Il nuovo futuro di Martí Vigo
17 Marzo 2021RitrattiAndroni,Martí Vigo
Quando Martí Vigo del Arco ha scoperto la bicicletta, la immaginava solo come un mezzo per evadere. «Era un periodo davvero difficile. Improvvisamente avevo iniziato a non ottenere più alcun risultato nello sci di fondo, mi sentivo sempre stanco, non riuscivo più a fare cose che fino qualche tempo prima erano la normalità. Esami su esami per cercare di comprendere la causa senza nessuna risposta. Iniziavo a non capire più nulla, ero confuso. Intanto cominciava anche a scarseggiare il denaro, perché in Spagna non eravamo benestanti. Poi ho scoperto di avere la mononucleosi».
Quella risposta tanto cercata, è sembrata quasi una beffa, perché, quando l'ha saputa, Vigo non ha provato sollievo ma ulteriore frustrazione. «Dovevo curarmi, ma avevo bisogno di allenarmi per tornare a vincere e a guadagnare. In più c'era l'università da finire e in quel periodo non avevo proprio la testa per mettermi sui libri». La bicicletta è stata il pretesto per provare a svicolare, per qualche ora, da quel groviglio di problemi in cui si era trovato.
«Almeno in quegli istanti cercavo di non pensare. Non era molto tempo da quando era mancato mio padre. Lui era fiero di me, sin da bambino mi aveva detto di pormi un traguardo e cercare di raggiungerlo perché è questo il senso dell'essere uomini. Ero quasi convinto di esserci riuscito con lo sci, ero arrivato alle Olimpiadi e mi ero tatuato i cinque cerchi per ricordarmi cos'era accaduto. Ora tutto sembrava cadere, come un castello di carta». Quando Vigo si accorge che ormai la sua mente non riesce più a vivere in maniera serena il suo sport, stacca la spina e pensa di inventarsi una nuova vita. «Alla fine - spiega - mi sono detto che ero già partito una volta da zero e ce l'avevo fatta, perché non dovevo darmi una seconda possibilità, perché continuare a soffrire a vuoto? La sofferenza ha un senso se ti permette di cambiare qualcosa».
Martí Vigo fa un test con Patxi Vila per correre in Movistar, poi incontra Maurizio Fondriest e da lì nasce l'idea Androni Giocattoli Sidermec. «Del ciclismo mi piacciono le giornate fuori con gli amici, dal mattino alla sera. A pedalare senza un motivo, solo perché ti senti meglio in sella che a casa. Certo, se diventa un lavoro le cose cambiano, ma di base il ciclismo è questo». Ricorda bene quando vedeva le gare in televisione e immaginava di essere in maglia rossa alla Vuelta perché «tutti i bambini che sognano di fare i calciatori si immaginano di vincere un mondiale, tutti quelli che sognano di fare i ciclisti vorrebbero vincere la corsa a tappe del loro paese».
Dallo sci al ciclismo sono cambiate molte cose, ma Vigo non ne è quasi mai stato spaventato, anche di fronte agli errori. «Se non sbagli, non impari e all'inizio si sbaglia sempre molto. Io per esempio non sapevo stare in gruppo ma era normale, non lo avevo mai fatto. Pesavo otto chili in più ed avevo un'alimentazione scorretta, perché per sciare si guarda la potenza non tanto il peso. Forse dietro il mio infortunio alla mano, quando sono caduto, c'è anche questa perdita di peso repentina». Vigo si trova a proprio agio quando la strada sale e forse in questo c'è qualche ricordo della montagna, di cui però ammette che non gli mancherà il freddo. «Al freddo mi sono abituato, ma, per quanto possa sembrare paradossale per un ex sciatore, a me piace il caldo».
In questi giorni sta provando la posizione sulla bicicletta da cronometro. «Molti mi dicono che per me dovrebbe essere naturale, perché anche nello sci si gareggia sui tempi. In realtà è molto diverso. La posizione aerodinamica che dobbiamo tenere in sella durante la cronometro è molto dolorosa, se non sei abituato. Ad un certo punto iniziano a tirarti tutti i muscoli e non sai più da che parte girarti». In Androni, Martí Vigo ha incontrato Eduardo Sepúlveda: «Condividiamo la lingua e posso assicurarti che non è poco. Quando arrivi in un ambiente nuovo, sapere che c'è qualcuno che capisce esattamente cosa vuoi dire è tranquillizzante. Si può tradurre, ma non è lo stesso».
Vigo è un ragazzo curioso, come chi vuole capire ed imparare. Per questo ogni meccanismo del proprio corpo lo affascina e, se ci pensa, sa già cosa farà un domani, quando scenderà di sella. «Continuerò a studiare fisioterapia e aprirò uno studio, per aiutare altre persone a conoscere il proprio corpo e a viverlo al meglio. Del resto, prima la mia passione era il ciclismo, ora, che è diventato il mio lavoro, sento il bisogno di qualcosa da tenere lì, a portata di mano, per alleggerire i momenti in cui sarò stanco o deluso. Pensare al futuro è una bella possibilità».
Foto: Luigi Sestili
Le ferite guariranno: intervista a Francesca Pisciali
Francesca Pisciali ricorda sempre ciò che le dice il suo allenatore: «Il livello nel ciclismo femminile si è alzato molto, non puoi pensare di vivacchiare. Essere atleta ti impone dei sacrifici, se vuoi fare bene, devi accettarli tutti, altrimenti resti a metà strada. Non riesci ad affermarti come atleta e allo stesso tempo sei costretta a privarti di molte cose che, diversamente, potresti fare. Devi scegliere». Per questo non si è mai iscritta all'università, perché con i ritmi che le impone il suo sport rischierebbe di non riuscire a studiare e, a ventidue anni, non ci si può permettere di non avere le idee chiare. «Mi piace talmente tanto il ciclismo che voglio provare fino all'ultimo a farlo diventare il mio lavoro. Però non sono un'illusa, non voglio restare qui a tutti i costi. Se mi renderò conto di non riuscirci, abbandonerò questa via e ne sceglierò un'altra. L'idea di avere magari venticinque, ventisei anni, e non avere concluso nulla mi spaventa terribilmente. Non fa per me, per quanto vivere senza la bicicletta sembri un incubo in certi momenti».
Pisciali, quest'anno accasata alla Isolmant Premac Vittoria di Giovanni Fidanza, parla con serenità anche di un possibile abbandono e, quando le chiediamo come faccia, non ha dubbi. «Perché ho già provato a smettere. Avevo quindici anni e a Bolzano non c'era una realtà adatta a me. Ho smesso controvoglia e, forse, non ho mai smesso del tutto. Due anni dopo lavoravo in un bar in cima a un passo alpino e andavo al lavoro in bici. Quella pausa mi ha fatto bene. Il ciclismo è un mondo che ti ingloba e rischia di farti perdere il contatto con ciò che c'è fuori».
Attraverso l'indipendenza imparata correndo in bicicletta, Francesca Pisciali si è resa indipendente nella vita di tutti i giorni. «In alcune gare delle categorie minori mi sono iscritta autonomamente, mi sono preparata il cibo ed i rifornimenti, sono andata a ritirare i dorsali, ho controllato la bici e sono partita. Fai fatica, ma cresci, impari. Questo ti resta e fa parte di te. Non ho più smesso di correre, ma ho sempre continuato a lavorare. Con i risparmi mi sono comprata la macchina e mi sono tolta tanti piccoli sfizi».
Francesca sembra una ragazza di altri tempi. Dice che guarda poco il cellulare ed alcune volte lo lascia persino a casa. «Se dobbiamo incontrarci ad una certa ora, io mi faccio trovare per quell'ora. Non ho bisogno di una conferma qualche minuto prima. Con me preferisco avere un buon libro, così mentre aspetto posso leggere». Ci confessa che la sera, prima delle gare, legge sempre ed è tranquilla. «Quando è la giornata giusta, lo sai, lo senti. Sei serena e ti riesce tutto più facile. A me è capitato di andare in fuga con una facilità assoluta, mentre molte ragazze provavano senza riuscirci. C'è qualcosa di naturale in certi giorni».
Altre volte è l'istinto, la rabbia, il nervosismo a segnare la gara. «Quando mi arrabbio, vado più veloce. Una volta sono scattata pur non stando bene. Mi avevano fatto innervosire ed avevo deciso che sarei stata davanti. Ho preso la volata in terza posizione, una velocista l'avrebbe vinta con una gamba sola, io sono arrivata settima, ma è stato un buon risultato».
Le piace allenarsi sulle strade delle Dolomiti, ma, quando ha del tempo libero, va in Romagna perché lì c'è la sua seconda casa, tra tortellini e piada, "quella spessa" precisa lei, spiegandoci la contesa che c'è in quelle zone sulla vera essenza della piadina romagnola. Una cosa la rende particolarmente felice riguardo al ciclismo femminile: il fatto che, ultimamente, sempre più ruoli vengano ricoperti da donne. «Credo sia un bene, perché sanno meglio di chiunque altro cosa significa essere donna e, se hanno vissuto questo sport, capiscono cosa si prova, come ci si sente. Si tratta di un passo importante per l'emancipazione femminile. Un passo che abbiamo il dovere di compiere noi. Certe volte ho avuto la sensazione che come atlete non fossimo prese sul serio da alcuni uomini. Colpa loro, ma anche colpa nostra. Il primo segnale di una professionalità totale deve venire da noi».
