Il mestiere di pedalare
11 Novembre 2021StorieWilliam Bonnet,Thibaut Pinot
Il 6 ottobre del 2021 William Bonnet ha smesso di pedalare in gruppo. «Non del tutto però: prima di finire la stagione sarò impegnato ancora in due gare di ciclocross, una per fare un favore al mio amico Minard, una in memoria di Coyot (ex professionista francese morto in un incidente stradale nel 2013 NdA)» aggiunge, poi, in un'intervista rilasciata sul sito ufficiale della sua squadra, la Groupama-FDJ, di fare schifo con la bici fuoristrada e che una volta appesa davvero la bici al chiodo, la userà solo per farsi ogni tanto un giro con gli amici.
Non ha rimpianti William Bonnet, 39 anni, 17 anni da professionista, poche vittorie ma niente male: l'ultima della sua carriera alla Parigi-Nizza, 11 anni fa che è un'epoca fa, e Bonnet, fisico da granatiere, spunto veloce, superò sul traguardo un ventenne Peter Sagan. Erano esattamente i giorni in cui Sagan si rivelò al mondo - e difatti Sagan vinse due delle tre tappe successive e furono le prime due vittorie da professionista. Ma quelli erano anche i giorni in cui Bonnet iniziava a trasformarsi: da uomo veloce a uomo squadra, affidabile regista in corsa a cui gli affideresti persino il tuo cuore. Cosa che nella sua squadra faranno.
Il tempo corre via veloce e non ha rimpianti, Bonnet, anche perché di recente non si sentiva più competitivo: «Alla fine della scorsa stagione mi sentivo ancora in grado di dare ancora il mio contributo, ma adesso no e va bene così. Ho dato tutto, ho 39 anni e il mio fisico non risponde più come vorrei». Non ha paura del vuoto, di quello che sarà, e anzi subito dopo il traguardo della sua ultima corsa si è come liberato di un macigno iniziando a restituire le sue cose alla squadra. «Mi concentrerò più sul futuro che sul passato».
William Bonnet ha sempre avuto l'inflessione da poliglotta della bici, la mania del tuttofare: non potrebbe mai aver rimpianti uno che è stato capitano prima, dove poteva, e poi gregario, ovunque: in volata, in salita, nelle classiche del nord, nei grandi giri; uno che sostiene di come, la più grande soddisfazione della sua carriera sia stata quella di sapersi rinnovare, di volta in volta, di stagione in stagione, persino di corsa in corsa. «Ho partecipato a eventi che non pensavo di disputare: tutti i grandi giri, tutte le monumento; sono passato da essere uomo da treno del velocista, a corridore da pavé, da corridore da Ardenne, a scalatore. Ogni volta una nuova sfida e ciò che mi aiutava di più a crescere era la fiducia che sentivo intorno».
Ecco, fiducia forse è la parola che identifica meglio quello a cui Bonnet è andato incontro per il suo mestiere di pedalare. E poi c'è la fortuna che gli ha fatto incontrare sul suo cammino Pinot come se il cammino di ognuno fosse fatto esattamente per incrociare quello della persona giusta. «Perché ci siamo trovati così bene assieme? Ci sono cose che non si possono spiegare. Pinot è una bella persona, matura, spontanea, ti dà molto in cambio. Assieme abbiamo vissuto emozioni folli in bici, ma soprattutto momenti di vita al di fuori delle gare che mi sono rimasti impressi. Lui sa quanto lo apprezzo, sa quanto ho sempre voluto aiutarlo e sacrificarmi per lui l'ho sempre ritenuto giusto. Perché non è solo come corridore che ti spinge a fare ciò. È l'uomo Pinot che ti segna, che ti ispira, che ispira tutti»
E il 6 ottobre è la data scelta per l'ultima corsa - la Milano-Torino, per farlo proprio di fianco a Pinot. Di quel giorno Bonnet descrive la mattina, uno striscione con dedica in suo onore, le ultime chiacchiere in gruppo alla partenza, persino i genitori per strada e poi l'ultimo posto: 109° su 109 al traguardo. «Era fuori discussione non la concludessi la gara. Mi sono voluto godere ogni attimo, ho visto i miei genitori a bordo strada, ho scambiato qualche parola con chi incrociavo per strada. Alla sera mi sono concesso qualche drink prima di ringraziare la squadra».
Soprattutto Pinot, con il quale in carriera ha corso assieme 268 volte. I due hanno diviso momenti di gioia, come momenti drammatici che sono quelli poi che nella vita tendono a cementificare di più i rapporti. Le lacrime di Pinot verso Tignes al Tour del 2019 o la caduta tremenda di Bonnet al Tour nel 2015 sono un esempio concreto. E Pinot ha scritto una lettera nei giorni scorsi per ringraziare quello che è un amico prima ancora che un compagno fedele, con la solita sensibilità che fa di Pinot una delle persone più interessanti del gruppo. Chiudiamo proprio con un omaggio di Pinot al suo ex capitano: «Sarebbe riduttivo parlare di Bonnet solo come corridore. Era ed è per me tuttora un fratello maggiore, una fonte di ispirazione. Sapeva come trasmettere un messaggio in poche parole e io ne ho sempre cercato di seguire l'esempio. Non dimenticherò mai tutto quello che ha fatto per me. I leader, in un gruppo, non sono sempre coloro a cui pensi guardando i successi, i risultati. William era un leader vero e volevo che tutti lo sapessero». William conosceva davvero il mestiere di pedalare.
Grazie ciclismo per questi momenti indimenticabili
9 Novembre 2021Pogacar,Alaphilippe,Roglič,Evenepoel,Caruso,Colbrelli,Lamon,Ganna,MIlan,Viviani,Consonni,Approfondimenti,van Aert,van der PoelBernal
Ciclismo e anno 2021 un binomio perfetto. Qualcosa che vorremmo riuscire a raccontare meglio ma forse più di ogni altro modo è stato lui a raccontarsi in maniera perfetta: esagerato, romantico, epico, preciso, spettacolare. Quello che abbiamo sempre chiesto e che spesso, nell'ultimo decennio, abbiamo solo visto (quando siamo stati più fortunati) a metà, relegato a episodi isolati.
Ciclismo e anno 2021 un pissi pissi bau bau tra due innamorati, e in mezzo noi; in realtà noi più che altro a fare da contorno ad applaudire; con gli occhi a cuoricino come la vignetta di un fumetto, persino il cuore che batte che pare uscire dal petto; o perché no, momenti irrefrenabili nei quali ci siamo alzati dal divano e non riuscivamo più a stare fermi nell'attesa di una volata, di un giro finale, di un centesimo in più o in meno, di un attacco decisivo, o anche scriteriato. A cercare con lo sguardo quel corridore su cui tanto puntavamo, a immaginarsi rimonte e rinascite, abbozzando per le delusioni, ma applaudendo tutti dal primo all'ultimo.
