nibali, per gli scatti in salita di Pantani o Chiappucci, per la maglia rosa di Gianni Bugno, senza nulla togliere ai buoni risultati raccolti negli anni nelle altre corse. E non è solo una questione di tradizione, è anche il termometro dell’espressione di una scuola, quella del ciclismo italiano, che fino a qualche anno fa esprimeva diversi corridori di valore assoluto e che ora per vari motivi si è vista superare da altre nazioni.
Giro d’Italia: cartina tornasole del movimento
Nella Corsa Rosa della passata stagione è arrivato il peggior risultato di sempre per i corridori italiani in classifica generale con il settimo posto di Nibali – tra i primi dieci anche Masnada, nono. Oltretutto è stata una corsa decimata prima dalle assenze e poi, strada facendo, dai ritiri di alcuni possibili protagonisti.
Mai, prima di allora, il migliore italiano in classifica si era trovato così in basso. E non va dimenticato come il risultato peggiore, prima di quello arrivato nel 2020, fosse stato il quinto posto di Pozzovivo nel 2018: due risultati intervallati dal podio del solito Nibali nel 2019, unico italiano nei dieci in quell’edizione: alle sue spalle il migliore azzurro fu Formolo, quindicesimo. Se ci spostiamo ancora di due anni: nel 2016 vinse Nibali, ma il migliore dietro il siciliano fu Visconti, tredicesimo, risultato acquisito principalmente grazie alle fughe.
Usando la “corsa di casa” come cartina tornasole del ciclismo italiano, non possiamo derubricare il cammino dell’ultima stagione come un’annata difficile o un incidente di percorso; si tratta più di una tendenza in voga ormai da tempo e con le sue eccezioni, vedi il 2017. Quell’anno, oltre al podio di Nibali, terzo, interessanti furono il sesto di Pozzovivo e il decimo di Formolo, in un’edizione di buon livello, in quanto a concorrenza internazionale, di sicuro tra le migliori degli ultimi vent’anni di Corsa Rosa.
Nelle altre occasioni in cui il ciclismo italiano non metteva nessun suo rappresentante sul podio si era riuscito a piazzarlo a ridosso: quarto Scarponi nel 2012, stessi risultati per Chiappucci nel 1995 e Giupponi nel 1988. Andò peggio, come nel 2018, nel 1987: quinto Giupponi, ma subito alle sue spalle Giovannetti, sesto.
E per trovare un risultato simile bisogna scavare negli annali e scorrere indietro fino al 1972: ancora nessun italiano sul podio, né ai piedi. Il migliore? Panizza, quinto, nel Giro dominato da Merckx. Quella però fu la prima volta in assoluto senza italiani sul podio dopo ben cinquantaquattro edizioni. Per l’epoca non fu che un’eccezione. Il biennio ’87-’88, invece, resta la prima e unica volta di due Giri consecutivi senza un rappresentante del ciclismo italiano tra i primi tre – l’impressione è che, se potessimo osservare il futuro prossimo nella sfera di cristallo, un destino simile si potrebbe prefigurare per il biennio 2020-2021, salvo exploit al momento difficilmente prevedibili.
Nei due Giri del 1987 e del 1988, nonostante le indubbie qualità di Giupponi, che dopo i due quarti posti sarà secondo nel 1989, si viveva un momento di transizione. Si era pressoché chiusa l’epoca di Moser e Saronni (un po’ prima quella di Battaglin e di uno dei più grandi incompiuti del nostro ciclismo, Baronchelli) e si stava per aprire quella di Bugno, Chiappucci e Pantani – senza dimenticare Gotti che vinse due Giri in chiusura di secolo – per poi arrivare velocemente negli anni duemila ai successi nella Corsa Rosa di Garzelli, Cunego, Simoni, Di Luca, Savoldelli e Basso.
Proprio oggi, come a fine anni ’80, stiamo invece vivendo un cambio generazionale, anche se il mondo ciclistico è decisamente mutato e non solo dal punto di vista tecnologico. Muta la sua geografia e il peso specifico del movimento italiano, e oggi appare più difficile trovare da subito la svolta come avvenne negli anni ’90, dove, senza addentrarci in altri – spinosi – argomenti, l’Italia del pedale conobbe alcune delle vittorie più memorabili della propria storia.