Pisciali descrive benissimo il feeling che si instaura con alcune gare, piuttosto che con altre. «Prendiamo il Trofeo Beghelli. In astratto potrebbe anche essere adatto alle mie caratteristiche, invece no. Quello zampellotto sul finale mi blocca sempre, come se mi respingesse». Qualcosa di speciale, invece, Pisciali lo ha sempre provato per la Strade Bianche e la prova dello scorso sei marzo ne è stata la dimostrazione. Francesca è caduta nelle prime fasi di gara, il ginocchio le sanguinava e tutta quella polvere non era certo l'ideale. «Non sempre le cose vanno come vorremmo, dobbiamo accettarlo. Avrei potuto fermarmi e salire in ammiraglia, non l'ho fatto per rispetto della gara e per l'orgoglio di poterla correre. Al traguardo sono arrivata troppo tardi per rientrare in classifica, ma ci sono arrivata. Ho concluso una prova che avevo iniziato, ho tenuto fede alle mie responsabilità, dal primo all'ultimo chilometro. Le ferite, poi, guariranno».
Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione di Francesca Pisciali
Il principe Fiorenzo
Words: Gino Cervi
Voice: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
«I girini non corrono sulla strada, ma sulla polemica. Bocca amara per l’abbandono di Coppi. Lo si vedrà al Vigorelli, dove Magni, l’eterno secondo, vorrà essere primo nell’ultima volata. E ha vinto il Giro. Tenerezze coniugali contro le asprezze del pubblico. Certi cuscini sulla pista simboleggiano questo Giro addormentato. Cecchi, battuto per 11 secondi, è il vincitore morale».
La Settimana Incom del 9 giugno 1948 commenta l’ultima tappa del Giro d’Italia che si è concluso tre giorni prima, il 6 giugno, al Velodromo Vigorelli. Ha vinto Fiorenzo Magni ma anche per la Settimana Incom il «vincitore morale» è Ezio Cecchi, battuto in classifica generale per soli 11 secondi, che ancora oggi, nella storia, rimane lo scarto minimo tra primo e secondo alla fine di un Giro.
Ma che ci stanno a fare quei cuscini sulla pista del Vigorelli? Che cosa è accaduto di speciale in quel Giro d’Italia, il 31°, da metterne in discussione l’esito finale? E perché il vincitore viene trattato così in malo modo?
Il Giro del 1948 era partito da Milano il 15 maggio. Un mese prima si erano svolte le elezioni politiche, le seconde dell’Italia repubblicana. Era stata una campagna elettorale ad altissima tensione e senza esclusione di colpi: da un lato la Democrazia Cristiana, dall’altro il Partito comunista e quello socialista uniti nella coalizione del Fronte popolare. Il mondo cattolico godeva dell’appoggio politico degli Stati Uniti e dei finanziamenti economici del Piano Marshall; il Fronte popolare era presentato come la minacciosa testa di ponte sovietica nel cuore del Vecchio continente. Vinsero la DC, De Gasperi fece il nuovo governo, comunisti e socialisti finirono all’opposizione e i democristiani inaugurarono un’egemonia politica che sarebbe durata per quasi mezzo secolo. Erano le prove generali della Guerra Fredda e il Giro d’Italia cercava di ricucire un paese diviso.
Ma anche in quella passione popolare battevano due cuori contrapposti. Il Giro della Rinascita, quello del 1946, era stato vinto da Gino Bartali; quello del 1947 da Fausto Coppi. Il loro era un “Duello al sole”, come quel western americano arrivato nelle sale cinematografiche italiane proprio nel 1948.
In quel Giro del ’48 i duellanti però rimangono nell’ombra. Restano attardati in classifica fin dalle prime tappe e la ribalta se la prendono altri: Vito Ortelli, Ezio Cecchi e, appunto, Fiorenzo Magni. Sulle Dolomiti però si scatena Coppi e recupera minuti su minuti. Prima le suona a tutti a Cortina d’Ampezzo. Poi nella Cortina-Trento, terzultima tappa, vola su Falzarego e Pordoi. Cecchi, la maglia rosa, viene attardato da una foratura e da una caduta, Magni soffre in salita ma recupera in discesa ed è primo in classifica per soli 11 secondi.
All’arrivo la Bianchi di Coppi sporge un reclamo alla giuria: sul Pordoi Magni è stato aiutato da un’organizzata sessione di spinte. La giuria accoglie il ricorso, ammette che Magni ha «usufruito di numerosissime spinte per lunghi tratti […] con evidente carattere preordinato» e gli infligge un’ammenda di 2.000 lire e una penalizzazione in classifica di 2 minuti. Troppo pochi per Coppi e la Bianchi che, per protesta, il giorno seguente, non si presentano alla partenza.
Gli ultimi chilometri di quel Giro per Magni sono un calvario. I tifosi, quasi tutti per Coppi, lo prendono di mira: sta rubando la vittoria grazie alla “compagnia delle spinte”. Magni non ci sta. Nell’ultima tappa, che si conclude al Velodromo Vigorelli, schiumante di rabbia batte tutti in volata. Così lo racconta nella sua biografia scritta da Auro Bulbarelli:
«Fu il mio personalissimo modo per rispondere ai fischi che mi sommergevano. Mi aggiudicai la tappa, vinsi il Giro d’Italia ma non potei fare il giro d’onore. Sulla pista gettavano di tutto».
Ma è possibile che a Milano quel giorno siano tutti “partigiani” di Coppi? La verità è un’altra. Ascoltiamo quello che scrive il giorno dopo, sulle colonne del quotidiano “Stadio”, un giovane inviato al Giro d’Italia, Enzo Biagi:
«Fischi unanimi, tribune e gradinate fraternizzate negli insulti. Lo inseguivano con precisi lanci di cuscini, monetine, cartaccia e involti di ogni genere. Lui sorrideva e salutava per farsi coraggio. Non so di che entità siano state le infrazioni compiute da Magni sul Pordoi, ma mi ripugna e voglio escludere che i fischiatori di Milano intendessero mescolare sport e politica colpendo un ex camicia nera. […] Magni, se ha delle colpe, di qualunque genere siano, le ha già duramente scontate».
Attilio Camoriano, su“L’Unità”, la racconta invece in modo un po’ diverso:
«La folla ha reso giustizia a Coppi: ha fischiato Magni e applaudito Cecchi. […] La morale del Giro d’Italia è questa: il timone del ciclismo deve essere guidato da mani più sicure che sappiano guidare e giudicare».
A differenza di Biagi, nessun riferimento alla politica. Pare però che Camoriano lo avesse fatto, e molto esplicitamente, il giorno prima. Sulla strada da Trento a Brescia dalla sua auto al seguito, al megafono arringava così gli spettatori in attesa del passaggio della corsa: «Sportivi! Sta arrivando il gruppo! Il gruppo dove c’è la maglia rosa del fascista Magni!». A farlo smettere arrivò furibondo lo stesso Magni, tirandogli tre o quattro colpi di pompa sulla carrozzeria.
Ma perché la gente, nella primavera del 1948, a tre anni dalla fine della guerra, dice che Magni è fascista? Dobbiamo fare un passo indietro. Fiorenzo Magni è nato a Vaiano di Prato, il 10 dicembre 1920. Cresce in un paesino della val di Bisenzio, Fornaci di Usella, in una grande casa tra i boschi di castagni dell’Appennino, con un fienile e una stalla con i cavalli che il padre carrettiere usa per i trasporti. A dodici anni monta sulla sua prima bici, nera, da passeggio. Poco dopo toglie parafango e carter così da farla sembrare una bici da corsa. E con quella si mette a inseguire i corridori del posto. Con la prima bici vera, inizia a correre. Però di nascosto dalla famiglia, che non vede di buon occhio quella passionaccia che lo distoglie dallo studio.
Nel 1936 partecipa alle prime gare, categoria allievi, con la maglia dell’Associazione Ciclistica Pratese. In una corsa al Padiglione, una borgata di Scandicci, va in fuga con un ragazzo di Sesto Fiorentino che ha tre mesi meno di lui. Magni perde la volata, ma trova un amico, anzi, l’amico della vita: Alfredo Martini. Magni è forte: vince parecchie corse, tra cui anche il titolo di campione toscano di categoria. Quando in un incidente stradale muore il padre, Fiorenzo ha diciassette anni e decide che la bicicletta sarà il suo mestiere. Vince anche tra i dilettanti. È alto, sottile e per questo lo chiamano “Cipressino”. Ma ha forza e coraggio da vendere. La salita non è il suo pane, ma sul passo nessuno lo stacca e in discesa va più forte di tutti: è sempre l’ultimo a tirare i freni. Costante Girardengo che lo vede correre in quegli anni dice di lui: «Se questo qui non diventa un campione, sono rimbambito». Non è rimbambito e la Bianchi per la stagione 1941 a “Cipressino” fa un contratto da professionista.
Nel frattempo però è scoppiata la guerra. Magni, arruolato nel 19° Reggimento artiglieria di Firenze, continua ad allenarsi e a correre: nel ’41 arriva 4° alla Milano-Sanremo, nel ’42 vince il Giro del Piemonte; a novembre, al Vigorelli, nel giro di pochi giorni batte prima il record dei 50 km (1h 07’ 23’’) e poi quello dei 100 (2h 20’ 54’’).
Poi arriva il ’43. A luglio cade il fascismo, dopo l’8 settembre inizia la guerra civile. Magni ha ventidue anni e risponde alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana. Viene arruolato nella Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale. Pochi mesi dopo Fiorenzo lascia la Toscana e con la madre si trasferisce al nord, a Monza. Lì può continuare ad allenarsi e a correre. Viene tesserato per il Pedale Monzese. Partecipa a qualche gara, tra le poche che ancora si disputano, e ne vince un paio. Ma dopo il 25 aprile è ancora in fuga. Prima a San Marino, poi in Puglia, infine a Roma. Perché scappa Fiorenzo? Su di lui incombe un’infamante accusa: quella di aver preso parte alla cosiddetta strage di Valibona.