Ciclismo e anno 2021: un'intesa perfetta. Abbiamo provato a estrapolare alcuni momenti battezzandoli come “i momenti migliori della stagione”, ma potete immaginare quanto sia costato lasciarne fuori almeno altrettanti.
10) Bernal a Cortina (e sul Giau)
E chi se la dimentica quella giornata? Era il 24 maggio del 2021 e si imprecava perché le immagini non arrivavano: per via del maltempo non c'era copertura televisiva. Ci siamo affidati a una sorta di radiocronaca, come si usava una volta, ed ecco il gesto di Bernal che abbiamo definito quel giorno come di totale rispetto verso la corsa e i suoi tifosi; Bernal che sbuca sul nostro televisore solo nel finale, si leva via la mantellina nonostante freddo e fatica, con l'unico intento di mostrare la Maglia Rosa regalandoci una delle immagini simbolo del ciclismo 2021.
9) Roglič a Tokyo
Parrebbe uno sgarbo non inserire Roglič che in stagione ottiene 13 successi, uno più significativo dell'altro. Abbiamo scelto l'oro olimpico della prova a cronometro: perché è simbolo e perché vincere ai Giochi resta per sempre sulla pelle di ogni sportivo. Su un circuito pesante come un mattone, lungo e vallonato come una crono da Grande Giro, nonostante ciò, ahinoi ingenuamente pensavamo fosse tutto apparecchiato per Ganna, ma fu un dominio assoluto dello sloveno. 55'04'' il suo tempo volato via sopra i 48 orari di media. Oltre 1' sul secondo in un podio stellare, per una top ten degna di una prova di altissimo valore.
8 ) Viviani a Roubaix 2021
Il biennio a due facce di Elia Viviani vede dipinto il suo volto migliore in quel finale della corsa a eliminazione, solo pochi giorni fa, nel velodromo al coperto di Roubaix, mondiali su pista. Viviani che scalza via con una volata imperiosa il più giovane Leitão, come se la freschezza non contasse, ma solo colpo di pedale e talento; Viviani che da Tokyo in poi (bronzo nell'omnium, non va dimenticato) ha fatto nuovamente click: nella testa e nelle gambe. Viviani che a conti fatti porta a compimento una stagione iniziata fra i mugugni, conclusa con sette successi su strada, una medaglia olimpica e due mondiali su pista. Mica male.
7) Pogačar sul Col de Romme
Davanti c'era una fuga, mentre dal cielo pioggia grossa come biglie di vetro. E poi freddo e quindi mantelline, mica troppo normale a luglio seppure siamo sulle Alpi. Condizioni ideali per esaltare il ragazzetto col ciuffo biondo che spunta dal casco e che arriva (il ragazzo, ma volendo anche il ciuffo) dalle parti di Komenda, Slovenia. Siamo sul Col de Romme e mancano poco più di 30 km al traguardo: zona Pogačar. Lui attacca, stacca tutti, continua a guadagnare sul Col de la Colombière, devasta il Tour, prende la maglia gialla, alimenta (stupide quanto inutili) polemiche. Tra i suoi avversari diretti per la classifica generale il migliore è Vingegaard che paga 3'20''. Distacchi d'altri tempi per un corridore che riscrive la storia (di questo sport, sottolineiamo, altrimenti pare che esageriamo).
6) Van Aert Ventoux
E se si parla di storia (eheh) e Tour come non citare l'impresa di van Aert sul Mont Ventoux? Come non cantare le lodi di un ragazzo che, con la maglia tricolore belga, vince al Tour rispettivamente: in salita in fuga, dopo aver scalato il Mont Ventoux due volte e aver staccato fior fiori di corridori; a crono qualche giorno dopo; in volata sugli Champs-Élysées. Altro campione che pare essere arrivato da tempi diversi, ma in realtà è perché il ciclismo del 2021 è questo. Pochi calcoli, attacchi da lontano, corridori completi. La gente ringrazia.
5) Van der Poel Strade Bianche
E c'è Roglič, c'è Pogačar, c'è van Aert, non poteva mancare van der Poel. Era l'alba di una stagione magnifica e la Strade Bianche ci offrì uno spettacolo contornato da fuochi d'artificio. A giocarsi il successo il meglio del ciclismo mondiale con van der Poel che sullo strappo di Santa Caterina portava a scuola tutti, facendo segnare wattaggi mai visti. Staccava tutti, compreso Alaphilippe che poi qualche mese più tardi si rifarà invece con una serie di sparate delle sue. Di van der Poel si poteve mettere anche il sigillo sul Mur de Bretagne con quella maglia gialla simbolica a compimento di un finale lasciato in sospeso da nonno Poulidor. Abbiamo scelto gli sterrati senesi, non abbiamo fatto torto a nessuno.
4) Caruso al Giro 2021
Una delle emozioni più grandi di questo 2021 ce l'ha regalata Damiano Caruso al Giro d'Italia. Il suo podio non è figlio della retorica del gregario che finalmente si traveste capitano e vince, ma semmai è il sigillo di una carriera sempre ad alto livello. La vittoria sull'Alpe Motta con la curva dei tifosi che lo incita, la sua resistenza, l'aver staccato persino Bernal in maglia rosa ci danno la dimensione di quello che il corridore ragusano è. E secondo noi potrà ancora essere anche la prossima stagione, anche (o soprattutto) a 34 anni, nonostante il ciclismo dei giovani fusti.
3) Quartetto olimpico
Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon, Jonathan Milan: in rigoroso ordine alfabetico. La mattina dell'inseguimento a squadre a Tokyo è emozione pura. Lamon che lavora ai fianchi, poi si stacca, Consonni e Milan che fanno il loro lavoro pulito e di qualità, Ganna che trascina alla rimonta. E che rimonta! incredibile, impensabile a tratti insensata. Danimarca, dette Furie Rosse per un motivo, lo spauracchio da anni, i grandi favoriti: battuti sul filo dei centesimi. Una goduria che ci porteremo addosso tutte le volte che chiuderemo gli occhi e penseremo al 2021.