Anni duemila: un contesto particolare
Nelle edizioni degli anni duemila del Giro, gli italiani vincevano, dominavano, ma i loro avversari non rappresentavano certo l’élite del ciclismo internazionale – per usare un eufemismo. Spesso gli sconfitti erano passisti dal profilo non di primissimo piano per una corsa a tappe, vedi Honchar, Hamilton o Gutierrez, oppure erano giovani speranze come nel caso di Popovych o Andy Schleck. I vincitori italiani di quelle edizioni erano corridori di grande spessore, non lo mettiamo in dubbio, ma inseriti in un contesto sempre più tourcentrico e dove il Giro veniva perlopiù relegato a gara di secondo piano – rispetto al Tour – e il meglio del ciclismo dei Grandi Giri si dava appuntamento fisso oltralpe un mesetto più tardi. E difatti i corridori italiani facevano incetta di podi e vittorie “tra le mura amiche” salvo poi essere un piatto poco più sostanzioso di un contorno – all’infuori di Basso – in Francia.
E in Francia Savoldelli vinse una tappa (nel 2005) e corse persino come gregario di Armstrong, ottenendo un venticinquesimo posto come risultato migliore, mentre Simoni rimbalzò tutte le volte che provò a testarsi al Tour, salvo conquistare un prestigioso successo di tappa nel 2003. Il suo miglior risultato in classifica fu il diciassettesimo posto l’anno successivo.
Garzelli non fece mai meglio di un quattordicesimo posto nel 2001, invece Cunego mostrò nella Grande Boucle solo sprazzi del suo enorme talento: undicesimo nel 2006 quando conquistò la maglia bianca al termine di una lotta serrata con il carneade tedesco Fothen, mentre nel 2011 arrivò sesto al termine di una corsa di grande livello e che all’epoca veniva persino criticata e sottovalutata e che oggi, visti i risultati dei suoi eredi, si arriva a rimpiangere.
Infine, per restare ai vincitori del Giro d’Italia degli anni 2000: Di Luca partecipò a due Tour e si ritirò entrambe le volte, ma per caratteristiche l’abruzzese, discorso doping a parte, non era del tutto adatto alle corse a tappe e si reinventò uomo da tre settimane solo in un secondo momento.
E arrivarono così la bellezza di undici successi consecutivi al Giro, dal ’97 di Gotti al 2007 di Di Luca, fino al 2008 quando sulle strade italiane si presentò, per vincere, uno dei più forti corridori in assoluto della storia recente: Alberto Contador, che si ripeté poi nel 2011 – successo poi revocato – e nel 2015. Mentre resta emblematico e spartiacque dei Giri d’Italia successivi, quello del 2012. Ci fu un podio tutto straniero ma occupato per due terzi da corridori che mai più avrebbero ottenuto un risultato simile e né lo avevano sfiorato prima: Hesjedal (primo) e De Gendt (terzo). Spartiacque perché fu un Giro di non eccelso livello dal punto di vista della partecipazione, però, a differenza di quello che succedeva qualche anno prima, l’Italia non riuscì a vincere, né a piazzare un corridore sul podio nonostante la presenza dei maggiori esponenti del nostro ciclismo delle corse a tappe di quegli anni: Scarponi, Basso, Cunego e Pozzovivo – pur se tutti e quattro in momenti differenti della loro parabola. Tutti i migliori italiani presenti tranne Nibali, che da par suo ottenne il suo primo podio al Tour. Si affacciarono a quel Giro 2012 corridori all’epoca più o meno giovani e che potevano rappresentare nell’immaginario il futuro per le corse a tappe: Brambilla che chiuse tredicesimo e Caruso ventiquattresimo. Cambieranno, però, gli obiettivi, i risultati e i ruoli in carriera e nessuno di loro sarà mai capace di lottare non solo per la maglia rosa, ma nemmeno per un posto vicino, trasformandosi in corridori con altre caratteristiche e prospettive.
Nel decennio appena trascorso (2011-2020) un solo corridore ha conquistato a tutti gli effetti la maglia rosa finale, Nibali, vincitore nel 2013 e nel 2016. E a rendere ulteriormente pesante lo storico degli italiani ecco che solo altri due atleti negli ultimi anni sono riusciti a salire sul podio oltre al siciliano: Scarponi nel 2011 – tempo dopo gli fu attribuito il successo di quel Giro per la squalifica di Contador – e Aru nel 2014 e nel 2015.