I primi giorni del gennaio 1944, a Valibona, piccola borgata nel comune di Calenzano sulle pendici del Monte Maggiore, la milizia fascista aveva assaltato un casolare in cui si era rifugiata una brigata partigiana. Nello scontro a fuoco vi furono vittime da una parte e dall’altra. Tra i caduti il capo partigiano, Lanciotto Ballerini, figura carismatica della Resistenza toscana. Sui fatti di Valibona, a guerra conclusa, si avviò un’inchiesta e finalmente nel gennaio del 1947 si aprì un processo a Firenze. Magni era tra gli imputati, benché in contumacia. Tra i molti chiamati a testimoniare, anche Alfredo Martini. Al contrario dell’amico Fiorenzo, Alfredo aveva preso parte alla Resistenza. Martini alla richiesta del giudice dichiarò, come si legge negli atti del processo, che «il Magni […] corridore ciclista fino al 25 luglio 1943 mi è parso un’ottima persona».
Una leggenda vuole che sia stata questa testimonianza a scagionare l’amico. Probabilmente non è così: in realtà non c’era davvero nessuna prova che Magni fosse presente a Valibona. Lui stesso, che non ha mai rinnegato quella scelta di campo nella Repubblica Sociale, ha però sempre sostenuto di «non aver mai sparato un colpo di fucile».
Il processo di Firenze si conclude i primi giorni di febbraio del 1947. Magni, che nel frattempo era ritornato a Monza ed era stato tesserato per la Viscontea, ma non poteva partecipare alle corse, viene assolto. Torna a gareggiare il 9 marzo, nella Milano-Torino. A maggio disputa il suo primo Giro d’Italia. La 4a tappa prevede un arrivo proprio a Prato. Sul Barigazzo e sull’Abetone, dominano Coppi e Bartali, che al traguardo arrivano primo e secondo. Magni rimane attardato. Dicono che all’arrivo all’ippodromo qualcuno lo aspetti per fargli, poco amichevolmente, la festa. Tutto però fila liscio. La stagione finisce in crescendo per Magni: una vittoria alla Tre Valli Varesine e il quarto posto, a un soffio dalle medaglie, ai Mondiali di Reims.
Ma è la vittoria del Giro del 1948, a fargli svoltare la carriera. Dopo quel contestatissimo successo, si sfoga con Mario Fossati, cronista della “Gazzetta” e suo vicino di casa a Monza e, per giunta, come Martini, comunista: «Non so perché, ma non posso mai masticare il mio pane in pace». L’amarezza si trasforma in rabbiosa fame di vittorie. Nel 1949, a marzo, vince il Giro delle Fiandre, il primo straniero a vincere sui terribili “muri”:
È il primo dei tre successi consecutivi nella classica fiamminga. Dopo il 1949, Magni vince anche nel 1950 e nel 1951 e diventa per tutti “il Leone delle Fiandre”. Il ciclismo italiano di quegli anni non è solo Coppi e Bartali. Fiorenzo Magni è “il Terzo Uomo”. Come il titolo di un film che esce proprio nel 1949, strepitosamente interpretato da Orson Welles. Memorabile una sua battuta sugli svizzeri e gli orologi a cucù:
«Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù».
Proprio uno svizzero gli si mette di traverso al Mondiale su strada a Varese, nel 1951. Quel giorno Magni sembra avere più gamba di tutti e si presenta all’ultimo giro fiancheggiato da due compagni di squadra: Minardi e Bevilacqua. La vittoria sembra a portata di mano ma qualcosa non funziona nello sprint sulla pista dell’ippodromo. A sorpresa vince Ferdi Kübler, come scrive Ciro Verratti, un «autentico avvoltoio del ciclismo, per il suo profilo adunco, per la sua andatura felpata, per quel certo senso di rapina che c’è nel suo stile di corsa». Dall’orologio svizzero non spunta quel giorno l’innocuo cucù ma un rapace predatore. Magni, beffato, è solo secondo.
Ma non è forse questo lo smacco più cocente della sua carriera. L’anno prima, al Tour, la maglia del primato non l’aveva solo immaginata, ma addirittura indossata. 25 luglio 1950: tappone pirenaico Pau-Saint-Gaudens, da scalare Aubisque, Tourmalet e Aspin. In maglia gialla c’è un outsider, il francese Gauthier. A fare la corsa, è Robic, “Testa di vetro”. Inseguono Kübler, Ockers, Bobet. Bartali, per molti il grande favorito in vista delle tappe di montagna, resta al coperto. Fino sul Tourmalet, quando rinviene sui fuggitivi. Kübler e Magni sono attardati. Sull’ultima salita di giornata, l’Aspin succede il fattaccio. La strada è stretta. I tifosi a migliaia. Una moto disturba l’andatura di Bartali e Robic. Ginettaccio sbanda, si arrota con Testa di vetro, cade. Risale in sella, ma poco dopo Bartali viene aggredito. Un energumeno lo disarciona e gli scaraventa la bicicletta fuori strada. Bartali si difende. Arriva Goddet, il direttore di corsa, ad arginare il parapiglia. Bartali riprende. Robic, invece, per un problema meccanico, rimane appiedato. Al Gran premio della Montagna, c’è un gruppetto in testa alla corsa, tra cui Bobet, Bartali e Ockers. Ma mancano più di 80 km al traguardo di Saint-Gaudens e in testa rallentano. In discesa vengono raggiunti da nove inseguitori. C’è anche Magni che, giù dal Tourmalet e dall’Aspin ha dato prova delle sue indomabili capacità di discesista e ha recuperato il ritardo in salita. Tra tutti i fuggitivi Magni è quello messo meglio in classifica: può prendere la maglia gialla. Pedala a tutta in pianura e all’arrivo favorisce la volata di Bartali, che vince la tappa. Magni è primo in classifica, con 2 minuti e mezzo su Kübler, 3 minuti e 20 secondi su Bobet. Bartali è sesto, a 4’ e 17’’. Ma sull’auto che porta la squadra italiana all’albergo, Bartali fulmina Magni: «Complimenti, hai vinto il Giro di Francia. Io domani non riparto». Dice che sull’Aspin ha addirittura visto gente col coltello, che una macchina nera, in discesa, ha cercato di farlo cadere in un burrone. In albergo si chiude in camera e non scende a cena. Il commissario tecnico Alfredo Binda prova a convincerlo. Niente da fare. Bartali ha deciso: ha paura, non vuole rischiare la pelle. Si ritira. Con lui, forse per decisioni prese dall’alto – la Federazione, il Coni, alcuni dicono addirittura il governo – si ritira tutta la squadra. Molte cose non sono chiare e non sono mai state chiarite. Bartali era attardato in classifica, ma ci sarebbero state ancora le tappe sulle Alpi per recuperare. Due anni prima, nel suo trionfale Tour del ’48, a Bobet, di minuti ne aveva recuperati ben più di 4. C’è chi dice che Ginettaccio era debilitato e sapeva di non potercela fare: dopo il successo di Coppi dell’anno prima, non avrebbe potuto sopportare di vedere un altro italiano vincere a Parigi. Quindi, tutti a casa: “Muoia Sansone con tutti i filistei!”. A Magni non resta che ripiegare la maglia gialla e infilarla in valigia. Anni dopo in un’intervista Fiorenzo dirà, laconico: «Bartali ha sbagliato. Comunque sono storie passate, guardiamo avanti».
Fiorenzo Magni è stato uno che ha sempre guardato avanti. E guardato lontano. L’anno seguente, il 1951, Mondiale a parte, è il suo anno d’oro. Corre con una nuova squadra, la Ganna: il suo patron è proprio Luigi Ganna, il primo vincitore del Giro d’Italia che ora produce biciclette col suo nome. L’abbinata porta bene. Magni vince il suo secondo Giro, questa volta senza nessuna polemica. Il ’51 è anche l’anno del terzo Fiandre, oltre che della Milano-Torino, del Giro del Lazio, del Giro di Romagna, del Campionato italiano e del Trofeo Baracchi. Ma un’altra bella vittoria arriva giù dalla bicicletta. Fiorenzo Magni inizia la sua carriera di imprenditore: apre a Monza una concessionaria della Moto Guzzi. Due anni dopo, alle motociclette si affiancano le automobili, le Lancia, per la precisione. Nei decenni a seguire, Magni espanderà la sua attività commerciale diventando presidente di tutti i concessionari Lancia in Italia e poi, dagli anni ’80, dei concessionari Opel. Magni è così. Sa guardare avanti, e lontano.
Lo dimostra ancora alla fine del 1953. La Ganna smobilita il reparto corse e a Fiorenzo viene un’idea: perché non introdurre nel mondo del ciclismo la sponsorizzazione di marchi “extra-settore”? Fino ad allora le squadre reclamizzavano solo marchi produttori di biciclette, o di pneumatici, o altri accessori ciclistici. Ma il mercato dei consumi si stava ampliando con il boom economico, il ciclismo era all’epoca ancora lo sport più popolare e cominciava a essere diffuso dalle trasmissioni televisive. Magni convince la famiglia Zimmermann, proprietaria dei Laboratori Cosmochimici, produttori della famosa crema Nivea, a sponsorizzare la sua squadra. Nasce, per la stagione 1954, la Nivea-Fuchs. A fornire le bici è l’azienda milanese del commendator Giovanni Tappella che, fin dal 1919, produce biciclette col marchio Fuchs, che in tedesco significa “volpe”. Le biciclette sono costruite nell’officina del “Sarto”, il mitico telaista Faliero Masi, che tiene bottega sotto le tribune del Vigorelli. L’idea di Magni è geniale: il Leone si affianca alla Volpe. La forza all’astuzia: sembra una pagina del Principe di Machiavelli.