2) Mondiale su Strada (Da Remco a Julian)
E sì, perché domenica 26 settembre tra Anversa e Lovanio abbiamo assistito alla Corsa e non solo per l'assegnazione della maglia più bella del ciclismo (di tutto lo sport ?), ma perché due corridori hanno fatto in modo che difficilmente ce la dimenticheremo. Evenepoel ha esaltato; ha attaccato da lontanissimo come fosse uno di quei corridori di terza fascia che ci provano perché siamo a un mondiale ed è sempre bello portare in giro la maglia della propria nazionale; ha azzardato e non ha guadagnato, anzi, ancora oggi paga un presunto carattere poco accondiscendente secondo i due compagni di squadra che erano con lui nel finale (van Aert e Stuyven). Ma tant'è: a noi esalta con quel carattere che poi è il carattere del corridore vincente. Alaphilippe si è consacrato, invece. Ha attaccato tre, quattro, forse cinque volte: l'ultima è stata decisiva, nessuno ha avuto le gambe per seguirlo. Ci ha fatto letteralmente impazzire.
1) Colbrelli a Roubaix
E pensavamo di aver visto ormai tutto la settimana prima in quel bagno di umori e fragorosi pensieri. Pensavamo, in stagione, credevamo di aver visto un ciclismo italiano competitivo su (quasi) tutti i terreni. Pensavamo di non vincere più una corsa come la Roubaix poi è arrivato lui, Sonny Colbrelli e pochi minuti prima poteva esserci Moscon, ma la sfiga c'ha visto benissimo. Colbrelli invece è stato un sogno, per lui, per noi, per tutti.
Da sola verso l'oceano
Il viaggio di Noemi Giraudo, in bicicletta, verso l'oceano, ha a che vedere col tempo. Il tempo che sentiva di sprecare, che sentiva non appartenerle più. «Passavo le mie giornate chiusa in quattro mura a lavorare, guardavo il cielo fuori dalla finestra e non capivo cosa stessi facendo. Dopo tanto tempo ho lasciato un lavoro in cui non mi ritrovavo più, una decisione difficile, sofferta, sentivo il bisogno di andare via. Negli ultimi tempi facevo fatica anche ad alzare la cornetta del telefono per prendere un appuntamento». Quando ha scelto di caricare le sue borse su una bicicletta e partire verso Arcachon, verso le Dune du Pilat, si è chiesta da cosa stesse scappando. Non ha detto nulla a nessuno, tranne che ai familiari più stretti perché temeva di non arrivare; tutti sapevano che stava partendo, quasi nessuno che pensava all'oceano. «A ventisette anni non avevo mai trovato il tempo per vedere l'oceano e mi sembrava uno spreco. È stato bello sedersi alla scrivania e programmare questo viaggio. Mi è tornato in mente il primo viaggio in bicicletta che avevo fatto anni fa in Sardegna. Ero tornata piena di autostima e mi ero promessa che avrei fatto viaggi simili almeno una volta all'anno. Sono passati cinque anni e nessun viaggio. Fa riflettere».
Quattordici giorni, circa 1.100 chilometri, da Boves, in Piemonte, attraverso la Francia, da sola, con una tenda e diverse borse. Qualche timore solo la notte prima di partire, poi tutto è stato naturale. «Molti mi hanno fermato per strada e quando ho spiegato dove stavo andando mi hanno chiesto se non avessi paura, da sola, essendo donna. Mi sono arrabbiata più volte perché le donne hanno paura quanto gli uomini, sanno stare da sole e fare fatica. Io non avevo paura». Nemmeno il quarto giorno quando, vicino a Valence, il vento era così forte che la bicicletta non voleva proprio andare avanti. «Papà al telefono mi ha suggerito di prendere un treno e avvicinarmi così all'oceano. Non ci ho pensato nemmeno un minuto. Mi serviva quella fatica». La fatica, in questo viaggio in bicicletta, era leggera, non pesava. Nonostante l'autunno, gli abiti pesanti e il rischio di trovare brutto tempo, prima sulle Alpi e poi a plateau de l'Aubrac. Proprio qui, mentre la salita finisce e la strada spiana, Noemi vive uno dei momenti più belli: «Un'aquila ha volato per un attimo sopra la mia testa. In quel momento ho pensato a cosa sia la bicicletta. Questo mezzo che ti permette di viaggiare a piedi sollevati da terra».
L'oceano è la destinazione finale, ma Noemi non ci pensa molto durante il viaggio. «Volevo stare in quei luoghi e in quel tempo. Sono convinta che crescendo abbiamo perso la capacità di vivere ciò che ci accade. Ci proiettiamo avanti o indietro e non vediamo ciò che ci passa sotto il naso». Questo è un problema, anche se ciò che abbiamo davanti è noioso. In questo viaggio, la noia è arrivata nelle lande: 129 chilometri di rettilinei, tra i pini marittimi. Devi cercare un punto e focalizzarti su quello, altrimenti non pedali più.
Passano i campeggi, le tende e anche qualche casa. Warmshowers, un'applicazione attraverso cui viaggiatori mettono a disposizione la propria casa per altri viaggiatori, le fa conoscere una famiglia francese che la ospita una sera. «A cena a parlare dei loro viaggi, delle nostre lingue e di dove stessi andando. Ero a casa loro ma mi hanno fatto sentire a casa mia». Come quella serata trascorsa con ragazzi che stavano percorrendo la parte francese del cammino di Santiago, mentre fuori c'erano meno sei gradi e un tempo da lupi. «Ho scoperto Le Puy en Velay, ma soprattutto ho capito l'enorme potere che abbiamo nelle mani: far sentire qualcuno a casa, l'ospitalità».
E ancora i saluti «perché anche la vecchietta che sta chiudendo la porta di casa ti saluta quando ti vede» e le strade di campagna. «Avrò percorso due chilometri con un'auto alle mie spalle, una stradina strettissima dove era impossibile superarmi. Temevo mi suonasse il clacson. Invece no, ha atteso, senza fretta. La Francia è piena di ciclabili, le strade sono vissute in funzione della bicicletta, gli automobilisti mettono la freccia a destra per segnalare il ciclista».
Infine gli ultimi sessantacinque chilometri fatti tutti d'un fiato e l'uscita dalla foresta. «L'oceano appare all'ultimo e il vento oceanico è talmente forte da spingerti indietro». Noemi sale su quella duna, guarda l'acqua e telefona a sua madre. Quello che ha pensato davanti all'Oceano è difficile da raccontare perché, in fondo, appartiene solo a lei. Qualcosa da dire, però, c'è. Per esempio, dell'autostima che torna quando ti accorgi che andare via non vuol sempre dire scappare, vuol dire solo trovare un nuovo modo di vivere le cose. Quello che abbiamo il dovere di fare tutti quando la vita ci scappa dalle mani. «Potrei dire che un viaggio così lo consiglio a tutti. In realtà dico di pensarci perché ti mette alla prova, resti solo e rischi di stare peggio. A me la solitudine fa bene, non so ad altri. Quello che consiglio a tutti è di ritrovare il tempo per se stessi».