Ed è pesante proprio il confronto tra i primi due decenni degli anni 2000. Tra il 2001 e il 2010 il ciclismo italiano ha portato a casa otto Giri su dieci, lasciando per strada solo quelli del 2008 e del 2009 con 19 podi, ottenuti da 12 corridori diversi, su 30 disponibili. Dal 2011 al 2020 invece tre successi se vogliamo considerare anche quello assegnato a tavolino a Scarponi e 8 podi, ottenuti da 3 corridori, su 30. È vero che in questi anni è aumentata la concorrenza straniera, ma allo stesso tempo è diminuita la potenza di fuoco di quella italiana. Ed è emblematico in questo il Giro del 2020, dove, a un parterre non esagerato per la lotta al podio, l’Italia non è riuscita a opporre alcuna controparte.
Tour e Vuelta
Se volessimo invece in breve considerare anche le altre due corse a tappe, si parla, anche a livello storico, di cifre assolutamente differenti, come se trattassimo un altro tipo di esercizio: dal ’65 a oggi sono tre le vittorie finali al Tour con Gimondi, Pantani e Nibali, e sedici podi con lo stesso Gimondi, Balmamion, Motta, Bugno, Chiappucci, e ancora Pantani, Basso e Nibali, mentre alla Vuelta i successi sono sei in tutta la storia, con quelli ottenuti negli anni 2010 da Nibali e Aru. E proprio per questo motivo, per chiarire meglio le difficoltà, occorre principalmente parlare della corsa di casa, quella che più di ogni altra riscalda il sentimento popolare italiano.
Carta d’identità e faticoso cambio generazionale
Fatti un po’ di numeri facciamo i nomi. Intanto identifichiamo subito nell’età avanzata dei protagonisti uno dei problemi che affronteremo anche in questo 2021 e poi successivamente nel 2022, salvo l’improvvisa esplosione di qualche interessante talento – che per inciso c’è. Nibali compirà 37 anni a novembre, Pozzovivo 39, eppure sono loro due i corridori che hanno ottenuto i migliori risultati nelle ultime stagioni. Pozzovivo, oltretutto, con una serie di infortuni anche abbastanza gravi che ne hanno condizionato il rendimento.
Gli altri corridori che andremo a nominare, per motivi diversi, non danno garanzie per un successo finale, per un podio o qualcosa di molto vicino ad esso. Eppure sono quelli che nell’ultima stagione hanno ottenuto i risultati migliori alle spalle del siciliano della Trek-Segafredo. Sono tutti professionisti di caratura importante, non c’è dubbio, ma pare difficile immaginarli a raccogliere l’eredità del corridore messinese.
E i perché vanno ricercati non solo nell’elevata competizione che anno dopo anno si sta facendo sempre più serrata e che coinvolge elementi di diverse nazioni, ma anche nel ruolo che i corridori italiani ricoprono all’interno dei propri team, e che a lungo andare ne condizionano la possibilità di potersi esprimere per la vittoria, modificandone le prospettive.
È il caso di Damiano Caruso, corridore di talento, ma da sempre votato alla causa altrui. Diciamocelo francamente: un conto è essere abituati a lottare per un successo o per un podio, oppure crescere per gradi con l’obiettivo di svettare poi nelle parti alte della classifica; un altro discorso è passare una carriera compiendo grandi sforzi in aiuto ai propri capitani e poi, nel momento della disputa decisiva, sfilarsi andando del proprio passo al traguardo. L’abitudine al successo, facendo il gregario, manca.
Il siciliano, classe ’87, ha fatto le sue scelte di carriera, più che opportune, ovvero mettere le sue grandi qualità a disposizione dei propri capitani e nonostante tutto ha raccolto risultati di prestigio. L’ultimo in ordine di tempo è forse il più interessante: 10° al Tour de France 2020, sebbene esemplare nel suo lavoro in appoggio al capitano Landa. Nonostante la sua affidabilità, tuttavia è difficile immaginarcelo capitano da un giorno all’altro e pretendente al podio da qui alle prossime stagioni. Certo manca la controprova, ma cosa sarebbe potuto diventare Caruso se si fosse messo in proprio? Non lo sapremo mai.
C’è poi Fausto Masnada: il secondo migliore italiano in un Grande Giro nel 2020. È un classe ’93, ha una carriera davanti, e il Giro di pochi mesi fa è stata la sua prima vera prova con ambizioni di media classifica. Se a grinta Masnada non è secondo nessuno, il bergamasco pare voglia ripercorrere le orme di Caruso. «Mi rivedo molto in Damiano Caruso» racconta lui stesso ai microfoni di Giada Gambino su Bici.pro «Credo sarà proprio questo il mio ruolo nei prossimi anni».