È una rivoluzione. Alla Bianchi, alla Legnano, alla Atala, alla Bottecchia, alla Wilier, alla Torpado si affiancano nuovi nomi e nuovi colori che faranno la storia, e il costume, del ciclismo negli anni a venire. Dalle macchine per caffè Faema agli elettrodomestici Ignis e Philco, dai vermouth Carpano ai dentifrici Chlorodont e poi giù giù fino alle bibite San Pellegrino, ai salumi Molteni, alle cucine componibili Salvarani e Scic, ai lampadari Zonca, ai tessuti Filotex, ai gelati Sammontana e Sanson… E a innescare la rivoluzione degli sponsor, come quando innescava le fughe che facevano saltare le corse, è stato proprio lui: Fiorenzo Magni.
Anche con le persone che incontra sulla sua strada Magni sa vedere “lontano”. Una mattina di fine aprile del 1955, durante un allenamento in Brianza, si lamenta per un dolore a una gamba che lo tormenta da un po’. Un giovane ciclista che si è aggregato al gruppo dei pro, si fa coraggio e gli dice: «Signor Fiorenzo, sa perché le fa male?». Magni si chiede da dove salta fuori quel piccoletto che crede di sapere il perché dei suoi malanni. Il ragazzo insiste: «Signor Magni, guardi la pedivella, è storta, non è in asse, la pedalata non è rotonda, e dai e dai e dai, le fa male la gamba. Se vuole, gliela sistemo io. Faccio anche il meccanico». Magni gli dà retta e lo segue fino alla sua officina di Cambiago, poco più che un bugigattolo. Una limata alla pedivella e via. Magni ringrazia e, prima di rimontare in sella, gli chiede: «Come ti chiami?». «Colnago Ernesto» risponde il ragazzo. Meno di un mese dopo, l’Ernestino affianca Faliero Masi sull’ammiraglia della Nivea-Fuchs al Giro d’Italia. È lui che gli monta le gomme rinforzate nella penultima tappa, la Trento-San Pellegrino. È la condizione necessaria affinché Magni, secondo in classifica, possa attaccare la maglia rosa Gastone Nencini su un insidioso tratto di sterrato. È l’ultima, disperata possibilità di poter ribaltare la classifica. E questo accade: Magni scappa, mezzo gruppo rimane con le gomme a terra. Gli resistono solo Coppi e Nencini, ma per poco. Anche a Nencini scoppiano le gomme e Fiorenzo e Fausto lo attaccano senza pietà. Mancano ancora 150 km all’arrivo a San Pellegrino, ma Fiorenzo è una furia e Coppi gli dà una mano. Dietro, col vento contro e senza squadra a dargli aiuto, Nencini naufraga. I due vecchi campioni, sette anni dopo le polemiche delle spinte sul Pordoi, volano verso la vittoria: a Coppi il traguardo di San Pellegrino, a Magni la maglia rosa e il terzo e ultimo di Giro della sua carriera.
Il ’56 è l’ultima stagione per Magni. Ma il Leone continua a essere indomabile. Al Giro cade nella 10a tappa, la Grosseto-Livorno, e si frattura la clavicola sinistra: è martedì. Di ritirarsi così non se ne parla. Dopo il giorno di riposo, Magni corre due tappe con l’impugnatura del manubrio ben imbottita per attutire le vibrazioni. Il sabato a Bologna si disputa la cronoscalata del Santuario della Madonna di San Luca. Colnago gli suggerisce di legare una camera d’aria al manubrio e di stringere tra i denti l’altra estremità, così da alleggerire la presa del braccio sinistro.
Sul San Luca Fiorenzo stringe una briglia in bocca per tenere a bada il suo ferreo destriero. Per farlo ci vuole un fisico bestiale. Magni ha trentacinque anni, una pelata che ne dimostra sessanta e un naso schiacciato come una scarpa, ricordo di una caduta di quasi vent’anni prima. Il resto è muscoli, ossa rotte, denti stretti, camera d’aria di lattice e telaio d’acciaio. Sblilenco e sofferente Magni sale la sua personalissima Via Crucis in quel sabato 2 giugno 1956, incitato e sospinto dall’abbraccio appassionato della città (allora) più rossa e comunista d’Italia. Quello che otto anni prima era “la camicia nera in maglia rosa” è diventato un’icona simbolo della storia del ciclismo: un fachiro in bicicletta.
Ma la via Crucis non finisce sul San Luca. Il giorno dopo, nella Bologna-Rapallo, Magni non vede una buca e cade sulla spalla già rotta: sviene. Lo adagiano su una barella ma si riprende e vuole continuare. Il gruppo, per rispetto, lo aspetta. È domenica. Quattro giorni dopo, giovedì, nella tappa che parte da Sondrio, scala lo Stelvio e arriva secondo a Merano. Non è finita: l’indomani, nella Merano-Monte Bondone, il Giro si perde nella tempesta: neve, ghiaccio, temperature sotto zero. Sembra la ritirata di Russia. Nella tregenda primo è Charly Gaul, che si aggiudica il Giro; ma alle sue spalle – si fa per dire… perché passano quasi otto minuti – sbuca Fiorenzo Magni, forse anestetizzato dal gelo… Due giorni dopo, all’arrivo a Milano, è secondo in classifica generale. È il suo nono e ultimo Giro d’Italia: a parte le tre vittorie, arriva due volte secondo e non esce mai dai primi dieci. Ci vuole davvero, un fisico bestiale.
Ma prima di far calare il sipario sulla stagione, e sulla carriera sportiva di Magni, c’è un ultimo colpo di teatro. 21 ottobre 1955, Giro di Lombardia. Fausto Coppi è in fuga con Diego Ronchini. Il gruppo che insegue pare rassegnato. Una macchina lo sopravanza, per portarsi sui fuggitivi. A bordo Giulia Occhini, la “Dama Bianca”. Non si trattiene e parte lo sberleffo: il gesto dell’ombrello. È come se avesse gettato un cerino nella benzina. Magni, il più incendiario, guida l’inseguimento. Scrive Gianni Brera:
«il furore di Magni è irresistibile. Pochi atleti al mondo sanno offrire questo spettacolo di potenza. La Dama, sciagurata, avrà modo di pentirsi. L’urlo continuo della folla avverte Magni e i suoi che Coppi e Ronchini sono ormai alle viste. Li colgono sulla Ghisolfa e Coppi, a bocca aperta nel secondare l’affanno, capisce che qualcosa di storto è avvenuto alle sue spalle».
Ancora una volta il Vigorelli è il palcoscenico di quel popolare melodramma che è il ciclismo. Coppi sa che quello può essere il suo canto del cigno e non si rassegna. Inizia la volata con una progressione come solo lui sa ancora fare, il pubblico lo asseconda in un boato assordante, ma quando sta per tagliare il traguardo all’esterno lo passa un lampo biondo: il francese Darrigade. Il Campionissimo mette il piede a terra e scoppia in un pianto dirotto che sembra quello di un bambino inconsolabile. Fausto cerca Fiorenzo con lo sguardo, quasi a chiedere il perché. Non lo sa ancora che cosa è successo. Magni gli dice: «Ti avrei inseguito fino in capo al mondo».
Fiorenzo appende la bici al chiodo, ma resta nelle corse. Per due anni è direttore sportivo alla Leo-Chlodoront: nel 1957 guiderà alla conquista del Giro d’Italia Gastone Nencini (sì, proprio quello cui aveva teso l’agguato due anni prima sullo sterrato di Tione di Trento…). Poi tre anni, dal ’60 al ’62, alla Philco, in cui lancia corridori come Guido Carlesi e Franco Bitossi. Dal 1963 al 1966 è Commissario tecnico della Nazionale: sfiora il Mondiale con Adorni, secondo nel 1964, dietro a Jan Janssen, ma è grazie a lui se, a partire dal 1966, i commissari tecnici possono seguire la corsa dalle ammiraglie.
Nel 2009 chiude la sua attività imprenditoriale nel campo delle automobili, per dedicarsi alla sua nuova creazione: dal 2006 ha promosso e fondato il Museo del Ciclismo Madonna del Ghisallo, un luogo meraviglioso, sospeso tra le montagne e il lago di Como, dove si coltiva con passione la memoria dello sport che Fiorenzo ha onorato per tutta la vita.
Fiorenzo Magni muore a Monza il 19 ottobre del 2012. Alfredo Martini, nella sua biografia La vita è una ruota, scritta con Marco Pastonesi, ricorda così quel momento:
«La sera in cui Fiorenzo si è sentito male, lo sapeva soltanto la sua famiglia. Avvisarmi, mi hanno poi detto,
sarebbe stato doloroso. Per tutti: per loro e per me. Così sono andato a dormire senza sapere che cosa fosse accaduto al mio amico. Poi, però, di notte, mi sono alzato. Insonne, agitato, nervoso. E solo la mattina, quando è squillato il telefono, ho capito il perché. Lo avevo sentito nell’aria. Per certe cose non c’è bisogno di telefonarsi.
Noi ci telefonavamo quasi tutti i giorni, e certi giorni anche due volte al giorno. Ci raccontavamo, ci confrontavamo, ci alleavamo. Tra noi, come sottolineava spesso Fiorenzo, non c’è mai stata mezza frase storta, anzi, neanche mezza parola storta. Ci volevamo bene. Eravamo diversi. Non politicamente, perché nessuno dei due ha mai fatto politica, ma ideologicamente. Però c’intendevamo, perché tutti e due ci comportavamo con onestà, e l’onestà non ha colore».
Più che “il Terzo uomo” Fiorenzo Magni fu il terzo incomodo e s’inserì nell’eterna contesa dei due litiganti, Coppi e Bartali, godendo spesso. Il numero 3, del resto, sembrava fatto apposta per lui: nel suo invidiabile palmarès ci sono 3 Giri d’Italia (1948, 1951 e 1955), 3 Giri delle Fiandre (1949, 1950, 1951), 3 campionati italiani su strada (1951, 1953 e 1954), 3 Giri del Piemonte (1942, 1953 e 1956), 3 Trofei Baracchi a cronometro a coppie (1949-51). Più 6 tappe e 24 giorni di maglia rosa al Giro (anche questi multipli di 3): non sono multipli di 3 le 7 tappe al Tour, ma come non ricordarle?