Mungere le vacche
6 Novembre 2021StorieArnaud de Lie
Arnaud de Lie deve ancora farsi conoscere dalla più vasta platea dei ciclofili - non potrebbe essere altrimenti: esordirà tra i professionisti nella prossima stagione con la maglia della Lotto Soudal e presumibilmente lo farà prima di compiere 20 anni (è nato nel marzo del 2002).
Di recente, nell'intervista che ha rilasciato a DirectVelo, ci ha colpito qualche passaggio da cui emerge un personaggio che, con ogni probabilità, sarà tutto da seguire.
MUCCHE - De Lie vive a Vaux-sur-Sûre un piccolo villaggio della Vallonia. Suo padre ha una fattoria e Arnaud, sin da quando ha 4 anni, la mattina si sveglia presto per dare una mano con le bestie. Lo ha fatto anche prima di conquistare la sua più prestigiosa vittoria sin qui: la Omloop Het Nieuwsblad Under 23. «La mattina della gara, prima di viaggiare per Grotenberge mi sono svegliato presto e sono andato a mungere le vacche». Quel giorno De Lie vinse la volata del gruppo pur sentendosi particolarmente stanco durante la gara. Chissà perché.
Racconta, de Lie, di farlo praticamente tutti i giorni, si sveglia all'alba, munge, torna a casa e poi è pronto di nuovo per uscire, ma dall'anno prossimo sarà più complicato visto l'impegno nel World Tour. «Il problema sarà doverlo dire a mio padre. Con il mio DS della Lotto ne abbiamo già parlato in passato e abbiamo ridotto il carico di lavoro: solo che io lo faccio volentieri, perché, quando hai un padre che ti dà tutto, è giusto ricambiare».
VITTORIE - Ha vinto moltissimo in stagione, anche se avrebbe preferito persino di più viste le caratteristiche da velocista resistente. 10 vittorie in tutto e qualche rammarico. «Al mondiale nelle Fiandre è stata la più grande delusione della mia vita». Cadde, sprecò energie per rientrare e non poté essere d'aiuto nemmeno per la squadra.
AMBIZIONI - Dall'anno prossimo sarà il secondo velocista della Lotto, il leader sarà un certo Caleb Ewan. Alla domanda sul come farà a gestire le volate visto che il treno sarà in blocco per il corridore australiano, sentenzia: «Meglio così. Preferisco gestirmi la volata da solo: non ho bisogno di compagni che mi aiutano nell'ultimo chilometro. Forse qualcuno che mi aiuta in gara a non prendere buchi quello sì».
LEFEVERE - Infine il suo temperamento sfocia raccontando un aneddoto su Lefevere: «La Quick Step mi ha cercato, ma io ho scritto su Instagram un messaggio privato a Lefevere dicendo di smetterla di perdere tempo che tanto avrei firmato con la Lotto». Così.
Foto: Gregory Van Gansen/PN/BettiniPhoto©2021
Ian Boswell, come tagli in un tronco d'acero
5 Novembre 2021GravelIan Boswell
Il Vermont non poteva che essere casa per Ian Boswell. Da anni, ormai, Boswell abita in una casa rurale, fra i boschi del nord est degli Stati Uniti. Sono stati quei boschi e quelle strade sterrate a dargli il coraggio di dire basta al ciclismo professionistico, nel 2020, dopo il terribile incidente che lo coinvolse alla Tirreno Adriatico dell'anno precedente. Da quel giorno, molte cose che prima sembravano facili sono diventate complesse, parlare con più persone nello stesso momento stancante, ha bisogno di scrivere gli impegni della giornata per restare concentrato e di indossare particolari occhiali per leggere. La commozione cerebrale riportata nella caduta ha causato danni permanenti: Boswell non riesce più a stare in mezzo al traffico e, quando vede qualche gara in televisione, teme la velocità, le cadute. Da quel giorno non è il ragazzo che tutti credono di conoscere, magari solo perché lo hanno visto alzare al cielo le braccia impolverate dalla ghiaia alla Unbound Gravel 2021, solo perché lo hanno visto domare quei chilometri di strade sterrate con apparente facilità.
«All'inizio - spiega in un'intervista a Cyclist UK- accettavo le cadute come rischio del mestiere. Mi dicevo che io ero questa cosa qui e che ero disposto a mettere in conto le cadute, persino la morte. Quando sono caduto, avrei subito voluto tornare in sella, non pensavo ad altro». Ma la realtà ritorna. I primi allenamenti dopo la riabilitazione sono impossibili, Boswell ha bisogno di fermarsi, la fatica è esasperata. Come un'incisione nel tronco di uno dei tanti aceri della terra di cui Boswell è diventato figlio. Così annuncia il ritiro, dice che tornerà in quei boschi, che sente il bisogno di scoprire quelle strade sterrate fuori da casa. Forse avrebbe dovuto credere più in se stesso durante la sua carriera, avrebbe dovuto credere al bambino che era e che sognava, un giorno, di andare al Tour de France ma anche diventare adulti ha un prezzo da pagare. Orgoglioso di aver corso in Sky, di aver vinto e anche di aver mollato.
«Bisogna imparare a lasciare che il corpo sia la nostra guida. È difficile» dice oggi. Perché chi sa delle incisioni nei tronchi d'acero del Vermont, sa anche che da quei tagli si ricava lo sciroppo d'acero. C'è qualcosa da salvare anche nei tagli, anche se Ian Boswell non è più l'uomo di prima e tanti ragionamenti, forse, un tempo non li avrebbe nemmeno fatti. Oggi li fa, mentre taglia la legna e prepara i ciocchi che finiranno nel camino per l'inverno che verrà. «Ci sono molti atleti che percorrono la stretta linea di confine tra velocità e cadute: io non ho più il desiderio di correre quel rischio». Le gare di gravel, quelle che ha scelto per ripartire, lo fanno sentire sicuro perché raramente si finisce nella pancia del gruppo, spesso si arriva da soli, non ci sono volate, non c'è quella velocità e quello sfiorarsi di equilibristi senza rete. «Sono più lunghe, forse più faticose, ma il problema non è la fatica. Non sento più il bisogno di andare come un dannato a tutti costi. Se mi sento insicuro, se ho paura, so che posso frenare, rallentare. Mi prendo questo permesso».