Masnada è un attaccante nato, come Caruso si difende bene in salita, ma non ai livelli dei migliori in assoluto; come Caruso vince poco – anche se al momento ha raccolto qualcosa in più. Come Caruso ha ottenuto una bella top ten nel 2020 pur avendo sgobbato come un forsennato per aiutare il suo capitano al Giro. Anche per lui, almeno sulla carta, si prospetta un 2021 nel quale lo vedremo ancora lavorare per il capitano designato. Gli potrebbe venire incontro la condizione di quest’ultimo, ovvero Evenepoel. Qualora il belga non dovesse dare grandi garanzie di forma dopo l’incidente del Lombardia 2020, e Almeida fosse confermato verso il Tour, magari al corridore italiano della Deceuninck-Quick Step potrebbero toccare davvero i galloni del capitano. Attendiamo curiosi.
A conferma della tesi esposta poco sopra prendiamo in esame la parabola di Nibali: il siciliano dopo anni di apprendistato in maglia Liquigas – attenzione: apprendistato non gregariato – sulle orme di Ivan Basso, è cresciuto progredendo stagione dopo stagione andando a conquistare poi i successi che tutti conosciamo. Certo, quando parliamo di Nibali, parliamo di un grande talento, ma quello da solo, se non coltivato, non basta. Il passaggio da talento a campione passa da tanti piccoli fattori che condizionano la carriera di un corridore. Per lui questi fattori sono stati, oltre alla classe, anche la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto e la bravura di essersi messo in proprio giocandosi le sue chance. E ha funzionato alla grande.
Il caso di Pozzovivo poi, in proporzione al talento, non è così diverso. Il lucano, passato tardi nel World Tour, dopo una lunga militanza con le squadre dei Reverberi, ha (quasi sempre) potuto giocarsi le sue carte e così facendo, dal 2007 al 2020, esclusi i ritiri, solo una volta è uscito dai primi 20 della classifica di una grande corsa a tappe, ottenendo risultati di prestigio e con una certa continuità: sei top ten, tra cui due quinti e due sesti posti tra Giro e Vuelta. E difatti nel decennio appena alle nostre spalle è di sicuro stato il corridore più costante dopo Nibali, anche se gli è sempre mancato l’acuto necessario o quel podio che ne avrebbe coronato la carriera.
Non solo uomini-squadra
Non può mancare Davide Formolo in questo elenco. Il classe ’92 della provincia di Verona dopo essersi testato diverse stagioni come uomo di classifica ha capito che il suo meglio lo potrebbe dare nelle corse di un giorno impegnative – un campionato italiano vinto e un podio alla Liegi e alla Strade Bianche non mentono, così come le cavalcate trionfali in una tappa del Giro del Delfinato 2020 e in una della Volta a Catalunya 2019.
Jonathan Vaughters nel 2015, a inizio stagione si sbilanciò: «Davide Formolo vincerà sicuramente un Giro d’Italia» disse alla Gazzetta dello Sport. E quelle aspettative sono diventate un po’ la croce della narrazione attorno al corridore. Quell’anno Formolo vinse una tappa al suo esordio al Giro con quello che, secondo noi, è il suo vero marchio di fabbrica, la fuga da lontano su percorsi misti. Ha grinta, tempismo, tiene bene in salita e quando lanciato all’attacco sa far valere un motore di livello: tutte caratteristiche ideali per trasformarsi definitivamente in un corridore capace di togliersi quelle due tre grosse soddisfazioni a stagione, piuttosto che navigare a vista per un ottavo, decimo posto nella classifica generale di un Grande Giro. Fino a oggi a Formolo, che ha tuttavia ottenuto alcuni piazzamenti in classifica tra Giro e Vuelta, ma senza acuti, è sempre mancato quel salto di qualità in una corsa a tappe di tre settimane, a causa magari di una giornata storta dove perdeva tempo in classifica, oppure a prestazioni a cronometro non in linea con i più forti. Tutto questo con buon pace della profezia di Vaughters.