L’avete capito. La storia di Fiorenzo Magni è un romanzo a pedali. Un romanzo in cui dentro allo sport passa la storia, la politica, il lavoro, l’economia, le invenzioni di un’epoca in cui anche l’Italia pareva andare di corsa. Coppi e Bartali sono il simbolo di quel periodo. Bartali era il ciclismo, prima che arrivasse Coppi: era l’incarnazione di un’Italia antica e resistente, mai morta. In Bartali c’era qualcosa di medievale, un’irruenza da Savonarola. Coppi che aveva cambiato la faccia al ciclismo accompagnandolo nella modernità, era invece un enigmatico esistenzialista. Ma quanto a personalità e a carisma, Magni non era loro da meno. Era il leone ed era la volpe. E per sceneggiare la sua vita in un film, ci vorrebbe una scrittura da Machiavelli. Da Principe della pedivella.
Fonti
La vicenda giudiziaria dei “fatti di Valibona” e del coinvolgimento di Magni è stata dettagliatamente, e appassionatamente, ricostruita in un libro, Il caso Fiorenzo Magni. L’uomo e il campione nell’Italia divisa, scritto nel 2018 da Walter Bernardi. Vi si affrontano i molti chiaroscuri della vicenda e, anche a parecchi anni di distanza, l’incapacità collettiva del nostro paese a fare chiarezza e rielaborare una memoria condivisa e pacificatoria.
Altre fonti.
Auro Bulbarelli, Magni. Il terzo uomo, RAI ERI, 2012
Enrico Currò, Mario Fossati e la storia del giornalismo sportivo in Italia (1945-2010), Bolis Edizioni, 2018
Alfredo Martini con Marco Pastonesi, La vita è una ruota, Ediciclo Editore, 2014
Gianni Brera, Coppi e il diavolo, Rizzoli, 1981
Ernesto Colnago, Il Maestro e la bicicletta, conversazione con Marco Pastonesi, 66tha2nd, 2020
La tempesta perfetta
14 Marzo 2021Corsevan der Poel,Pogacar,Tirreno Adriatico
Piomba il gelo d’improvviso sulla Tirreno-Adriatico e piombano corridori che già da tempo segnano la storia. Piomba van der Poel: un po’ matto per come è scriteriato tatticamente, per come infiamma, per come non ha il minimo timore di far vedere quello che è. Attacca da lontanissimo: nei suoi geni scorre l’idea di un ciclismo che rifiuta tatticismi e preferisce lo scontro faccia a faccia.
Piomba Pogačar che ha ventidue anni, ma corre come se ne avesse il doppio. Gestisce squadra e corsa come se non avesse fatto altro in vita sua. Come se già quando era in culla gli avessero detto: vai, gestisci, comanda e domina. Attacca quando c’è da attaccare – esattamente come ieri – sempre in piedi sui pedali, sempre saldo sui dorsali, forte col freddo, col caldo, col sole, con la pioggia. Forte e basta: un fuoriclasse.
Piomba van Aert che in una giornata dura, da gente dura, con gente dura lì davanti, si difende perché è un duro, perché va forte ovunque pure lui, ed è comunque terzo.
Piomba Felline: ce lo eravamo un po’ dimenticati eppure è lì davanti. Primo degli umani si dovrebbe dire. Piombano Fabbro, piccolo ma sempre più a suo agio in mezzo ai grandi, lui che grande vorrebbe diventarlo, e De Marchi, suo conterraneo e non sarà un caso. È il più vecchio tra i primi dieci ed è un piacere rivederlo e riscoprirlo, perfettamente disinvolto in un ordine d’arrivo da grande classica che mette assieme corridori di ogni tipo.
Dal cielo smette di scendere la pioggia, la strada è infida, il vento ti sposta, corridori bagnati fradici e infreddoliti, crisi improvvise, gerarchie ribaltate, il nuovo che rifiuta il vecchio, un modo di interpretare le corse che fa a cazzotti con quello del recente passato. Il disegno della tappa è quello che tutti bramiamo per passare una domenica pomeriggio chiusi in casa e godere di uno spettacolo difficilmente ripetibile, ma che forse, a pensarci bene, con questa generazione potrebbe diventare una meravigliosa abitudine.
Quando van der Poel parte mancano circa due ore di corsa e in pochi minuti si costruisce un margine che fa pensare a una “facile vittoria”. Forse una giacca, qualcosa, avrebbe dovuto metterla: è infreddolito e bagnato fradicio. Passaggio dopo passaggio sotto il traguardo la sua faccia si trasforma come una maschera di plastilina in mano a un bimbo: prima impassibile, poi sotto sforzo, poi corrucciato, alla fine distrutto. Un uomo lo insegue a piedi per qualche decina di metri come fosse quel ciclismo che ci siamo lasciati alle spalle due anni fa, quello della gente per strada e dell’entusiasmo che ti fa spingere ancora più forte.
Quando Pogačar parte invece è perfetto, non ha bisogno della spinta del pubblico, delle urla nelle orecchie, né di bandiere slovene. È perfetto nel tempo e nello stile, nel modo e nell’idea: quella di prendere più distacco possibile da van Aert e non lasciargli speranze per la cronometro di martedì.
Quando van Aert si getta sul passo, col suo passo, limita i danni, mentre davanti Pogačar quasi piomba su van der Poel – come Yates ieri su di lui. Ma non basta. Vince van der Poel, che non riesce a esultare e allora esultiamo noi per lui, secondo Pogačar, terzo van Aert, insomma sempre loro.
Insomma uno spettacolo, come ci sta abituando questa generazione di corridori che all’improvviso piomba sul ciclismo e fa la storia. Il punto sapete qual è? Che siamo solo all’inizio.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto
Su, verso Prati di Tivo, si arriva e si vive
13 Marzo 2021CorsePogacar,Tirreno Adriatico,Yates,Prati di Tivo
Mentre passa una parte del gruppo c'è un signore che esclama: «Io qui a Prati di Tivo ci vivo, mica ci arrivo!» e i corridori sfilano alla spicciolata sotto la sua finestra. Mattia Bais, invece, vive la fuga: ogni volta ricomincia da capo come fosse il Giorno della marmotta in bicicletta. In mattinata spiegava: «Oggi non scappo, ci proverà un mio compagno di squadra». Accendi la televisione e per contro te lo ritrovi davanti con nove minuti di vantaggio e quattro matti come lui che su a Prati di Tivo ci vogliono arrivare il prima possibile, prima o dopo il gruppo dei migliori non importa, ciò che conta come sempre non è la caduta, ma l'atterraggio.
Bernal e Pogačar sono i più attesi. Hanno rispetto, sentono rispetto, trasmettono orgoglio e talento. Pozzovivo, uno che corre in bici da quando i due non erano ancora nati, afferma: «Battere Pogačar e Bernal? Ma per me già stare alla loro ruota è un successo» e su verso Prati di Tivo proviamo a scrutare la sua sagoma, che ben presto si dissolverà.
Su, verso Prati di Tivo, pensiamo di affidarci al profilo inconfondibile di Nibali, nemmeno lui qui vive, ma vinse: era il 2012, un tiro di schioppo a guardarsi indietro, un'epoca fa a vedere giovani ragazzi che cambiano le gerarchie del ciclismo. Come Fabbro, settimo al traguardo, migliore degli italiani (con l'intenzione di esserlo sempre più spesso quando la strada sale) e proveniente dalla stessa squadra che ha lanciato Bais - il Cycling Team Friuli. «Ieri sono stato fortunato a non cadere. Cosa significa? Che la ruota magari gira per il verso giusto». E oggi la ruota ha girato.
Su verso Prati di Tivo non vive nemmeno Ciccone, seppure abruzzese, teatino, corridore regionale; Adriano De Zan avrebbe cadenzato magnificamente "en-fant-du-pa-ys" e così lo avrebbe definito.
Parte ai -10,8 chilometri dal traguardo, ma un Ganna dal cuore di ghiaccio e dalle gambe di acciaio, lo riprende - sfuma subito Ciccone. Sul cuore di ghiaccio si scherza, sia chiaro, questioni di squadre, di tattiche, di normali svolgimenti di corsa, ma se parliamo di anime glaciali riguardatevi il finale di oggi della Parigi-Nizza: Roglič che bracca Mäder, in fuga tutto il giorno, a meno di cinquanta metri dall'arrivo, lo supera e vince. Mäder di stizza lo manda a quel paese.
Si sale e ci si affatica - sapeste che novità - fa caldo, quel bel caldo primaverile, ma su, ancora più su, verso i 1450 metri di Prati di Tivo tira vento e intorno si vede la neve. Parte Bernal con Pogačar: un fuoco di paglia. Parte da solo Pogačar qualche chilometro dopo: un incendio che accende la corsa. Dietro si arrabattano, gli avversari si agganciano ad ogni granello di energia per salvare il salvabile. Saltano Thomas e Bernal, Nibali era già saltato prima, ma van Aert no, con quella maglia blu come il mare, si difende e sarà nono e ancora in piena lotta per vincere la Tirreno-Adriatico. Landa è sempre lì, ma non basta, fa sempre un po' rabbia e un po' tenerezza - arriva quarto battuto allo sprint da Higuita.
Simon Yates rinviene talmente all'improvviso (avrà pensato sicuramente Pogačar: "eh questo da dove arriva?") che ancora qualche centinaia di metri e magari riprende il giovane sloveno. Ma la regola è chiara, quello è il traguardo. Lì, sotto lo striscione, termina la sfida.