Nonostante ciò, continua ad allenarsi, a correre, a progettare e anche a vincere. Il 5 giugno del 2021 ha superato Lawrence Ten Dam, bruciando tutta l'energia che aveva in corpo nel finale della Unbound Gravel, a Emporia, in Kansas. Ha gridato solo “Yeah”, una liberazione e una conferma. Perché capire, non significa rinunciare.
Già, perché anche il dolore ha un confine da non superare. Oltre quel limite, soffrire non ha alcun senso. Diventa pericoloso. Anche gli aceri con meno di quarant'anni non vengono incisi. C'è una ragione, c'è la ragione da seguire. Se Ian Boswell dovesse cadere ancora, se dovesse picchiare male la testa, i rischi per lui sarebbero ben peggiori di quelli che sta affrontando: potrebbe non risalire più in sella e questo no, non avrebbe proprio alcun senso. «Una volta non me ne accorgevo, ora vedo tutti i piccoli rischi che ci sono sulla strada. Il mio cervello si rifiuta di far finta di niente». Per questo Ian Boswell sa di aver fatto la scelta giusta.
Foto: account IG unboundgravel
Alex Dowsett c'è riuscito lo stesso
4 Novembre 2021CorseRecord dell'ora,Alex Dowsett
Abbiamo visto Alex Dowsett provarci. Era quel ciclista velocissimo e appallottolato ieri notte dentro una divisa rosso vinaccia e nera, che girava e girava dentro il velodromo di Aguascalientes, Messico. Lo abbiamo visto andare oltre la prestazione di Victor Campenaerts per 150 giri, con un picco iniziale di 56,9 km/h e poi una bella media record che si assestava intorno ai 55,2.
Lo abbiamo visto calare, quasi all'improvviso, in quello sforzo assurdo dove le gambe fanno così male che te le strapperesti di dosso, la vista e i pensieri sono come nebbia burrosa, le spalle iniziano ad ondeggiare, ti fai domande, non ottieni risposte, hai la bocca spalancata perché i polmoni che bruciano richiedono ossigeno, ti guardi attorno e non dovresti, e iniziano a mancarti le forze.
Lo abbiamo visto, Alex Dowsett, percorrere 219 giri e chiudere in 54,555, nuovo record personale e britannico (se si può consolare e lui si ritiene, giustamente, soddisfatto) a mezzo chilometro dalla migliore prestazione mondiale di Victor Campenaerts (55,089 km) .
Lo abbiamo visto scendere dalla bici, Alex Dowsett, distrutto, aiutato dalla moglie e dal suo allenatore, ma con l'idea di averci provato. E per noi c'è riuscito.
Lo abbiamo visto farsi intervistare e dirsi orgoglioso della sua prestazione, ma in generale di tutto quello che ha fatto in questi anni, in queste settimane: «Il messaggio più importante che voglio inviare è che chiunque abbia l'emofilia, chiunque abbia una condizione rara, chiunque stia affrontando qualsiasi tipo di avversità, beh, dico solo: provateci. Perché il più grande fallimento oggi sarebbe stato non essere qui».
Abbiamo visto Alex Dowsett sensibilizzare l'opinione pubblica su una malattia che lo affligge dalla nascita ma che contro ogni idea non gli ha precluso di diventare un ciclista molto competitivo. «Grazie all'aiuto della mia famiglia non solo siamo riusciti a trasformare in positiva una condizione negativa, ma abbiamo ottenuto il meglio assoluto».
Lo abbiamo visto raccogliere fondi per la sua campagna mirata a sostenere i giovani con disturbi emorragici e a supportare le loro famiglie (nel momento in cui scriviamo ha raccolto oltre 30.000 sterline quando l'obiettivo era di raccoglierne 15.000, e il contatore sale): la vittoria più grande, forse l'unico, vero, grande traguardo di questi giorni.
Alex Dowsett, a prescindere dalla prestazione finale (che forse un po' brucia dal punto di vista agonistico, ma tant'è, e a noi non piace sentire parlare di "fallimento"), è andato forte, e noi siamo orgogliosi di raccontare la sua storia, supportare il suo messaggio, sostenere quello che sta facendo.
Foto: Jesus Gonzalez
Il record dell'ora per Alex Dowsett
3 Novembre 2021StorieDowsett,Record dell'ora
Alex Dowsett dice: «Sì, sono pronto per la sfida». Prendete nota: domani sera, quando da noi saranno circa le 23, proverà ad agguantare quel record dell'ora che fu suo per un regno più breve di quello di Pipino IV: era il 2 maggio del 2015, quando Dowsett firmò, nel velodromo di Manchester, 52,937 km.
Migliorò di quasi mezzo chilometro la prestazione che Rohan Dennis stabilì nel febbraio di quell'anno - che fermento il 2015 per il record dell'ora! Ma il primato di Alex Dowsett durò il tempo di qualche intervista, servizio speciale, un po' di fama, un battito di ciglia; durò un mese e qualche giorno, per la precisione un mese e un po'.
A Londra, infatti, il 7 giugno del 2015, (Sir) Bradley Wiggins migliorò quel risultato. Nettamente: 54,526 km. «Quando ho fatto il record nel 2015 sono andato abbastanza forte, ma sapevo di averne ancora alla fine» raccontò Dowsett qualche tempo dopo in risposta alla prestazione di Wiggins; un po' amareggiato, più o meno avrà detto così: “I am a little bit disappointed”. «La cosa è stata frustrante perché tutti abbiamo lavorato per fare il meglio possibile» riportano più precisamente i giornali.
Disse però che ci avrebbe riprovato, così come dirà spesso di sentirsi un privilegiato per avere la possibilità di farlo, e domani ci proverà con a fianco sua moglie Chanel che lo sta aiutando in tutto per tutto nella preparazione dell'impresa, e con il suo coach Michael Hutchinson: calzoni corti, capello biondo lungo che corre appiccicato alla faccia, sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole e che a ogni giro gli darà un feedback sulla prestazione: «Lui starà lì a darmi indicazioni: finché mi atterrò alla tabella di marcia potrò stabilire il nuovo record».
Come voleva riprendersi quel record il 12 dicembre del 2020, pungolato, poiché Campenaerts si era permesso di spostare ulteriormente l'asticella verso l'alto. Ma il Covid lo fermò: «È un tipo di gara che amo e ci riproverò ancora» dirà all'indomani di quella rinuncia.
33 anni - compiuti da poco - Dowsett, attualmente corridore della Israel StartUp Nation, combatte con l'usura di una lunga carriera su strada che gli ha visto anche vincere due tappe al Giro e spesso lottare per trovare un contratto da una stagione all'altra. «Decisiva la vittoria di tappa nella Corsa Rosa del 2020: è stata dura perché nostra figlia stava per nascere e pensavo che la mia carriera ciclistica stesse finendo. Il problema è che dal ciclismo arriva l'unico reddito che abbiamo mia moglie e io» ha raccontato nelle scorse ore al The Guardian.