Su Fabio Aru, invece, superfluo spendere più parole di quelle che si leggono in giro ed è doveroso quindi ampliare il discorso che lo riguarda a tutta la sua generazione di corridori. Quelli nati tra il 1989 e il 1991 – con l’eccezione di Roglič e in attesa di capire Quintana – che sembrano stati spazzati via dal nuovo che avanza. Aru, come Pinot, Bardet, Barguil, Chaves, mettiamoci dentro il Dumoulin delle ultime stagioni, Landa, corridori con un ottimo palmarès, ma che per un motivo o per l’altro si guarderanno indietro un giorno con l’impressione di essere stati quasi degli incompiuti. Certo è che il sardo tra 2014 e 2017 fu capace di risultati di enorme prestigio: vince la Vuelta 2015, due podi al Giro (2° nel 2015 e 3° nel 2014), un 5° posto sempre alla Vuelta (2014), un 5° posto al Tour (2017), con tanto di vittoria di tappa e maglia gialla indossata, mentre nel 2016 sempre in Francia, saltò per aria il penultimo giorno di corsa mentre si trovava sesto in classifica a poco più di un minuto e mezzo dal podio di Quintana. Sembra passata un’epoca per noi, figuriamoci per lui che ancora annaspa alla ricerca di un se stesso in bicicletta che forse mai più ritornerà.
Giulio Ciccone è il più giovane tra i corridori sin qui nominati (è un dicembre ’94): chi scrive stravede per l’abruzzese ma giudica il tentativo di puntare su di lui per le corse a tappe al momento azzardato. A costo di prendere una grossa cantonata: Ciccone dovrebbe confrontarsi con i migliori corridori nelle corse di un giorno impegnative – tagliatissimo per certi percorsi come il Lombardia, il trittico delle Ardenne, ma anche diverse semi classiche del calendario – e abbandonare le velleità di alta classifica.
Potrebbe prendere le misure nelle brevi corse a tappe provando fughe e vittorie parziali, e poi nei Grandi Giri essere libero di esprimere l’indole battagliera senza restare ingessato per un piazzamento da primi dieci posti, ma non da podio. Felici di essere smentiti: ma a ora non riusciamo a immaginarci Ciccone capace di lottare per una vittoria (o un podio) al Giro o alla Vuelta, figuriamoci al Tour. Eventualmente ne avremo la contro prova al Giro di quest’anno. La concorrenza è spietata, il livello nelle ultime stagioni si è alzato notevolmente e Ciccone appare un gradino sotto rispetto a corridori come Bernal, Pogačar, Roglič, Carapaz, Mas, persino paradossalmente a un Evenepoel che un Grande Giro non lo ha mai corso, ma anche ai vari López, Thomas, Sivakov, Geoghegan Hart, Landa.
Infine si potrebbe inserire in questa lista anche Mattia Cattaneo per il quale però vale un discorso differente da tutti gli altri. È l’ultimo vincitore italiano del Giro Under 23, passò subito nel World Tour in maglia Lampre ma più che le caratteristiche, le opportunità o i ruoli in squadra a frenarne l’ascesa è stata tutta una serie di problemi fisici. Dopo l’ottimo ultimo anno in maglia Androni (2019), Cattaneo si è guadagnato un contratto con la Quick Step provando, dopo un anno complicato dall’ennesimo infortunio, a fare classifica alla Vuelta. Ha chiuso al diciassettesimo posto, migliore degli italiani, sfiorando un paio di volte il successo di tappa. Difficile, però, oggi, a trent’anni già compiuti, immaginarlo in un ruolo differente dal gregario – seppur di lusso.
I motivi della crisi
Ma non si parla solo di numeri o di nomi. Detto di come influenzino negativamente i risultati i ruoli in squadra e la scarsa abitudine a lottare con l’eccellenza nelle fasi importanti, un’altra causa è che, banale a dirsi, si vive un momento storico sfavorevole. Un momento in cui, dopo Nibali, manca un campione assoluto – e sottolineiamo campione, non talento – capace di tenere testa ai migliori. Un momento in cui il movimento ciclistico italiano non è riuscito a dare alla luce uomini da grandi corse a tappe in grado di scontrarsi con tutta una generazione di corridori stranieri.
La forte concorrenza nei Grandi Giri che arriva dagli paesi stranieri è un altro fattore: non sono più le solite tre, quattro nazioni a dominare il ciclismo. E difatti, ma non è questa la sede giusta per parlarne, non è che altre nazioni “storiche” come Francia e Belgio se la passino meglio rispetto a noi, anzi. Anche se, soprattutto dal Belgio, stanno arrivando talenti che prima o poi saranno capaci di sfatare alcuni tra i tabù più lunghi della storia del ciclismo – il loro ultimo Grande Giro vinto risale al 1978. Sono tornati gli olandesi e arrivano in vetta con costanza inglesi e australiani, sloveni, colombiani ed ecuadoriani, tutte nazioni che dicono la loro nel nuovo assetto geopolitico mondiale e dove l’Italia mostra carenze a livello strutturale, con le proprie metodologie di crescita e di avvicinamento al mondo dei professionisti che evidentemente non funzionano più così bene come un tempo. Un po’ come se fossimo rimasti a guardare gli altri crescere cullandoci nella tradizione, convinti che bastasse per fare risultato.