E mentre Pogačar esulta, con quelle gambe possenti, e un ciuffo di capelli che gli esce dal casco, il signore che vive su a Prati di Tivo è soddisfatto: sono arrivati tutti. Chiude la finestra sulla corsa e sa che anche oggi è stato un bel giorno, perché una bella corsa gli è passata sotto casa.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Orgoglio e uguaglianza: parola alle atlete
11 Marzo 2021Approfondimenticiclismo Femminile,World Tour,Crowdfunding
Nelle scorse settimane ha destato clamore la disparità di montepremi che Davide Ballerini e Anna van der Breggen si sono aggiudicati in Belgio per la vittoria della Omloop Het Nieuwsblad. L'italiano ha guadagnato 16.000 euro, mentre l'olandese solo 920 euro. Questo divario di montepremi, lo è anche di stipendi, non era certo una novità ma, si sa, la crudezza dei dati molte volte riesce a smuovere coscienze che i meri discorsi non arrivano a toccare.
A mettersi in moto è stato Cem Tenyeri, tifoso olandese, che, «disgustato dalla disparità di trattamento», lunedì primo marzo ha indetto una raccolta fondi attraverso la piattaforma GoFundMe per provare a eguagliare i montepremi in vista della Strade Bianche, proponendo poi la suddivisione del raccolto in percentuali prestabilite fra le prime cinque atlete giunte al traguardo. La risposta è stata impressionante ed in cinque giorni sono stati raccolti 25578 euro. Questo ha significato che il montepremi totale a disposizione delle prime cinque classificate è passato da 6.298 euro a 31.876 euro, andando a superare quello previsto per i colleghi uomini, fissato a 31.600 euro, e che, per citare un esempio, la vincitrice Chantal van den Broeck-Blaak, che avrebbe dovuto incassare 2.256 euro, in realtà ne incasserà 10.441, vedendo il proprio premio aumentato del 32%.
A caldo, Ashleigh Moolman Pasio, ciclista del team Sd Worx, ha subito commentato la vicenda, spiegando di essere commossa in quanto «è davvero toccante vedere che gli appassionati di ciclismo, in un periodo difficile come questo, siano disposti a rinunciare a denaro che servirebbe alla loro famiglia per metterlo a disposizione di una causa così nobile». L'entusiasmo, a dire il vero è stato generale, ed Elisa Longo Borghini ha fatto ben presto seguito a queste dichiarazioni introducendo un tema importante. L'atleta di Ornavasso, ringraziando i donatori, ha scelto insieme al suo team, Trek Segafredo, di destinare la propria quota a progetti che possano sostenere il ciclismo femminile sul lungo termine.
In Trek, non si è ancora deciso come e dove spendere questi guadagni, il passo è però importante per fare in modo che questa donazione possa cambiare qualcosa nella lunga strada verso la parificazione fra uomini e donne nel ciclismo. Già, perché la questione è ormai dibattuta da anni e la consapevolezza maggiore in gruppo è che non possa essere questa la via per migliorare la condizione del ciclismo femminile. Tra l'altro, proprio Trek Segafredo negli scorsi mesi aveva innalzato a 40.045 euro la paga minima prevista per le proprie atlete, andando così a eguagliare quella prevista per gli uomini secondo le tabelle UCI. Le stesse tabelle prevedono per le donne una paga minima di 20.000 euro e una legge, attesa da molto tempo, dovrebbe intervenire per ristabilire la parità.
Il gesto lodevole di Tenyeri e dei donatori, se da un lato suscita ammirazione, dall'altro continua a lasciare l'amaro in bocca. Marta Bastianelli ci spiega: «Ringrazio di vero cuore tutti coloro che hanno donato e credetemi sono gesti che nessuna di noi potrà mai dimenticare. Però non posso fermarmi qui. Sono convinta che non si sarebbe mai dovuti arrivare a questo punto e che sia grave esserci arrivati. Abbiamo fatto un passo importante verso il ciclismo professionistico anche per noi donne, non possiamo perderci in queste cose. Ha detto bene Anna van der Breggen: è una vita che lottiamo per la parità salariale e di montepremi e ancora non è cambiato nulla. Per me e per le veterane del gruppo ormai non c'è più speranza di vedere questi risultati raggiunti mentre siamo in attività, spero solo ci sia per le più giovani. Siamo ancora troppo distanti dagli uomini e fa tanta tristezza pensarci. Credo che dovremmo ringraziare le atlete della Trek Segafredo perché, con la loro mossa, hanno scelto di essere lungimiranti e di fare qualcosa per il futuro di questo movimento. Spero che tutte assieme si riesca a portare un cambiamento».
Sofia Bertizzolo, raggiunta telefonicamente nel pomeriggio di ieri, aggiunge altri tasselli. «La situazione che si è creata ha fatto molto discutere e reso evidente, a chi ancora non la conoscesse, la condizione del ciclismo femminile. La stampa ha il dovere di parlarne per tenere accesi i riflettori su questa tematica. La soluzione non può essere nelle donazioni, non è questo il sistema per andare a pareggiare i premi delle gare. I finanziamenti di cui ha bisogno il ciclismo femminile vanno usati in altro modo: in primis per aumentare la visibilità del nostro sport. Se le persone ci seguono, se la televisione e gli organi di informazione ci raccontano, si innesta un circolo virtuoso per cui i montepremi ed i salari aumentano di conseguenza. Se si tiene davvero al ciclismo femminile, chi di dovere deve dargli la possibilità di crescere, prima dei soldi». Le fa eco Soraya Paladin: «Sono onorata del gesto. Però sembra tanto di fare elemosina e credo che nessuna di noi lo voglia. Queste persone sono state davvero di cuore ma non è loro dovere intervenire per aiutarci, spetta ad altri. Così facendo il montepremi della Strade Bianche sarà eguagliato e tutti gli altri? Quello delle gare minori? Altra questione: alle squadre fuori dal circuito World Tour non pensa nessuno? Non si può pensare di proseguire e di crescere solo grazie alla benevolenza di poche persone, che normalmente nemmeno si occupano di ciclismo».
Katarzyna Niewiadoma si sofferma invece sul senso di cura e di attenzione che questo gesto mette in risalto. «È incredibile vedere quante persone hanno provato a prendersi cura di noi senza essere obbligate a farlo. Siamo rimaste tutte sorprese. Io, in particolare, sono rimasta meravigliata da quante persone siano interessate al movimento femminile. Sia chiaro: non dobbiamo aspettarci che il cambiamento, che tanto desideriamo, avvenga tramite donazioni, però siamo certe che quando avverrà, quando i media ci daranno più spazio e quando la nostra esposizione mediatica sarà maggiore, il pubblico sarà lì per noi. La gente è affezionata a noi, ce lo ha dimostrato. Solo a pensare a questo sto bene».
Alice Maria Arzuffi comprende benissimo questa sensazione di Niewiadoma, ma non riesce a nascondere una certa tristezza: «Il gesto è molto apprezzato e dimostra che i tifosi hanno capito bene la disparità che ci troviamo ad affrontare. Siamo nel 2021, negli ultimi anni siamo cresciute moltissimo, il nostro ciclismo non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di sette, otto anni fa, ma ci vediamo ancora costrette a ricorrere alla solidarietà. Noi donne non chiediamo solidarietà. Noi vogliamo vengano riconosciuti i nostri meriti. Questo, per esempio, non avverrà mai fino a che le gare femminili verranno trasmesse in differita e solo per i chilometri finali. Ce ne rendiamo conto?».
Intanto uno studio di Damm Van Reeth, professore della Facoltà di Economia e Commercio di Leuven, ha sottolineato come in termini assoluti la gara femminile abbia raccolto più ascolti di quella maschile. In termini di cifre parliamo di uno share del 21,5% per le donne, contro il 18,6% per gli uomini. Ora bisogna passare ai fatti perché di parole se ne sono spese davvero troppe.
Foto in evidenza: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021
Il mestiere di correre veloci
10 Marzo 2021CorseTirreno Adriatico,Parigi Nizza
Cosa vuol dire essere il più veloce del mondo? Che mestiere è quello del velocista? Trovarsi in mezzo a tutta un’agitazione di bici che si sfiorano e gomiti che si toccano; teste che si arrovellano, urla e spintoni, mani che troppo spesso si levano dal manubrio. Un “occhio!” gridato e buttato lì, e di nuovo sgomitate, i soliti freni che sfrigolano e catene che vibrano a una velocità tale che risulta impercettibile alla vista.
L’adrenalina è aria pesante: mai avere paura, perché in quei frangenti significherebbe tirarsi indietro senza infilarsi negli spazi che si vengono a creare, significherebbe non sfruttare l’occasione.
Essere il più veloce su due ruote non è come esserlo su una moto. Lì è diverso: la puzza di benzina, le ruote larghe. Qui le ruote sono finissime, si corre su linee sottili, l’odore è quello del sudore, il dolciastro è il liquido delle borracce che schizza dappertutto. E poi di nuovo urla e strepiti come prima. Gambe, leve e pedivelle. Fiducia e pelo sullo stomaco. Transenne vicinissime, copertoni e sellini a un palmo dal naso. Progressione o esplosività, colpo d’occhio e intuito.
Scartano, velocisti e passisti, sbattono la porta in faccia all’avversario, rischiano, azzardano, manipolano, creano varchi e cercano spazi. A vederli dall’alto mettono paura, a starci in mezzo nemmeno potremmo immaginarlo.
Essere velocisti non vuol dire solo sprigionare watt, ora si dice così, ma insistere, insistere, insistere, sempre più veloci e senza timore, trovando consistenza per vincere l’attrito. Abbassarsi per diventare simile a una palla di cannone come fa Ewan o come faceva Cavendish, oppure preferire la progressione da dietro, avere panterina scaltrezza, essere letali nel colpo di reni. Ci sono volate che arrivano all’improvviso come folate e velocisti che sognano i Campi Elisi. Ci sono sprint indecifrabili come quelli del Festival della Velocità di Sanremo, dove per sei o sette ore sembra non succedere nulla, poi per venti minuti hai il cuore in gola.