La sfida domani per Alex Dowsett sarà riprendersi quel record che, dopo Wiggins nel 2015, passò, come detto e come noto, sulle spalle larghe e l'andamento un po' bizzarro di Campenaerts nel 2019. Il belga lo stabilì ad Aguascalientes, Messico, proprio dove Alex si sta preparando in questi giorni; si sta adattando all'altura ed è pronto a scrivere per la seconda volta il suo nome in quel lungo elenco di “detentori del record dell'ora”. Campenaerts, per dovere di informazione, prese a picconate il muro dei 55 km firmando un incredibile 55,089 km.
La sfida per Alex Dowsett parte da lontanissimo prima di arrivare “laggiù”, il termine che userebbe Truman Capote, come fece in uno degli incipit più belli della storia della letteratura moderna.
Alex quando aveva un anno e mezzo di vita cadde, si ruppe un labbro, iniziò a sanguinare. Il problema è che quell'emorragia sembrava non arrestarsi mai. «Ha una grave forma di emofilia» dissero i medici ai suoi genitori e Alex crebbe così velocemente che all'età di nove anni imparò a farsi la così detta auto-infusione, da solo. «A volte quando sanguinava, perlopiù accadeva dal gomito sinistro o dalle caviglie, faceva di tutto per nasconderlo» raccontano mamma e papà Dowsett.
Lo sport lo ha aiutato in ogni modo, ed è incredibile pensare a dove è riuscito ad arrivare con questo tipo di malattia. Papà Phil, grande appassionato di motori ed ex pilota di British Touring Car lo ha spinto a essere competitivo, trasmettendogli la passione per velocità, competizione, numeri. Ha praticato nuoto, tennis, ma è stato nel ciclismo che Dowsett ha trovato il suo progresso: «Non ho mai conosciuto la vita senza emofilia, quindi non posso confrontare la mia esistenza con le esperienze di qualcun altro. Quello che posso dire è che una vita in cui ti viene detto cosa non puoi fare ti fa venir voglia di andare là fuori e mostrare al mondo cosa invece puoi fare, e il ciclismo è diventato un'ancora di salvezza, un modo per dimostrare che si può. Tutto».
E attraverso il ciclismo che ha portato in giro il suo messaggio: «Grazie ai miei risultati spero di ispirare le altre persone affette da emofilia» resta uno dei suoi refrain e uno degli obiettivi dietro l'organizzazione di questo evento, non solo sportivo. Perché grazie a quello che ottiene in bicicletta riesce a far conoscere in giro il suo progetto di beneficenza (https://www.littlebleeders.com/) e il lavoro fatto per The Haemophilia Society.
E tutto passerà da domani sera in Messico: con il suo nuovo tentativo di battere il record dell'ora, un hashtag, #hourofbloodswettandtears, da far girare; una prova che spinge in là il limite del ciclista, affascinante quanto basta, a tratti drammatica nella sua durezza incomprensibile.
È arrivato il momento di riprendere quel lavoro interrotto sei anni fa: e se ci fosse di nuovo il suo nome di fianco a quello di detentore del record, a noi non dispiacerebbe affatto, anzi.
Forza Alex, c'mon Alex: harder, better, faster, stronger.
Se volete seguire in diretta il tentativo di Alex Dowsett potete farlo dalle 22.35 di domani sera sul suo canale YouTube https://www.youtube.com/alexdowsettofficial
La gerarchia prima di tutto: intervista a Fausto Masnada
1 Novembre 2021StorieIl Lombardia,Deceuninck-Quick Step,Masnada
Il senso di rispetto di Fausto Masnada per i ruoli appare evidente, lapalissiano, quasi eclatante: «Siamo pagati per rispettare i compiti assegnati: uomo squadra, seconda linea, gregario, definitemi come preferite. È vero: è importante avere ambizioni personali, però bisogna essere realisti, sono in un grande team con grandi capitani ed è giusto rispettare ciò che ci viene chiesto».
Corridore sempre a disposizione per la sua squadra «e miei compagni lo sanno. Al termine del Lombardia sono uscite fuori polemiche inesistenti: Alaphilippe e gli altri ragazzi della Quick Step erano felicissimi del mio risultato e per come era maturato. A me non piace fare il furbo e prima di provare in prima persona avevo lavorato come mi era stato richiesto. Poi quel giorno stavo particolarmente bene anche se in partenza le gerarchie erano altre».
Inevitabile partire proprio da quel risultato maturato sul traguardo di Bergamo: 2° posto dietro Pogačar, una delle prove più convincenti della carriera del 28enne che proprio su quelle strade ha vissuto la maggior parte della sua vita, agonistica e non. «Mentirei se dicessi di non essere rimasto un po' deluso. Ma cosa ci vuoi fare: ha vinto uno dei corridori più forti del gruppo, uno che oltre ad avere la gamba ha una testa incredibile». Per Masnada, infatti, quello che caratterizza il 23enne sloveno è l'intelligenza: «Non vinci due volte un Tour se non hai anche la testa per farlo. E nel finale contro di me ha mostrato furbizia e freschezza».
Racconta, Masnada, puntuale e preciso, la preparazione e lo svolgimento dell'ultima Monumento della stagione: «Come ho detto la gerarchia in squadra era stabilita. Tre punte: Remco, Almeida e Alaphilippe e io in seconda battuta. Stavo bene ("benissimo!" gli diciamo noi); il mio compito era stare con le antenne dritte e muovermi dalla media distanza da Dossena in poi. Quando è partito Tadej sulla salita di Orezzo ho avuto il via libera da Bramati per fare la mia corsa».
D'altra parte, aggiunge Masnada, in corsa a volte le strategie prestabilite possono essere rimescolate. «Non tutti possiamo partire con il ruolo del leader, ma capita che uno dei capitani designati non si senta bene, oppure che la corsa prende una certa piega: la nostra forza in squadra è quella di essere un gruppo compatto, affiatato, ci parliamo spesso e se hai la tua opportunità come è successo con me al Lombardia allora devi essere pronto a coglierla». La pazienza come canone, la disciplina per alimentare la forza interiore.
E giù dal Passo Ganda, nella discesa del Selvino, Masnada, bergamasco doc, le sue carte se le è giocate come un abile prestigiatore, tracciando linee, prendendo rischi calcolati e riuscendo a piombare a fine discesa su Pogačar. «Quelle strade le conosco a memoria: capitava, quando mi allenavo da questa parti, di fare anche una cinquantina di volte all'anno il Selvino. Sono sceso con intelligenza, ma fondamentale doveva essere rientrare prima del tratto in pianura, altrimenti avremmo dovuto cambiare spartito».