C’è poi una questione che potremmo definire generazionale: i corridori passati negli ultimi anni nella massima categoria, lo hanno fatto dopo aver disputato poche o quasi nessuna corsa a tappe nelle serie giovanili. Questo pone un margine di svantaggio soprattutto nel confronto con i loro coetanei; si effettua il grande salto senza aver mai sviluppato né testato quelle caratteristiche fondamentali per imporsi nell’esercizio delle tre settimane: fondo, resistenza e recupero. E spesso quando ci si ritrova a lottare contro i pari età si prendono sonore sberle.
Nelle ultime stagioni, però, la tendenza si sta invertendo grazie ad alcune squadre dilettantistiche o Under 23 che stanno intensificando la loro attività all’estero in aggiunta al rilancio o alla nascita di corse a tappe nostrane. I frutti non si vedono ora, li vedremo semmai fra qualche stagione.
Davide Cassani, su Cyclingpro, spiegava a fine Giro 2020: «Io credo che, il non avere un dopo Nibali, non è un problema nato oggi, ma le conseguenze di un qualcosa che è mancato anni fa. Mi spiego: dal 2012 al 2016 in Italia, la categoria Under 23 aveva in calendario una sola corsa a tappe, il Val d’Aosta. Il Giro d’Italia giovani ed altre gare a tappe erano sparite. Cosa vuol dire? Che le nostre squadre dilettantistiche, ottimamente organizzate ma in grado solo di gareggiare in Italia, avevano a disposizione un calendario non all’altezza e questo ha abbassato il livello della categoria. Mentre nel resto del mondo i ragazzi correvano a destra e a manca facendo esperienze fondamentali alla loro crescita, noi ci siamo chiusi a correre in Italia. Ma se negli anni ’90 avevamo 7/8 corse a tappe che tenevano alto il nostro livello, in seguito sono sparite ed il nostro movimento ne ha subito le conseguenze. Credo che, anche per questo motivo, non abbiamo, per il momento, il dopo Nibali perché non siamo riusciti a preparare nel modo giusto i nostri giovani nel passaggio al professionismo. E abbiamo perso una generazione di scalatori».
Per diversi anni in Italia difatti era sparito persino il Giro dei dilettanti (con tutte le sue denominazioni e formule, Giro Bio, Giro Under 23, ecc.) fondamentale vetrina di talenti per i giovani azzurri che riuscivano così a misurarsi con i coetanei più forti. Da quando è stato riportato in auge (2017), nessun italiano ha vinto la classifica finale e solo lo scorso anno, con il terzo posto di Colleoni, un corridore di casa è riuscito nuovamente a salire sul podio dopo otto anni – l’ultimo Aru, secondo nel 2012.
Un problema di World Tour
Ci sono poi problemi legati alla mancanza di sponsor e di investimenti che hanno portato all’uscita totale dal World Tour delle squadre italiane. Non è un caso che gli ultimi vincitori di un Giro d’Italia o lo hanno fatto in Liquigas oppure sono cresciuti lì. La Liquigas possedeva una struttura e una filosofia ideale, che ha permesso a un corridore come Nibali di maturare per gradi, senza pressioni esagerate legate al tutto e subito, con un programma da seguire, un contratto a lunga durata e senza il rischio di bruciarsi come spiegato benissimo in questa intervista dall’ex Team Manager Roberto Amadio. Un Nibali cresciuto oltretutto attorno a un capitano di spessore come Basso dal quale ha potuto carpire i segreti del mestiere. La stessa Lampre, l’ultima World Tour italiana, ha visto la parabola completa di un certo Cunego, uno dei più grandi talenti del nostro ciclismo degli anni duemila. L’uscita di scena di queste due squadre è stato un danno che tutt’oggi stiamo ancora pagando.