Si vuole avere strada libera davanti, e allora essere il più veloce del mondo vuol dire anche scegliere la ruota giusta al momento giusto e oggi la migliore in assoluto è quella di Mørkøv: fortunato chi la può battezzare. Pesci-pilota li chiamiamo noi, specialisti del lead-out per dirla all’inglese. Mørkøv studia finali e avversari e diventa la scheda madre dei suoi compagni di squadra, una sorta di appendice del loro furore in volata. Kristoff, Viviani, Bennett, con il danese sono diventati (tra) i più forti al mondo. I due (Mørkøv-Bennett) oggi non sono a dare spettacolo alla “Tirreno”, ma qualche chilometro più in su, alla Parigi-Nizza.
Verso Lido di Camaiore, invece, alla Tirreno-Adriatico, matti come gatti, ci sono Viviani, Ewan, Ballerini, van Aert, Merlier e altri. Le loro potrebbero essere intese anche come prove generali per la Classicissima ma quel giorno dovranno fare i conti con van der Poel e Alaphilippe (sì sempre loro).
Oggi si sono sfidati, hanno affilato muscoli e denti, provato trenini e scambiato vagoncini. Alla partenza Ewan era carico: «Sono qui per vincere» ha detto. Potrebbe mai pensare qualcosa di diverso? Merlier invece osservava con rispetto e venerazione la livrea del suo compagno van der Poel: «Orgoglioso di avere lui, oggi, a disposizione». Ebbè.
Un gruppo di muratori, finito il turno di lavoro, non rientra subito a casa, ma decide di aspettare il passaggio della corsa, tra una sigaretta e l’altra. E la corsa passa: veloce. Velocissima, come van Aert in progressione. Ha avuto la strada dritta e libera e fulminato i velocisti. Di mestiere non è uno sprinter ma di sicuro conosce bene il modo per arrivare prima degli altri dal punto A al punto B.
Pronto, scaltro, vincente, potente: perché per ogni van der Poel c’è un van Aert. Così come per ogni Pogačar c’è un Roglič che solo pochi minuti prima, alla Parigi-Nizza, vinceva in salita con strada bella libera e in progressione. Nemmeno Roglič è un velocista, ma è certo che anche lui oggi ha corso più forte degli altri.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
A testa alta nonostante tutto: intervista a Gianni Savio
9 Marzo 2021ApprofondimentiAndroni,Gianni Savio
Gianni Savio compirà settantatré anni fra poco più di un mese, il 16 aprile per l’esattezza. Quasi la metà di questo periodo, Savio lo ha trascorso nel ciclismo, da quel corso per team manager organizzato dalla Federazione Ciclistica Italiana a cui partecipò nel lontano 1985. Per questo le sue parole, mentre si siede al tavolo con noi, sono un pugno allo stomaco, in primis per i suoi collaboratori. «Non so se proseguirò, forse lascio il ciclismo».
La ferita che brucia è quella dell’esclusione della sua squadra, l’Androni Giocattoli-Sidermec, dal Giro d’Italia 2021 e a nulla sembrano servire le parole di chi, al suo fianco, gli riporta alla mente ciò che è riuscito a fare in questi anni nel ciclismo: scoprire nuovi talenti, ingaggiarli, regalargli una nuova vita qui, dopo averli scoperti in Sudamerica, certe volte ricostruirgli una carriera dopo periodi bui.
«Quello che dicono sarà anche vero, ma a cosa è servito? Se la squadra che ha fatto tutto questo non viene ritenuta degna di partecipare al Giro d’Italia, per chi abbiamo lavorato? Lo so, lo so, la gente se n’è accorta, la gente crede in noi ed io gliene sono grato, ma per mandare avanti una realtà di questo tipo servono sponsor importanti e gli sponsor guardano al calendario gare a cui si partecipa per finanziare un progetto. Fino a che si segue una logica meritocratica, ti rimetti in piedi e continui a tenere duro cercando di portare più risultati, se cade il merito, cade tutto. Diventa una lotta contro i mulini a vento e contro quelli si perde sempre».
Savio ce lo dice chiaramente: è il non essere in grado di trovare una motivazione logica a non farlo stare tranquillo. «Quando qualcuno mi spiegherà perché a noi è stata preferita la Vini Zabù, allora forse mi metterò il cuore in pace. Ma voglio una spiegazione oggettiva, perché io ragiono sui dati ed è dai dati che si valuta il merito. Il fatto che soggettivamente si sostenga di essere stata la migliore squadra in questa o quella circostanza è ininfluente. Anche io potrei dire così di Androni, e ne sono anche convinto, ma non lo faccio. Perché sarebbe una valutazione di parte. L’ho detto e lo ripeto: il problema non è tanto il mancato invito al Giro, il problema sono i criteri di scelta se portano a escludere una squadra che da quattro anni è la migliore italiana tanto della Ciclismo Cup, quanto del ranking Uci in favore di un team che in quella classifica è sempre arrivato dopo di noi».
Gianni Savio è un leone ferito, ma l’orgoglio non sente ragione. «Alla mia età non mi tiro più indietro di fronte a ciò che non è giusto. Credo la dignità sia un valore. Continuerò a difendere le mie ragioni anche se questo dovesse voler dire uscire dal ciclismo. A me piacciono le persone che possono camminare a testa alta e guardare tutti dritti negli occhi. Mi costa dolore immaginarmi lontano dal ciclismo, sia chiaro, ma non sono più disposto a tollerare l’ipocrisia di parte di questo mondo».
Accanto a Savio passa Simon Pellaud, gli mette una mano sulla spalla e lo saluta con un disarmante e disarmato: «Ciao Gianni». Savio lo ha soprannominato “Simonissimo” e ci racconta che con lui qualche battuta scappa sempre. Poi riprende: «Comunque non ho detto che smetto, ho detto che devo valutare». Il tono della voce cambia, come lo sguardo. «Se deciderò di non lasciare, sarà solo per questi ragazzi. Sono come figli per me e so quanto sarebbero dispiaciuti. Non devono essere loro a pagare questa situazione. Non ho nemmeno idea di cosa potrei fare se lasciassi il ciclismo. Io vivo pensando a loro. Quando qualcosa non va, mi sveglio la notte e rimugino, penso, programmo».
Stiamo per porre un’altra domanda, quando Savio estrae dalla tasca il telefono. «Guarda qui. L’altro giorno ho fatto gli auguri di compleanno a un mio atleta di qualche anno fa. Ecco la risposta: “Grazie Gianni. Sai che, se hai bisogno, puoi contare su di me”. Questo ti ripaga di tutti i sacrifici e ti convince a farne anche di più importanti, perché per questi ragazzi vale la pena».
Alla base del rapporto, ci spiega Savio, c’è l’onestà intellettuale. «Io metto sempre in guardia gli atleti dalle illusioni e dall’ossessione per la vittoria. Le illusioni ti intrappolano, non ti permettono di vedere la realtà: non c’è cosa peggiore per un uomo. L’ossessione per la vittoria è cosa diversa dal voler vincere, che è buona dote per uno sportivo. Quando si è ossessionati dalla vittoria si perde lucidità, qualche volta si è disposti a commettere errori intollerabili, pur di vincere. In certi casi si arriva a giocare sporco. Ho sempre detto chiaramente ai miei ragazzi sino a dove, secondo me, sarebbero potuti arrivare. Alcuni lo hanno accettato, altri hanno preferito correre da chi assecondava quelle illusioni. Credo poi i risultati parlino chiaro».
Intanto si continua per la propria strada e Gianni Savio ha già un pensiero fisso. «Ho scoperto un ragazzo che credo possa segnare il ciclismo dei prossimi anni: si chiama Santiago Umba e presto lo conosceranno tutti meglio. L’ho portato in Italia e sta iniziando a conoscere i meccanismi di questa squadra. In questi giorni sono molto arrabbiato, ma pensare alle possibilità di questo atleta mi rasserena. Sarebbe un peccato non poterlo seguire nella sua crescita. Vedremo».
Foto: Luigi Sestili
Quel sogno chiamato Olimpiade: intervista a Martina Alzini
8 Marzo 2021RitrattiCiclismo su Pista,Tokyo 2020,Martina Alzini
Martina Alzini ha iniziato a vincere sin da quando era bambina. Aveva solo sette anni quando, nel 2004, al termine di una gara, un giornalista le chiese quale sarebbe stato il suo sogno. «Risposi di getto che da grande avrei voluto partecipare alle Olimpiadi. Mia madre non la prese molto bene. La sera, in disparte, mi disse: “Si tratta di umiltà, Martina. È come se, appena iniziato a lavorare, dicessi che sogni la pensione”. Insomma, da quel giorno non lo dissi più, ma se penso anche solo alla possibilità di essere a Tokyo, mi si rompe la voce e mi viene la pelle d’oca».
Con mamma, Martina non ha più parlato di quel giorno ed oggi, ridendo, ammette: «Sto aspettando il momento giusto per ricordarglielo. Se le cose vanno come spero, potrebbe non essere lontano». Parole da cui trapela felicità, perché, prima di tutto, Martina Alzini è una ragazza felice. Sarà perché, come dice lei, fa un lavoro che la fa sempre sentire a casa, in famiglia, perché la bicicletta è di famiglia. «A tre anni ho voluto che i miei nonni mi togliessero le rotelle dalla bicicletta e solo quel cortile sa quante ne ho combinate. Quando succede così, poi, ogni volta che riprendi in mano la bici, anche a centinaia di chilometri di distanza, la mente torna lì e tu ti senti ancora quella bambina».