Ma nel finale non c'è stato nulla da fare, Pogačar si è gestito in pianura, ci racconta ancora Masnada, tirando sempre con un certo margine: «E sulla Boccola ha fatto un'andatura pazzesca: ho raggiunto un wattaggio che non avrei mai creduto dopo sei ore di corsa», ma il segreto dietro quei numeri è stata anche la spinta del pubblico. Bandiere, urla, cappellini, tifosi ovunque. Davanti Pogačar seduto, potente, a scandire il ritmo, con una accenno di bocca aperta, dietro Masnada in piedi sui pedali, i denti di fuori. Si direbbe: a tutta. Forse di più. «Quanta gente che c'era a spingermi per tutto il percorso! Emozioni immense, indescrivibili. I bergamaschi sono tutti grandi appassionati di ciclismo, ma quello che ho visto in gara ha dell'incredibile. Sulla Boccola sono salito grazie al tifo del pubblico che mi ha fatto passare il mal di gambe e mi ha spinto fino in cima».
Una stagione chiusa bene, in crescendo (prima del Lombardia, Masnada volava, letteralmente, anche alla Milano-Torino), ma che lo vede soddisfatto a metà per via dei problemi fisici avuti al Giro, chiuso in anticipo per una tendinite dopo essere partito da Torino con l'influenza, e per una frattura rimediata alla Settimana Ciclistica Italiana in Sardegna che gli ha fatto saltare la Vuelta.
Ma nel 2021 ha potuto approfondire le conoscenze su due compagni di squadra per i quali ha lavorato in più fasi, in modo egregio. «Differenze fra Almeida e Evenepoel? Intanto le similitudini: hanno un talento incredibile e sono così giovani che ancora devono imparare a correre da capitani. Almeida è tranquillo, quasi pacato. Trasmette serenità in corsa. Evenepoel ha una forza devastante in tutti sensi: nervoso, istintivo, a volte non si riesce a farlo ragionare. Testardo, emana cattiveria agonistica e quando corri per lui ti senti ancora più motivato e concentrato perché trasmette professionalità e ti motiva con la sua stessa grinta».
Chiediamo a Masnada quale futuro, quali margini, quali obiettivi per lui. Al solito è laconico, essenziale; vola basso, ma più che dimesso appare concreto e ambizioso: «Anno dopo anno sto crescendo: mi pongo obiettivi nuovi che servono per stimolarmi, diventare ancora più forte e tirare fuori il meglio da me stesso. E questi miglioramenti sono la benzina che mi motiva ad andare avanti. È vero: ho fatto 2° al Lombardia e voglio continuare a migliorare, ma niente voli pindarici, preferisco commentare dopo una corsa che fare dei pronostici prima».
Gli piacerebbe fare il Giro nel 2022, anche se i programmi non sono stati stabiliti, la corsa alla quale si sente più legato e che sente più adatta. «Però, se mi dovesse essere chiesto di fare il capitano al Giro, mi farò trovare pronto».
Muretti Madness
30 Ottobre 2021ProgettiMuretti Madness
La storia di Muretti Madness è in realtà la storia di quattro ragazzi, studenti di Architettura all'Università di Firenze. Ce la racconta Matteo Pierattini, ancora in studio, a progettare, a sera. «Eravamo tutti appassionati di ciclismo, ma, come abbiamo iniziato a lavorare, il tempo per pedalare scarseggiava. Non volevamo rinunciarci, così siamo andati sui muri attorno a Firenze. Lì pedali un paio d'ore e ti sembra di aver fatto tutto il pomeriggio in bicicletta». Muretti Madness è proprio questo, un elogio alla lucida follia di chi, un sabato di ottobre, percorre 120 chilometri attraverso quelle mura, 25 muretti, più di 3500 metri di dislivello, circa otto ore in bicicletta, senza alcuna ricompensa. «Se ci pensi, la fatica del ciclismo è totalmente irrazionale. Se ti chiedessi chi te lo fa fare, rinunceresti. La fatica degli eventi come Muretti Madness è forse la più bella perché non vuole nulla in cambio». Pierattini se l'è chiesto: «Se mi avessero proposto una cosa di questo tipo, l'avrei fatta? Sì, ho noleggiato un furgone e ho viaggiato quindici ore in piena notte per andare in Belgio a vedere le Classiche del Nord. L'avrei fatta».
Perché Muretti Madness è un evento, non è una gara, non c'è competizione. Nato otto anni fa, quando appuntamenti così erano rari, con un'idea precisa: pedalare duro, “pedalare tosto”, come dice Matteo con un'inconfondibile cadenza toscana, assieme ad altri che condividono qualcosa con te. «Una visione del mondo, della fatica. Se si ascoltassero le voci degli iscritti, non si sentirebbe mai parlare di watt, potenza o velocità. Li senti commentare il percorso o i paesaggi. Li senti raccontarsi storie e problemi, perché condividere la fatica ti dà questa fiducia. Siamo partiti in dieci, quasi un gruppo di amici, quest'anno settecento persone hanno pedalato sui muretti. C'è una magia in questo». Matteo sostiene che questo segreto risieda nella bellezza, perché fai fatica volentieri se sai che qualcosa di bello ti aspetta.
«Sono i paesaggi e anche i muri. Queste stradine strette, meravigliose, che certe volte non sono conosciute nemmeno dai fiorentini. Ho girato molto per scoprirle, luoghi come Monteripaldi e la vecchia Fiesolana vengono da quei giri. Perché la Muretti l'abbiamo inventata, ma, soprattutto, abbiamo continuato a pedalarla ogni anno. A viverla da dentro».
La festa finale, come i ristori, è studiata attraverso questa bellezza. Si scelgono locali dall'aspetto famigliare, gestiti da qualcuno che conosca il ciclismo, che sappia che persone sono i ciclisti. Ai ristori c'è cibo genuino: un panino col prosciutto o con la marmellata, una torta fatta in casa. «Nutri il corpo, le gambe, ma anche la testa, che può liberarsi per qualche istante di tutte le difficoltà che ciascuno fronteggia». Dicono che Muretti Madness sia un piccolo Fiandre e in un certo senso il paragone è inevitabile, Matteo, però, aggiunge qualcosa. «Molte di quelle stradine sono quelle su cui Ginettaccio Bartali si allenava, affacciate su Firenze. Ho immenso rispetto per il Fiandre, affetto, anche. Ci sono dei punti in comune, ma restano cose diverse. Dovremmo imparare ad essere orgogliosi di ciò che facciamo, che creiamo, senza doverlo per forza paragonare ad altro. In Italia c'è una grande cultura ciclistica».