Si tende a pensare che la mancanza di squadre World Tour sia solo la punta dell’iceberg delle difficoltà del nostro ciclismo, mentre in realtà è proprio da qui che a cascata derivano tutti i problemi. L’assenza di World Tour italiane significa meno corridori italiani che passano nel mondo dei professionisti, ma anche meno attenzione ai corridori italiani, meno ragazzi che hanno la possibilità di misurarsi e di fare del ciclismo un mestiere vero e proprio – non tutti riescono a navigare sino a 27/28 anni tra i dilettanti con un rimborso spese o con i premi gara – significa un effetto domino che porta all’abbandono precoce dell’attività, significa, come fa l’ Uroboro, innescare un processo dove senza un corridore italiano di vertice non si riesce a vendere il prodotto ciclismo e di conseguenza non si raccolgono grandi investimenti. Significa che il ciclismo non viene nemmeno più preso in considerazione come lavoro per il futuro.
Per Giorgio Furlan, attuale tecnico della General Store, squadra Under 23, «Oramai mancano corridori di valore perché il bacino da cui attingere è sempre più in diminuzione, ci sono tante corse in realtà, ma non bastano quelle. In Veneto abbiamo centocinquanta junior: siamo ai minimi storici». Mentre Christian Murro, ex corridore e ora organizzatore del Giro del Friuli dilettanti aggiunge: «Il problema è che gli allievi sono trecento: dove finisce quella metà? Dobbiamo capire perché tutti questi ragazzi smettono».
E poi, come accennavamo, manca un talento di livello assoluto, che deve ancora nascere o non lo abbiamo ancora visto arrivare (e a Ganna per il momento lasciamo fare benissimo quello che sa fare), oppure bisogna coltivarlo fra i tanti nomi interessanti e trasformarlo in campione. Perché bisogna avere la capacità, la pazienza, i mezzi per prendere questi talenti, costruirli e farli crescere. Bisogna dare loro la possibilità di esprimersi e misurarsi con i pari età stranieri.
Certo è che diminuiscono i praticanti, che meno ragazzi vanno in bici e meno si iscriveranno a una società ciclistica. E meno ragazzi che praticano significa meno possibilità di attingere a un bacino dal quale possa emergere un futuro talento. Il giornalista inglese Herbie Sykes in un recente articolo sulla crisi del ciclismo italiano nei Grandi Giri, apparso sul magazine Pro Cycling, riporta alcuni dati che fanno capire qual è la situazione nel nostro paese. «Nel 2019, l’anno in cui British Cycling ha raggiunto 150.000 iscritti, la sua controparte italiana ne aveva 103.124. Di questi, 31.000 hanno affermato di essere giudici di corsa e organizzatori, e circa 41.000 gareggiavano tra gli amatori. L’Italia ha perso il 12% dei suoi corridori competitivi in tre anni, e due terzi del suo gruppo professionistico dal 1999». Sykes si riferisce al 1999, precisamente ai fatti di Madonna di Campiglio al Giro, perché per lui sono un po’ il grande spartiacque della parabola del nostro ciclismo. «La caduta in disgrazia di Pantani provocò un esodo di capitali, corse e interessi» scrive. Uno scotto che paghiamo ancora oggi.
Non è solo un fattore agonistico
Ci sarebbe da analizzare l’esasperazione delle categorie giovanili, ma questo, oltre a coinvolgere tutto il mondo del ciclismo e non nello specifico solo quello italiano, è un argomento che tratteremo un’altra volta. Scavando più a fondo nei concetti, invece, e ribaltando la prospettiva, per Silvio Martinello il problema sta alle fondamenta, nell’educazione e nella cultura. «Alla mancanza di sicurezza che sta minando alla base il movimento» afferma in una recente intervista apparsa su www.bikeitalia.it l’ex campione olimpico su pista. «È un tema centrale: il ciclismo su strada sta attraversando un momento di crisi epocale per via della mancanza di sicurezza sulle strade. Basta guardare le corse giovanili dove il 90% dei partecipanti provengono da famiglie in cui si parla già la lingua del ciclismo, non si riesce più ad intercettare nessuno di nuovo. Più ciclisti per strada significa più sicurezza per tutti e un bacino di utenza più ampio che aumenterà anche la quantità e la qualità degli agonisti. È un concatenamento di fattori che abbiamo già visto altrove in Europa, in Germania o in Gran Bretagna per esempio, dove si è agito sulla sicurezza con determinazione e questo ha comportato anche un miglioramento dei risultati sportivi». Chi di voi, appassionato di ciclismo, manderebbe a cuor leggero il proprio figlio per strada a praticare questo sport? Urge in questo senso un intervento forte da parte delle istituzioni. E a proposito di basi: allargando il dibattito per un secondo, l’impressione è che in Italia lo sport non sia più al centro del discorso. non sia più un fattore di importanza culturale, né politica, né educativa. Magari ci si fa belli quando si contano le medaglie – finché dura – grazie a tecnici preparatissimi, come lo sono quelli del ciclismo, ma è un modo per continuare a nascondere i problemi. A scuola si parla quasi niente di sport, della sua storia e delle sue capacità educative come fosse argomento frivolo e di poco conto, ma soprattutto lo si insegna poco e male, come riportato da questo dettagliato dossier di Maurizio Mondoni.