La forza dei ricordi e le radici che hai piantato ti tengono stretta, anche se le cose, inevitabilmente, cambiano. «Si inizia per gioco ed è giusto così. Guai a togliere ai più piccoli le domeniche spensierate nei parchi o in gara. Se quando penseranno al ciclismo, penseranno a quei tempi, avranno sempre un bel ricordo e non lasceranno mai la bicicletta. A volte la detesteranno, come accade a me, ma torneranno sempre in sella. Quei giorni gli daranno la forza per andare oltre».
Ed è proprio negli istanti di odio verso il proprio sport che nasce la consapevolezza. «Non è facile arrivare nel gruppo delle élite. Devi confrontarti con delle campionesse, con ragazze molto più grandi di te, a volte con mamme. Devi riconoscere i tuoi limiti, altrimenti la vita te li sbatte in faccia. Certo non è semplice ammettere che non sei portata per una certa gara o che quello che hai sempre sognato in realtà non è realizzabile, tuttavia, se non hai il coraggio di dirti la verità, non cresci». Crescere, per Alzini, vuol anche dire essere coraggiosi, imparare ad accogliere le critiche ed i consigli in maniera costruttiva. «Ho avuto la fortuna di crescere “sportivamente” con Marta Bastianelli. Lei è madre, non so come fosse prima della nascita di Clarissa, so com’è oggi ed è per questo che la chiamo “mamma Marta”. Sa insegnare con una cura rara, se hai voglia di imparare, solo guardandola diventi grande».
Crescere è faticoso, ti impone arbitrarie verità ma anche nuove possibilità. «Da giovanissimi si desidera tutto ed i sogni sono una sorta di massa informe, da adulti, forse, se ne hanno meno e molte ambizioni si lasciano per strada, ma i sogni che restano hanno una forma ben chiara, diventano progetti ed inizi a lavorarci». Lo zio di Martina gestisce una squadra di paraciclisti in handbike e lei ha imparato a lavorare in un certo modo proprio osservando loro. «Ho iniziato a conoscerli quando avevo solo pochi anni e a forza di vederli ho fatto mio un poco del loro modo di essere. Io dico che hanno una voglia incredibile di raggiungere dei traguardi. Ecco, a noi ogni tanto questo manca. Così passiamo il tempo a lamentarci, senza averne alcun diritto, perché siamo fortunati, solo che non lo vediamo».
Il suo lavoro è iniziato dalla pista, da un velodromo di Busto Garolfo, per poi transitare da Montichiari. Forse sarà proprio la pista a portarla a Tokyo, ma non è questo il motivo per cui Alzini la consiglia a tutti i genitori. «Io ho iniziato a girare in pista perché potevo pedalare tranquillamente senza la presenza delle auto. L’insicurezza stradale porta molti ad allontanarsi dal ciclismo. Perché non torniamo nei velodromi o nei boschi in mountain bike? Quando si prende confidenza con il mezzo, si va anche in strada».
L’Olimpiade, in ogni caso, sarà un tassello importante ma non un punto di arrivo. Martina è chiara: «Sarà una base per continuare a costruire con più convinzione, non un motivo per sedersi sugli allori. Non fa parte del mio carattere». Qui l’affondo: “Io non sono solo la ragazza che vedete sui pedali. La mia realtà quotidiana è ricca di sfumature, come il mio carattere. In bici sembriamo tutte forti, grintose, senza paure. Non lo siamo ed è bene ricordarselo e ricordarlo».
Fin dai tempi delle superiori Martina Alzini amava lo studio delle lingue e si immaginava viaggiatrice, una volta adulta. Oggi, che grazie al ciclismo ha viaggiato e continua a viaggiare, sa qualcosa in più. «Quando sei abituata a viaggiare, perdi la brutta abitudine, che spesso si ha, di giudicare “normali” o “corretti” solo i comportamenti che sei abituata a conoscere. Ti rendi conto che molte volte noi stessi sembriamo strani agli altri e capisci quanto si possa soffrire a essere considerati diversi. Viaggiare è una delle più grandi possibilità di comprensione della realtà che l’uomo ha».
Foto: Paolo Penni Martelli
La natura dei fuoriclasse
6 Marzo 2021CorseStrade Bianche,van Aert,van der Poel,Bernal,Pogacar,Pidcock
Liberi scorrazzano i cavalli nei campi attorno a Colle Pinzuto. In tensione i corridori scavallano il penultimo settore in sterrato, frustrando gambe e frustando pedali. Con lingue in fuori e gote rosse, senza rispetto né riguardo per i sentimenti dei propri avversari. Senza avere nemmeno il minimo ritegno per le nostre coronarie: due ore finali di corsa come celebrazione assoluta. Da farti alzare dalla sedia, da far scomodare tutta una lista di aggettivi e di superlativi che dicono si dovrebbero lasciare da parte, ma che vengono in soccorso, mentre il cuore solo un’oretta dopo l’arrivo dei corridori inizia a rilassarsi. Spettacolare, meravigliosa, la definiamo così, in modo banale, ma senza orpelli. Una corsa bellissima figlia dell’interpretazione di una generazione di fuoriclasse.
Tutto attorno alla Strade Bianche 2021 è verde intenso, per la natura è stato un buon inverno e pare una giusta primavera. All’ombra fa freschetto il giusto, al sole si suda, a tratti c’è una leggera bava di vento che non dà fastidio, in altri momenti, invece, sembra nemica di chi va in bicicletta. Spira di lato, soffia impazzita, muove gli alberi che sembrano ossessi sbilenchi appesi un po’ per caso, un po’ per necessità.
Il verde spiritato si alterna a un giallo paglierino che sono campi, sì, ma è anche terra sabbiosa, argillosa, creta che a vederla fa quasi male agli occhi. Spuntano le prime timide fioriture; il cielo, stamane piombo fuso sulla testa di ciclisti e di senesi, ora è blu come avessero capovolto il mare. Le nuvole sono barche sparse di pescatori appiccicate a testa in giù e che in qualche modo provano a rientrare verso casa.
La polvere che nasconde i corridori è una coltre di nebbia lattiginosa che brucia i polmoni. Lo sterrato è battuto. Cani sparsi a bordo strada come spettatori; spettatori (pochissimi) che dialogano in toscano: «Eppure ai corridori gli garba» afferma uno. «Beh anche se un gli garbasse l’è la loro vita» risponde l’altro.
Brucano le bestie nei campi, bucano le gomme i corridori e arrancano, si fermano, bestemmiano, ondeggiano, in un tumulto di macchie colorate di squadre e sponsor. Inviati di stampa e televisioni in scampagnata solo apparente rincorrono auto e ciclisti, filmano, applaudono, salgono e scendono, si affrettano e annaspano. Si annullano le urla fino a una silente Piazza del Campo dove l’unico sussulto sono i rumori dell’attrito di ruote e telai, oppure della potenza di van der Poel che emana un suono che durerà nel tempo.
Fuggono i fuggitivi, si fiondano gli inseguitori, allungano i più forti, resistono i temerari. Scappano i primi con nomi pittoreschi e diverse storie da raccontare, ma magari sarà per un’altra volta. Sono Bevilacqua – e quanto ce n’è bisogno oggi – e Rivi; Walsleben, Zoccarato – grande da sembrare infinito – Petilli e Van der Sande – uno figlio di pizzaioli, l’altro di paninari – Ledanois e Tagliani.
La loro sorte è segnata, ma se ne fregano. Valli a capire e infatti li capiamo. In otto di loro hanno vinto tre corse tra i professionisti e se per Zoccarato e Rivi è anche normale – sono al primo anno – per Ledanois è un cruccio, lui che nel 2015 trafisse Consonni nel Mondiale Under 23. Walsleben, infine, serve a riequilibrare il karma: è il meno giovane davanti, non ha mai vinto in vita sua, ma corre in squadra con van der Poel.
Dura poco la loro sortita, il tempo di un sospiro, di un faticoso respiro. Di uno sterrato dietro l’altro. In gruppo si attacca: è nella natura di questa corsa. Folle, differente, affascinante e ammaliante, spettacolare, pericolosa, amata dai corridori. Casali, ulivi e campi ovunque, curve infide, salite indigeste, discese incontrollabili; dislivello e fatica da tappa di montagna, cadute e polvere, ristoranti, chiesette e scaramucce.
Sulle Sante Marie arriva il primo grido “che spettacolo! che corsa!”. Un gruppo di stelle in parata con van Aert che appare irresistibile. Vanno via Pidcock, Bernal, van Aert, van der Poel, Gogl – ribattezzato Van Gogl per l’occasione – Pogačar, Simmons, Geniets. Quest’ultimo cede, poi Simmons buca e non rientra più. Su Monteaperti tutto cambia: è sempre la natura di questa corsa, è ciò che più diabolico prepara il ciclismo. Van Aert sembrava il più forte ma si stacca (con Pidcock). Van Aert ha un cuore grande che potrebbe battere per tutti gli abitanti del pianeta e allora rientra per poi staccarsi di nuovo.
E su Le Tolfe cede pure Pogačar e ci ritroviamo con Bernal, Alaphilippe e van der Poel a giocarsi tutto verso Piazza del Campo. Il resto è storia nota, non è mai stata noia: van der Poel che vince, Alaphilippe secondo, Bernal terzo, van Aert quarto. Il modo in cui l’olandese ha vinto servirà per scomodare gli appassionati: “ma quanta potenza ha sprigionato van der Poel?” ci si chiederà.
Qualcuno dirà di avergli visto perdere un pedale nella penultima curva, altri che avranno visto schizzare scintille, volare schegge di sanpietrini. Altri ancora diranno di averlo sentito urlare al traguardo come mai prima. Le gote rosse, di nuovo, i muscoli in fuori. Una tattica perfetta. «Per vincere le gare importanti, devo iniziare a correre con la testa», raccontava alla vigilia. E lo ha fatto. Perché corridori così imparano da ogni dettaglio. È la natura dei fuoriclasse.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021