Per questo Matteo Pierattini augura a Muretti Madness di durare nel tempo e di diventare qualcosa di permanente. «Sarà un percorso che inizieremo dal prossimo anno, innanzitutto a livello legale. Vorremmo che questi tracciati restassero permanenti e fossero punti di visita per coloro che passano da Firenze. In un certo senso un dono a Firenze e a chi, come noi, ha voglia di fare fatica in bicicletta, ma non ha molto tempo». Ogni anno, i ragazzi di Muretti Madness cercano un muro nuovo, una strada mai esplorata e lo fanno per chi arriva da lontano. «Ci sono persone che partono da Milano, da Bergamo o dalla Sicilia, che viaggiano in treno la notte del venerdì, dormono tre ore e poi pedalano. Abbiamo il dovere di dare qualcosa a chi arriva qui dopo tanti chilometri e magari torna ogni anno. Noi abbiamo scelto di portarli a vedere un posto nuovo, un luogo in cui non erano mai stati». C'è il pacco gara, magliette e cappellini, l'avventura e la voglia di vedere le persone felici.
Durante la pandemia, Muretti Madness si è svolta nella sua versione diffusa, in modo da non creare assembramenti, non rinunciando ad andare in bicicletta. «Ci spiaceva rinunciare e le persone hanno capito. Sono venute in tante, hanno visto l'atmosfera serena, tranquilla di queste vie. Qualcuno lo abbiamo incrociato ed era felice. Credo basti dire questo». In otto anni, sono cambiate tante cose. Alcuni di quei ragazzi della facoltà di Architettura hanno avuto figli, Matteo stesso ha una bambina e non vede l'ora di farle conoscere Muretti Madness. «Quest'anno sarebbe potuta venire con noi, ma aveva la febbre, una brutta bronchite. La porterò presto. Anche questo è bello, vedere che questa avventura che ci è scoppiata fra le mani continua e resta salda fra tutto ciò che cambia. Ha preso una fetta importante delle nostre vite. È cresciuta e ci ha cresciuti. Perché da quei muretti abbiamo imparato tanto e continuiamo a imparare».
Tour, infortuni e sofferenza: lo stallo alla messicana di Chris Froome
28 Ottobre 2021StorieTour de France,Froome
Soffrire, soffrire, soffrire. Scritto tre volte ma forse non basta. Quanta banalità all'apparenza - sembra sempre la solita solfa – dietro questa parola ripetuta come una nenia, ma è da qui, all'occorrenza, che parte ogni corridore.
D'altra parte cos'è il ciclismo se non atletismo, fantasia e sofferenza? Se vi siete mai allenati in bicicletta sapete di cosa parliamo, se avete mai provato a mettere vicino qualche chilometro magari condendolo con qualche salita, magari avete beccato la pioggia, magari vi siete districati su un tratto di lastricato, non potete che immedesimarvi in questo stereotipo.
Il soffrire per un corridore professionista con un passato importante è spesso finalizzato al tornare (o a provare) a essere quello che è stato, riassaporare la vittoria o arrivarci vicino. Soffrire per superare quella soglia, arrivare in cima e dire: ce l'ho fatta. Maledire – a tratti - quei momenti in cui si sale in bici, o si sceglie quel mestiere; ripensare al passato, gettare le basi nel presente per ricostruire il futuro, anche quando ti analizzi e pensi: ho quasi trentasette primavere, dove posso andare in un ciclismo dove si vincono i grandi giri appena superati i vent'anni?
Chris Froome riparte proprio da questi pensieri, si riempie d'orgoglio raccontando la propria sofferenza. Parole sue, testuali. La sofferenza l'ha messa al centro del discorso in una lunga intervista rilasciata a Cyclingnews nei giorni scorsi.
«La sofferenza - racconta Froome che tra 2011 e 2018 ha vinto 4 Tour, 2 Vuelta, 1 Giro - ha dato una nuova prospettiva alla mia carriera e alla mia vita». Dice che soffrire gli ha fatto capire quanto debba essere grato per i privilegi che ha vissuto e vive; che vuole sfruttare questa seconda occasione che ha avuto come ciclista professionista. «So che molti non lo capiscono – aggiunge - e questo mi dà ancora più forza per tornare al mio vecchio livello»
E riparte da una sorta di stallo alla messicana, cliché cinematografico che dagli anni '90 è stato riproposto in maniera assidua da Quentin Tarantino: Froome, infortuni, sofferenza e Tour de France come quattro temerari dal linguaggio un po' sboccato e magari dalla battuta piccante e fuori luogo e che si puntano la pistola addosso, l'uno verso l'altro, e sembra non ci sia modo di uscirne.
Ma ci crede Froome. Ha intenzione di uscirne. Che ce la faccia o no, ha intenzione di fuggire come Mr Pink o Mr Blonde, col bottino in mano o come voleva una certa parte di narrativa messicana: con i soldi o con la vita. «Non c'è alcuna garanzia di poter vincere un altro Tour, dopo quello che è successo e quello che ho passato. Lo so, ma rimane il mio obiettivo. Questo è ciò che mi spinge a dare il 100%» riflette il corridore della Israel.
Da giugno 2019 a giugno 2021, dall'infortunio al Delfinato alla preparazione verso il ritorno al Tour, racconta di aver sentito finalmente la gamba ferita mettersi alla pari con tutto il resto del corpo. «L'incidente nella prima tappa di quest'anno però ha nuovamente ribaltato i miei piani. Non fossimo stati al Tour mi sarei ritirato. Ero ferito dall'anca fino al gluteo, sentivo tanto dolore fino alle costole». E invece ha stretto i denti, fino all'ultimo giorno: «Arrivare a Parigi è stata una vittoria personale fondamentale».
E quei giorni di gara a fine stagione sono diventati 68, mica pochi. Da questi numeri riparte come base per essere al meglio in vista del futuro.
Froome insiste e insisterà per provare a vincere di nuovo il Tour (sic): «Nel 2022, l'anno dopo, o l'anno dopo non importa. Ciò che conta è che continuerò a lavorare fino a quando non mi renderò conto che non sarà più possibile. Questo è ciò che mi fa salire sulla mia bici ogni giorno».
Questo è ciò che intende Froome per uscire dallo stallo in cui si trova. Questo è ciò che lo spinge ogni giorno a superare i limiti imposti dalla sofferenza. Ce la farà?
Foto: A.S.O./Bruno Bade