Che futuro?
Torniamo, per concludere, al lato strettamente agonistico della faccenda. Siamo arrivati a un evidente cambio generazionale. La storia vive di cicli – mai immagine fu più appropriata – e chissà che in questi anni, come successe proprio a fine anni ’80, non possa esserci un passaggio di consegne. Il dopo Moser-Saronni ha visto la velocissime parabola di Visentini e Chioccoli, ma poi ha conosciuto Bugno, Chiappucci, Pantani, Gotti: non servono presentazioni per i nomi citati. Ci sono stati Simoni, Savoldelli, Basso e poi Nibali (e Aru, anche lui protagonista di una parabola intensa quanto rapida). E ora si guarda al futuro per capire chi possa raccogliere l’eredità.
È un contesto liquido: le difficoltà della generazione di quei corridori che adesso hanno dai 25 ai 32 anni circa, potrebbero non essere più le difficoltà di quei corridori arrivati nelle ultime stagioni o che devono arrivare. Grazie al cambio di filosofia di diverse squadre giovanili i volti nuovi del ciclismo italiano sembrano pronti a raccogliere il testimone.
Fra i più interessanti ecco Aleotti, Colleoni, Fancellu, Piccolo e Tiberi. Aleotti è quello che negli ultimi anni da Under 23 ha ottenuto i risultati più incoraggianti. Il secondo posto al Tour de l’Avenir nel 2019, al cospetto del meglio in gara nel panorama internazionale, è una base importante da cui partire, per un corridore che ci viene dipinto dai suoi tecnici non solo come uno dal gran motore, ma come uno con la testa fatta per primeggiare.
Colleoni è stato il migliore italiano all’ultimo Giro Under 23 e, come Aleotti, ha da subito la possibilità di cimentarsi nel World Tour con una squadra importante – Aleotti nella BORA-hansgrohe, Colleoni nel Team BikeExchange. E poi ancora Fancellu, scalatore della EOLO-Kometa, che secondo il suo Team Manager Basso ha tutte le qualità per emergere persino come fuoriclasse del ciclismo.
Tiberi e Piccolo, rispettivamente con Trek-Segafredo e Astana da questo 2021, hanno qualità importanti, ma andranno anche loro fatti crescere con grande calma e per gradi, anche perché, a conti fatti, non hanno ottenuto risultati di rilievo tra gli Under 23 nelle corse a tappe. C’è poi Conca, il quale però sembra, parole sue, voler raccogliere il testimone delle fughe vincenti da De Gendt, nonostante tra 2019 e 2020 abbia ottenuto risultati importanti nella categoria Under 23 in alcune corse a tappe di prestigio. Tra quelli che già stanno correndo tra i professionisti almeno dall’anno scorso, vanno seguiti Bagioli (Andrea) e Covi, che però, nonostante i risultati tra gli Under nelle prove a tappe, sembrano decisamente più tagliati per le corse di un giorno, mentre Conci e Fabbro, dopo qualche stagione di apprendistato, devono ancora dimostrare tutto nei Grandi Giri. Anche se per loro potrebbe valere quel discorso di crescita graduale di cui si parlava prima. D’altra parte, come dice il detto colombiano: non tutte le arance maturano allo stesso tempo.
Certo, per questi corridori lo scontro sarà duro e da essere un buon prospetto a diventare un vincitore del Giro d’Italia ce ne passa. Oltretutto stiamo vivendo uno dei momenti più floridi a livello di competitività nelle corse a tappe. Il livello è altissimo. I corridori appartenenti alla stessa generazione dei giovani italiani menzionati sono Bernal o Pogačar, che hanno già vinto un Tour, oppure Mas o Gaudu che hanno già dato segno di poter lottare al vertice, senza dimenticare Geoghegan Hart o Hindley, primo e secondo al Giro 2020. La strada da fare è ancora molto lunga, probabilmente passeranno anni di risultati ancora peggiori rispetto al 2020. Ma il futuro non possiamo che guardarlo con gli occhi pieni di fiducia.
Foto in evidenza: Gio Auletta / Pentaphoto